Per questo mio secondo contributo su DFSN, devo ringraziare Giulio Manzoni per avermi fornito uno spunto a cui altrimenti non avrei pensato. Commentando il mio articolo su “Ecolinguistica sistemica e decrescita”, Giulio mi ha chiesto se il culto della crescita, che Halliday (1990) illustra attraverso una serie di caratteristiche lessicogrammaticali dell’inglese, si esprimesse anche nelle lingue orientali. Una bellissima domanda, che mi ha dato materia per un’ulteriore riflessione che vorrei condividere con voi. Peccato non poter girare la domanda proprio a Halliday, che conosce molto bene il cinese, avendo cominciato la sua carriera accademica proprio a Pechino e a Hong Kong, studiando prima la fonetica e poi la grammatica del mandarino e del cantonese: e sono state queste lingue a suggerirgli, già nel 1945, le idee fondamentali da cui ha tratto inizio la grammatica sistemico-funzionale che usiamo oggi per l’inglese e per altre lingue (Halliday 2005; Halliday & Matthiessen 2004).
Alla domanda se il culto della crescita riguardi solo le lingue occidentali, credo che la risposta dipenda essenzialmente da che cosa intendiamo con “culto della crescita”. Se vogliamo chiederci se anche in cinese, giapponese e coreano sussistano espressioni metaforiche che associano il crescere e il collocarsi in alto a concetti positivi, la risposta sarebbe affermativa: queste connotazioni sono infatti da ricondurre a una metafora concettuale di tipo orientazionale, ossia profondamente radicata nel pensiero umano, che ha probabilmente origini pre-linguistiche, dal momento che si riconduce direttamente all’esperienza fisiologica che l’essere umano fa dello spazio. George Lakoff e Mark Johnson, nel loro testo fondamentale sulla metafora nella vita quotidiana (1980) spiegano l’enorme diffusione di questa metafora (HAPPY/ GOOD IS UP; SAD/ BAD IS DOWN), in lingue e culture assai diverse, con il fatto che l’uomo è bipede e che quindi, quando si sente bene in salute, sta in piedi, scegliendo invece una postura sdraiata quando è ammalato o stanco; anche un altro studioso eminentissimo della metafora come fenomeno linguistico e cognitivo, Zoltán Kövecses (2008), ritiene che l’associazione tra crescita/ altezza/ grandi dimensioni e positività si debba a un fatto fisiologico, cioè alla tendenza umana a essere attivi, a stare in piedi, magari anche a saltellare, quando siamo felici e sani, e ad accovacciarci o sdraiarci quando stiamo male.
Ecco perché esiste una gamma di espressioni che presuppongono la positività dell’idea di crescita non solo in italiano e in inglese, ma anche in molte altre lingue della nostra grande famiglia indoeuropea (ad es. francese, spagnolo, portoghese, rumeno, tedesco, slovacco, russo, serbocroato…), ma anche in lingue geograficamente e culturalmente più lontane da noi, che non derivano dall’antico indoeuropeo, ad es. il cinese, il giapponese e il coreano, che ho già citato, ma anche l’ungherese, il turco, e perfino lingue che siamo abituati ad associare con le “culture altre” a tal punto da attribuire loro, forse un po’ ingenuamente, una maggiore comunanza con la natura e una sorta di “immunità” rispetto all’idea che la crescita sia una cosa bella: tra queste figurano lingue africane (per lo shona, Mberi 2003), nativo americane (Pasamonik 2011 per il beaver) e del sud-est asiatico (per il tamil, Schiffman 2005)[1]. E se qui, in modo alquanto semplicistico, il mio discorso è sembrato quasi voler richiamare un’equazione (sbagliatissima) tra lingue e culture, non va meglio se andiamo a scavare più a fondo nel concetto di cultura e ci chiediamo se determinate correnti di pensiero che si pongono al di fuori dei valori capitalistici, indipendentemente dalla lingua in cui si esprimono, sfuggano alla presupposizione metaforica secondo cui ciò che è buono si colloca in alto: non sono infatti solo le grandi religioni monoteiste ad alzare gli occhi al Cielo, ma anche nel Sutra del Cuore, testo cardine del buddismo, specialmente di quello Zen, troviamo questo tipo di metafora (Lu & Chiang 2007).
Insomma, dal preconcetto linguistico su quanto sia bello crescere e stare in alto non si salva nessuno? Non è proprio così.
Innanzitutto, ci sono effettivamente alcune lingue che non soffrono di quella
sindrome di aspetti grammaticali che cospirano … per costruire la realtà in un certo modo: ed è un modo che non fa più bene alla nostra salute in quanto specie,
cui faceva riferimento Halliday (1990, mia traduzione, tratta da p. 164 della ristampa del 2003) e che riportavo in “Ecolinguistica sistemica e decrescita”. Il problema è che sono lingue poco studiate, dunque se ne sa poco, e anche armandosi di buona volontà e di passione, e anche sapendo bene dove andare a cercare, magari avendo pure a disposizione accanto al proprio ufficio una straordinaria e fornitissima biblioteca di lingue, letterature e culture moderne e un accesso on-line quasi illimitato ai principali database accademici, è comunque difficile documentarsi in modo approfondito.
Una felice eccezione si ritrova nello studio di Saroj Chawla (2001), che spiega come in tutte le lingue nativo-americane[2] vi sia una minore tendenza a rappresentare le risorse ambientali come uno strumento inesauribile nelle mani dell’uomo, perché queste lingue:
1) contemplano una distinzione tra sostantivi reali/ tangibili e immaginari/ intangibili/ metaforici;
2) non contemplano una rigida distinzione tra sostantivi numerabili e non numerabili, e in particolare rifuggono dalla tendenza a quantificare gli oggetti intangibili;
3) trattano il tempo dal punto di vista della sua continuità e fluidità, attraverso un sistema bidimensionale incentrato sul prima e sul dopo, anziché attraverso un sistema articolato su presente, passato e futuro e parcellizzato sotto forma di frazioni di tempo precisamente quantificabili.
Lo studio di Chawla si concentra in particolare proprio sul problema della rappresentazione del tempo e su come le lingue dei popoli autoctoni americani, categorizzandolo in base a un prima e a un dopo localizzati su un continuum interconnesso, anziché tramite l’uso di sostantivi quali giorni, mesi e anni in cui il tempo è suddiviso, concilino una maggiore integrazione tra uomo e natura.
Va segnalato anche lo studio di Peter Mühlhäusler (2001a e 2001b), che cita l’äiwo (una lingua delle remotissime Reef Islands, un arcipelago secondario delle Isole Salomone) e il tok pisin (un creolo della Papua Nuova Guinea) per la loro classificazione dei sostantivi, che prevede l’uso di morfemi o Classificatori volti a denotarne la permanenza, l’utilità, la connotazione e la dipendenza da altri fattori, a suo dire contribuendo a promuovere una maggiore consapevolezza delle problematiche ambientali; Mühlhäusler cita anche l’enga (anch’esso parlato in Papua Nuova Guinea) per il vincolo che prevede nell’espressione del concetto di “esistere”, per cui il verbo da usare cambia a seconda di chi o di che cosa è l’esistente; il wintu (una lingua autoctona nordamericana, forse estinta) per la sua tendenza a preferire espressioni comitative, cioè legate allo stare insieme; il fijiano, per la necessità di modificare i sostantivi con un Numeratore, cioè un premodificatore che li quantifichi in modo più o meno preciso; infine, richiama il fatto, piuttosto noto (e, se mi è permesso, indicativo − se mai ce ne fosse bisogno − della stolidità del colonialismo) che i colonizzatori britannici erano soliti rimanere stupefatti nello scoprire che i popoli cosiddetti “indigeni” avevano un modo di fare i conti nettamente diverso rispetto agli occidentali. Mühlhäusler, in particolare, cita gli abitanti delle Isole Torres, che ai tempi della colonizzazione contavano solo fino a sette, tante quanto sono le isole di questo piccolo arcipelago melanesiano. Ma, anche senza andare così lontano, il wolof, lingua ormai abbastanza parlata anche da noi, essendo molto diffusa in Africa, particolarmente tra i senegalesi, fa i conti su base cinque (“juroom”), probabilmente perché tante sono le dita della mano; anzi, il wolof individua con specifici aggettivi numerali cardinali solo i numeri fino a cinque, oltre al dieci (“fuk”), costituendo gli altri numeri attraverso una combinazione di queste sei parole, con poche eccezioni tipicamente motivate da fattori extralinguistici (ad es. il trenta, “fanweer”, consta di “fan”, che significa “giorno”, e di “weer”, che significa “mese”). Questi sistemi di numerazione, secondo Mühlhäusler, predisporrebbero i parlanti a una maggiore consapevolezza del legame tra limiti fisici oggettivi (ad es. il numero delle isole dello stretto di Torres; le dita che si contano su una o due mani) e possibilità di quantificazione, ma non credo sarà mai possibile verificare questa pur suggestiva ipotesi. In altre parole, non penso esista una via sperimentale per riscontrare se queste caratteristiche lessicogrammaticali delle lingue più lontane dal cosiddetto Standard Average European[3] predispongano davvero a una concezione decrescente del mondo oppure se siano solo modi alternativi per dire (quasi) le stesse cose.
Ad ogni modo, il problema di fondo non è tanto se l’idea di crescita abbia una connotazione positiva in molte lingue, ma quanta crescita (e, probabilmente, anche quale crescita, e su questo mi pare abbia già detto tutto Giulio Manzoni nel suo recente contributo dal titolo “Sursum Corda”) sia percepita come positiva. Il problema è quindi il limite della crescita, intrinsecamente legato alla natura finita delle risorse della Terra e, per chi (nel mondo anglosassone sono molti) pensa di andare a pescare risorse nello spazio cosmico, anche dell’Universo cui possiamo accedere: e comprendere questo limite è un problema socio-culturale, più che strettamente linguistico. L’idea, grammaticalizzata e/ o lessicalizzata in molte lingue, in base a cui la crescita sarebbe un bene di per sé, non è infatti nociva: anzi, il fatto che una stessa metafora concettuale (dunque fortemente produttiva, in quanto capace di generare tutta una serie di espressioni linguistiche) sia usata o quantomeno comprensibile in così tante lingue è un fatto positivo per la comunicazione tra popoli diversi, in quanto abbatte i problemi di traduzione e riduce entro una certa misura il margine, sempre piuttosto ampio anche tra lingue relativamente vicine, di equivoci legati alle diversità culturali. A essere nocivo è casomai il fatto che non sappiamo quando è bene fermarci e quando è forse anche meglio prendere atto di essere cresciuti troppo e lasciarci prescrivere una dieta dimagrante. Ed è questa ignoranza dei nostri limiti, più che la generica associazione tra felicità e crescita a livello linguistico, a essere una prerogativa del mondo occidentale: è il mondo occidentale, infatti, a portare questa metafora concettuale alle sue estreme conseguenze, aderendo a un paradigma economico che si fonda sul concetto di scarsità delle risorse e necessità di incrementarle (White 2003). Comunque, non siamo tecnicamente prigionieri né delle presupposizioni legate alle metafore concettuali cui aderisce la nostra lingua, né dei paradigmi della nostra cultura, tanto è vero che parole come escalation (acquisita come prestito integrale anche in italiano, nel senso di “azione o comportamento caratterizzati, nel loro corso, da un aumento graduale d’impegno o d’intensità”, secondo Treccani) e rampant (aggettivo che significa pressappoco “dilagante”, spesso associato proprio al sostantivo “growth”) hanno una connotazione marcatamente negativa in inglese.
In conclusione, pur non avendo facili soluzioni da offrire, ritengo che una maggiore consapevolezza di come parliamo di crescita e di decrescita possa contribuire a cambiare la percezione di questi concetti nell’opinione pubblica. Alcune indicazioni specifiche da parte di studiosi che hanno affrontato l’argomento puntano a consigliare ai promotori della decrescita, e più in generale di modelli economico-sociali alternativi a quello di massa, di evitare di utilizzare a propria volta un apparato lessicale e un repertorio grammaticale affini a quelli adottati dai fautori del modello economico che intendono contestare: ad esempio, evitare di infarcire i propri testi di gergo scientifico ed economico (Mühlhäusler 2006; Stibbe 2012), adottare una forma di “igiene verbale” (Cameron 1995; Schultz 2001) esprimendosi in un modo il più possibile scevro da violenze linguistiche ai danni sia delle categorie più deboli, sia di chi la pensa diversamente, ma anche modificare le denominazioni degli stessi movimenti (Cook 2015), evitando le cosiddette “definizioni apofatiche”, cioè le qualifiche formulate attraverso una negazione (anche decrescita, purtroppo, è un termine apofatico, in quanto contiene un prefisso, “de”, che esprime privazione), fino a smettere addirittura di parlare di crescita (Alexander & Stibbe 2014, p. 109), concentrandosi piuttosto su valori positivi, quali la qualità della vita e l’universalità dei diritti fondamentali. Infine, vi è un saggio di Andrew Goatly (1996, ristampato nel 2001), invero non particolarmente accessibile a chi non abbia una solida formazione linguistica, che fornisce una serie di indicazioni circostanziate per “costruire una grammatica più consonante [con l’ambiente e con la sua tutela], riflettendo un’epistemologia più in linea con l’ontologia scientifica ed ecologica attuale” (mia traduzione, p. 220); più nello specifico, Goatly contesta la posizione di Halliday (1993) secondo cui la nominalizzazione consentirebbe di rappresentare come fatti assodati quelli che sono in realtà processi compiuti scientemente dall’uomo (ad es. dicendo Competition for individual wealth stimulated the growth of trade anziché People compete to become wealthy ecc.), e ritiene invece che usare di più la nominalizzazione consenta in realtà di porre al centro del discorso proprio i Processi che si compiono, anziché l’Attore-uomo che li compie, limitando così i vizi dell’antropocentrismo.
In sostanza, disquisizioni accademiche a parte, per sradicare la presupposizione in base a cui “molti è meglio di pochi, più è meglio di meno, grande è meglio di piccolo, crescere è meglio che diminuire” (Halliday 1990, nella ristampa del 2003, p. 162, mia traduzione), così fortemente radicata non solo in inglese, ma forse nella maggioranza delle lingue, andrebbe sviluppata tutta un’“ecosofia” (Stibbe 2014), cioè una filosofia dell’ambiente dotata di una forte autonomia, anche espressiva, rispetto sia al modello capitalistico ortodosso, sia ai modelli che cercano di conciliare la crescita economica con la tutela dell’ambiente, dal cornutopismo[4] allo sviluppo sostenibile, ma che di fatto non si pongono il problema del carattere finito delle risorse del nostro pianeta.
Bibliografia
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Note
[1] Qui cito solo le lingue in riferimento alle quali, in un paio d’ore di navigazione sui principali database specializzati, ho reperito studi recenti e autorevoli per quanto riguarda l’utilizzo della metafora concettuale HAPPY/GOOD IS UP: sicuramente ci sono altre lingue che la utilizzano e altri studi altrettanto o più prestigiosi che mi sono sfuggiti.
[2] Come sanno bene i miei studenti, io tendo a storcere il naso davanti alle parole “tutti” e “sempre”, dal momento che non mi è veramente mai capitato nella vita di riscontrare una regola che non contempli eccezioni. Tuttavia, non avendo io alcuna conoscenza diretta delle lingue dei popoli nativo-americani, riporto l’affermazione di Chawla secondo cui “tutte le lingue degli abitanti nativi dell’America, dall’Oceano Artico a Capo Horn, mostrano, nella misura in cui sono state studiate, queste tendenze comuni” (Chawla 2001, p. 116, mia traduzione). L’autrice prosegue poi fornendo alcuni esempi tratti da varie lingue atabasche, algonchine, irochesi ed eschimo-aleutine.
[3] Così Benjamin Whorf, celeberrimo per le sue tesi sul relativismo linguistico, definiva nella prima metà del secolo scorso il substrato linguistico-culturale comune a quelle che oggi siano soliti chiamare “lingue occidentali”.
[4] Il cornutopismo (dalla fusione di “cornucopia” e “utopismo”) è la visione secondo cui, grazie all’inventiva umana e al progresso della tecnologia, si potranno trovare strumenti per superare i limiti ambientali e garantire un progresso infinito (Tracey, Ilie & Sandel 2015: 501).