Ciò che potrebbe risultare – almeno a prima vista – un po’ assurdo al lettore abituato a divincolarsi fra concetti ormai familiari, quali decrescita, consumismo o produttivismo è il fatto che non tutta la crescita economica è negativa e quindi non tutta la crescita ha effetti devastanti sull’ecosistema e la vita dell’uomo. Ma per capire meglio questa affermazione occorre soffermarsi un po’ più del solito sul concetto che sta alla base di tutto il discorso decrescentista, ovvero sulla definizione di PIL, l’indicatore principe di tutte le discussioni politiche ed economiche dei nostri giorni.
La produzione aggregata (meglio conosciuta come PIL) può essere considerata secondo almeno tre definizioni, tutte e tre utili se riusciranno nel difficile compito di chiarirci finalmente qual è l’agognato oggetto delle nostre riflessioni più agguerrite. Dal lato della produzione, si definisce PIL il valore di tutti i beni e i servizi finali prodotti dall’economia in un dato periodo di tempo (cioè senza considerare i cosiddetti beni intermedi). Per fare un esempio, nel caso in cui dovessimo considerare la filiera automobilistica, l’automobile è il prodotto finale, mentre l’acciaio, i pneumatici, i vetri o l’energia necessaria a produrla i prodotti intermedi. Sempre considerando il PIL dal lato della produzione, una seconda definizione è quella che considera la somma algebrica del valore aggiunto in un dato periodo di tempo. Infine, il PIL può anche essere visto dal lato del reddito, ed in questo caso il Prodotto Interno Lordo viene definito come la somma dei redditi che sono maturati in un dato periodo di tempo (per cui la somma dei salari, delle rendite e dei profitti).
Queste le tre definizioni da manuale di macroeconomia del PIL, ma quello che si può forse solamente intuire e che viene largamente dato per scontato è il fatto che il vero discriminante per far rientrare un bene o un servizio prodotto nella statistica del PIL non è la natura legale o addirittura morale della produzione – nel PIL ci rientrano anche le attività illecite come la prostituzione (ovviamente stimate perché risulta un po’ arduo censire in modo preciso questi aspetti dell’attività economica) –, ma il fatto che questo ricevi un equivalente monetario (cioè del denaro) attraverso uno scambio. Questo è il motivo per cui all’interno del PIL non ci rientrano l’autoproduzione e il baratto (che se si tratta di fenomeni piuttosto marginali nelle moderne economie urbanizzate, sono invece di vitale importanza per la misurazione dell’effettivo benessere delle economie prettamente agricole del Sud del mondo, ma questo lo dimenticano sempre gli economisti del progresso).
Il PIL è quindi un mero indicatore statistico che si occupa di registrare le variazioni quantitative dei beni e dei servizi di una data economia, ma solamente quelli “meritevoli” di essere scambiati in un mercato per del denaro. Non ci dice invece niente sulla qualità di quelle produzioni, così che potremmo trovare che un aumento del PIL dello stesso importo per un’economia sarà derivato dalla costruzione dell’ultimo sofisticatissimo missile, per un’altra dalla costruzione di una nuova scuola e infine per un’altra ancora dalla bonifica di un sito inquinato. Il PIL mette tutte le produzioni umane sullo stesso livello, perché l’unico discriminatore è il prezzo che è stato pagato per ottenere tali produzioni.
Questo è un punto importante, perché è da qui che nascono tutte le critiche nei confronti dell’indicatore economico più utilizzato, critiche che sono poi sfociate nel pericolosissimo (almeno per l’establishment economico-finanziario) slogan della decrescita che intende far consumare meno le persone affinché possano avere più tempo libero dal lavoro a disposizione. A tal proposito è interessante notare la risposta che i difensori di questo superficiale modo di valutare il successo o meno di un’economia ha sfornato, ovvero l’invenzione di nuovi termini dalla valenza piuttosto utopica da affiancare ai termini dogmatici per eccellenza. Ci siamo così trovati tutto d’un tratto a parlare di “crescita sostenibile” o “terziarizzazione dell’economia”, abili operazioni di marketing per cambiare l’abito (re-brandizzazione per gli addetti al settore) al termine crescita (la cui valenza iniziava pericolosamente a prendere una brutta piega).
Come hanno sottolineato i più attenti osservatori, la sostanza rimane la stessa, sia perché crescita economica significa comunque – estremizzando un po’ – più cose in vendita (e quindi più spot pubblicitari e la necessità di lavorare di più per soddisfare i nuovi bisogni, pena l’esclusione sociale) e sia perché questo comporta un maggiore consumo di risorse naturali a livello globale, perché anche se le economie dei paesi sviluppati si sono buttate sul terziario, la produzione mondiale di energia elettrica, acciaio, plastica, carta o calcestruzzo è comunque continuata ad aumentare (dato che è stata de-localizzata in Cina o in Indonesia). E lo stesso discorso vale per l’inquinamento (non a caso la Cina ha ormai superato gli USA nella classifica di maggior inquinatore al mondo, anche se poi scopriamo che la metà del PIL cinese – e quindi anche dell’inquinamento – viene direttamente prodotto dalle multinazionali straniere).
Ma tornando al discorso con cui è stato aperto questo articolo, la neutralità del PIL (è un indicatore quantitativo) ci dovrebbe far riflettere sul fatto che si potrebbe comunque ipotizzare uno scenario di “crescita sostenibile” (anche se così distante da come vanno effettivamente le cose), con il PIL che cresce, una diminuzione del consumo delle risorse naturali e dei livelli di inquinamento e anche un effettivo miglioramento delle nostre condizioni di vita.
Se ad esempio si decidesse di non acquistare tutti i giorni carne di bassa qualità – e quindi a prezzo stracciato (magari proveniente da allevamenti-ghetto distanti migliaia di chilometri che si riforniscono da produttori di mangimi che acquistano il mais e la soia dall’altro capo del mondo) – decidendo di consumarne solamente una o due volte alla settimana (migliorando quindi la propria salute alla luce delle ultime pubblicazioni scientifiche) e soprattutto decidendo di consumare carne di alta qualità (cioè di animali allevati al pascolo) e in modo sostenibile (proveniente da un allevamento a “km zero”), assisteremmo ad un aumento del PIL (il prezzo della carne di alta qualità sarà tre o quattro volte maggiore) e alla parallela diminuzione del consumo delle risorse naturali (meno petrolio, meno soia, meno acqua) e dei livelli di inquinamento (meno anidride carbonica, meno metano, meno nitrati e nessun pesticida). Poi però dovremmo immaginare che la maggior spesa che le famiglie avrebbero dovuto sostenere sia stata compensata da un aumento salariale dovuto alla redistribuzione ai lavoratori di parte del generale aumento della produttività che la nostra società continua a sfornare.
Quello della carne è solo un esempio (ma potrebbero essercene infiniti) che però ci dimostra come la crescita non sia necessariamente un fatto negativo (si tratta di migliorare la qualità della nostra produzione affinché l’esistenza dell’umanità diventi sostenibile nel lungo termine) e parallelamente la decrescita un fatto positivo (esiste anche una “decrescita infelice”, fatta di licenziamenti, de-localizzazioni in paesi dove non esistono norme ambientali o di tutela del lavoro e dell’invasione di ciarpame di bassa qualità proveniente da fabbriche distanti almeno dieci mila chilometri).
Caro Manuel, se la tua analisi sulla natura del PIL è perfetta e condivisibile, non posso dire altrettanto sul tentativo alquanto spericolato di introdurre il concetto di “crescita positiva”, parente stretto di quello di “crescita sostenibile”. L’esempio del consumo della carne che fai a mio parere dimostra l’esatto contrario di quello che ti proponevi. Perfettamente d’accordo su quanto sarebbe meglio che tutti i consumatori di carne del mondo ne consumassero meno, con minore frequenza, possibilmente di buona qualità. Questo vorrebbe dire, visto dalla parte dei produttori, un crollo verticale, della domanda di carne a buon mercato, quindi crollo degli allevamenti destinati a massificare la produzione, quindi crollo degli addetti alla produzione di carni di bassa qualità, ecc. ecc. Da qualunque parte lo si guardi, un mutamento siffatto delle abitudini dei consumatori vorrebbe dire calo del PIL e meno posti di lavoro nel settore. Ed io dico…magari ! Non è di questo che dobbiamo aver paura se vogliamo sperare in un mondo migliore. Non si fanno le nozze coi fichi secchi. La crescita del PIL è negativa, punto e basta. Per un sacco di ragioni, fra le quali al primo posto metterei l’impatto deleterio sull’ambiente. Le uniche “crescite” positive sono quelle del tempo libero, della convivialità, della gioia di vivere in sintonia col pianeta, cercando di fare meno danno possibile. Ed uso volutamente questa espressione perché l’uomo ha un impatto inevitabilmente negativo sulla natura, ma se ne ha consapevolezza può fare in modo di limitare al massimo l’entità del danno. Come quando prelevando la legna da bruciare da una foresta ci limitiamo a prendere solo la legna dei vecchi alberi secchi o già caduti. D’accordo che poi bruciandola liberiamo nell’aria Co2 e contribuiamo al riscaldamento globale, ma almeno lasciamo intatto il polmone verde della foresta… L’entropia generale di un sistema chiuso, e la terra lo è, è un processo immodificabile. Negli ultimi 60 anni abbiamo spinto sull’acceleratore a più non posso, ora possiamo tentare di mettere in prima e procedere con un filo di gas.
Ciao Danilo, ti ringrazio per aver espresso il tuo punto di vista ben argomentato.
Quello che volevo fare con questo articolo era mettere l’accento sulfatto che la decrescita è prima di tutto decrescita delle produzioni dannose, dannose per l’ambiente e per l’uomo, cosa che in una società fortemente industrializzata come la nostra corrisponde quasi sempre con una decrescita del PIL – e mi sta bene la metafora -, ma appunto “quasi sempre”.
Ti rispondo con un altro esempio: poniamo che un gruppo di cittadini illuminati che vive lungo le rive di un fiume fortemente inquinato decida di pagare, che ne so, 500 euro all’anno a testa per chiamare una ditta che si prenda la briga di bonificare il fiume e che questi abitanti facciano saltar fuori questi 500 euro all’anno in più dal fatto che si sono impegnati a coltivare tutti assieme nel tempo libero dei terreni limitrofi che prima erano abbandonati, per vendere gli ortaggi prodotti (rigorosamente tramite metodi di agricoltura naturale e quindi senza l’uso di erbicidi o pesticidi) al mercato generale della frutta. Bene, in questo caso abbiamo un bel caso di aumento del PIL e parallelamente di aumento del lavoro (anche se per molti di loro lavorare in campagna si riscoprirà un ottimo anti-stress), ma a me non sembra una situazione da combattere, anzi forse qualcosa di auspicabile. Certo, una volta ripulito il fiume gli abitanti del paese potranno rinunciare a un’ora del loro lavoro per dedicarsi alla campagna.
La diminuzione del PIL è uno slogan come dice Latouche e secondo me una bella provocazione, che ci fa tutti riflettere, perché l’aumento del prodotto interno lordo sembra essere l’unico obiettivo della nostra società e mettendo in discussione questo si diventa dei veri e propri rivoluzionari, perchè si mette in discussione tutto. Ma il PIL, così come registra come aumenta quando si abbatte una foresta o quando si producono delle armi, aumenta anche quando si bonifica un territorio contaminato o si decide di produrre meno cibo, ma biologico e quindi di più alta qualità (e prezzo!).
Caro Manuel, sono assolutamente d’accordo e quest’ultimo esempio è perfetto. Forse avresti dovuto mettere da subito quest’esempio nel tuo articolo. Ma andando a cercare il famoso pelo nell’uovo, se la squadra di bonificatori del fiume avesse riscontrato che per una bonifica definitiva bisognava chiudere le fabbriche che coi loro scarichi inquinavano il fiume, il PIL complessivo che risultato avrebbe avuto? Io credo un considerevole calo… Voglio dire che un etica di salvaguardia ambientale viene prima di qualsiasi PIL e che gli uomini che la perseguono devono probabilmente rendersi impopolari prima o poi. Ma su questo penso che non avrai problemi a concordare.
Assoltuamente d’accordo, un’etica di salvaguardia viene prima del PIL. Con questo articolo volevo “dimostrare” che si può avere anche un paradosso per il decrescentista abituato a combattere questo indicatore economico: crescita del PIL e diminuzione dell’impatto umano sul pianeta (un altro esempio potrebbe essere la sostituzione delle spese militari con quelle delle cultura – ad esempio al teatro o al miglioramento delle conoscenze dei cittadini in campo ecologico).