La povertà nel terzo millennio

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Oggi si parla molto di povertà. La povertà che la società opulenta occidentale aveva promesso di debellare è tornata prepotentemente alla ribalta. Attualmente in Italia si contano 5 milioni di poveri a cui, per altro, il reddito di cittadinanza varato in questi giorni ha voluto dare risposta.

Ma la parola ‘povertà’ ha più significati. In passato essere poveri significava vivere in uno stato di miseria assoluta in cui era messa a rischio la sopravvivenza stessa della persona. Oggi il termine ha una connotazione culturale; la povertà non è più un dato oggettivo ma assume diversi significati: è considerata povera una famiglia che non riesce a pagare il corso di nuoto al figlio o che fa la spesa al discount o che non va in vacanza d’estate.

L’idea di povertà è dunque frutto di una narrazione proposta dalla sovrastruttura ideologica tipica della società capitalistica-consumistica che si rivolge alle classi meno abbienti, spingendo gli individui ad adottare determinati stili di consumo. La minaccia di essere etichettato in quanto “povero” assume la stessa funzione di stimolo che ha il “consumo vistoso” per le classi più abbienti

La sensazione, però, è che questa narrazione non abbia molto presa nella società e che il sentimento di povertà sia qualcosa più raccontato, che realmente vissuto dalle persone.

Come se la classe media e quei ceti sociali che l’attuale organizzazione sociale pongono in posizioni privilegiate volessero vendicarsi di coloro che, pur non svolgendo nessun lavoro, riescono ad avere uno stile di vita che nella sostanza non si discosta dal loro e che essi invece devono guadagnarsi a duro prezzo svolgendo lavori riconosciuti socialmente, ma che li costringono a impiegare l’intera vita e le loro giornate nell’attività professionale.

D’altra parte, tra gli individui va diffondendosi un atteggiamento pratico, per quanto riguarda i consumi, dovuto anche al fatto che la nuova organizzazione del lavoro ha creato una generazione di giovani lavoratori costretti a svolgere lavori pesanti e mal retribuiti e quindi estremamente attenti a come spendere quel denaro faticosamente guadagnato.

La diffusione della sharing economy, d’altro lato, apre nuovi modi di intendere il possesso e l’uso degli oggetti che porta nell’organizzazione socio-economica della società degli effetti rivoluzionari tali da cambiare radicalmente il concetto di benessere economico.

Pensiamo ad esempio che negli anni ‘80 una famiglia senza auto era considerata disagiata mentre oggi molte famiglie, specie nelle città, scelgono di non possedere un auto propria adottando forme di mobilità che utilizzano i mezzi pubblici e la condivisione dell’auto.

La crescente consapevolezza degli individui indotta anche dalla maggior diffusione dell’informazione sembra portare un mutamento nello stile di vita delle persone improntata a una razionalizzazione dei consumi che fa ben sperare in un futuro in cui l’economia possa essere al servizio delle persone e finalmente attenta all’ambiente.

Nell’aria c’è qualcosa di nuovo e quell’idea di “decrescita” che fino a poco tempo fa era solo un bisbiglio che nessuno osava nemmeno proferire, sta diventando un sentimento diffuso di cui pare non si accorgano solo gli uomini al potere.

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