Il collasso che già c’è

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Appena appresa la notizia del crollo del ponte Morandi, ero sicuro che i sostenitori del progetto Gronda avrebbero sfruttato l’occasione per rilanciarlo dopo anni di dura contestazione, anche se non li facevo tanto cinici da imbastire una campagna promozionale con il conteggio dei morti ancora in corso. Per non parlare poi di chi è andato a ripescare tempestivamente la vecchia pagina del blog di Beppe Grillo dove si allude alla ‘favoletta sul crollo del ponte’, sebbene fino alle 11:35 del 14 agosto fosse lecito derubricare qualsiasi preoccupazione a leggenda metropolitana, dal momento che non era stato intrapreso alcunché per limitare la viabilità o mettere in sicurezza l’opera con provvedimenti più incisivi della semplice manutenzione. Il comportamento dei gestori dell’autostrada autorizzava pertanto alla più totale tranquillità (che qualcuno avesse timori fondati e abbia preferito tacere, è un altro discorso).

Come  spiegato dal professor Brencich  (docente di ingegneria civile all’università di Genova e membro della commissione di inchiesta governativa), il ponte soffriva di problemi strutturali intrinseci che si erano manifestati molto precocemente (riscontrati in tutte le costruzioni dove Morandi è ricorso alla tecnica M5, da lui brevettata) e che non erano imputabili a carichi di traffico eccessivi rispetto a quelli preventivati in sede di progettazione, quindi l’eventuale presenza della nuova bretella non sarebbe stata risolutiva, anche perché pensata come percorso complementare e non sostitutivo. La tragedia era quindi evitabile, ma non si sarebbero potute procrastinare decisioni drastiche sul futuro del viadotto, specialmente con i costi di manutenzione prossimi a superare quelli di costruzione.

 

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La Gronda, finché rimane una linea tracciata su di un pezzo di carta, può apparire un’idea eccellente per smaltire i volumi di traffico. Per capire che cosa comporti concretamente, basta leggere la pagina dedicata sul sito Web di Autostrade per l’Italia:

La nuova infrastruttura comprende 72 km di nuovi tracciati autostradali e si allaccia agli svincoli che delimitano l’area cittadina (Genova Est, Genova Ovest, Bolzaneto), si connette con la direttrice dell’A26 a Voltri e si ricongiunge con l’A10 in località Vesima. Data la complessità dal punto di vista orografico del territorio attraversato, il nuovo sistema viario si sviluppa quasi interamente in sotterraneo e prevede 23 gallerie, per un totale di circa 54 chilometri, circa il 90% dell’intero tracciato, con sezioni variabili fino ai 500 metri quadri dei cameroni di interconnessione tra gli assi autostradali. Le opere all’aperto comprendono la realizzazione di 13 nuovi viadotti e l’ampliamento di 11 viadotti esistenti.

Tutto ciò va trasposto nella realtà fisica molto particolare di Genova e del suo hinterland.  “Se questa gente avesse la pianura”, cantava De André duettando con Baccini: avendo dato i natali a mia madre e alla sua famiglia, conosco bene il capoluogo ligure e ho sempre provato un mix di ammirato stupore e disarmante paura di fronte a tutti gli stratagemmi ideati per bypassare i vincoli di una morfologia territoriale sfavorevole e imitare gli sforzi delle ben più fortunate (sul piano geografico) Milano e Torino per diventare una moderna metropoli industriale. Questi, oltre alla costruzione di opere pericolosamente incombenti sulla popolazione (di cui l’inquietante sagoma del Morandi stagliata sulle abitazioni rappresentava l’apoteosi), si sono tradotti in un’immensa colata di cemento riversatasi fino alle colline circostanti la città, con inevitabili gravi conseguenze.

L’ultimo rapporto ISPRA sul dissesto idrogeologico nel nostro paese è impietoso: la città ligure, insieme a Napoli, presenta i valori più elevati di popolazione a rischio frane; la provincia di Genova risulta nel periodo 2010-16 tra le più colpite da eventi franosi e riscontra i valori più elevati di popolazione esposta al pericolo di frane residente in aree a maggiore pericolosità (con oltre 30.000 famiglie coinvolte), nonché (insieme a Salerno) il numero più elevato di edifici a rischio frane, tra cui molti di interesse artistico-culturale. Le maxi alluvioni del 9-11 ottobre 2014 causate da alcuni forti temporali, comportanti un morto e 250 milioni di danni, illustrano perfettamente i pericoli in gioco. In un contesto simile, ostentare la Gronda come soluzione significa pensare di risolvere un problema adoperando la stessa forma mentis che lo ha generato (Einstein docet).

Nei giorni immediatamente successivi al crollo del ponte, giustamente l’attenzione si è concentrata sull’accertare le responsabilità e ricostruire la perversa storia della privatizzazione delle autostrade italiane. Tuttavia, sarebbe profondamente sbagliato ignorare l’ammonimento di Ugo Bardi dal suo blog ospitato su Il Fatto on line: il Morandi e molte altre opere sono state concepite e realizzate in una stagione di forte crescita economica e di fiducia in rapide evoluzioni tecnologiche, mentre la loro obsolescenza sta avvenendo in un periodo di stagnazione e di consapevolezza che i progressi sono stati inferiori alle attese. L’epoca in cui Genova e l’Italia erano una dinamica realtà industriale, dove il petrolio costava meno di 30 dollari attuali al barile e la parola d’ordine era ‘un’automobile per tutti’ è finita per sempre e non accettarlo – pensando quindi a opere ancora più impattanti e ambiziose – è il modo migliore per nuovi immani disastri.

Per capire come il problema non sia limitato alle vicende italiote, voglio proporre un esempio lontano da casa nostra e di carattere completamente diverso, ossia il programma nucleare civile francese.* Qualunque opinione si nutra nei confronti dell’atomo (e quella del sottoscritto non è positiva), non si può negare la portata delle politiche energetiche transalpine: a soli quindici anni dall’inizio della costruzione del primo reattore nucleare nella centrale di Chinon (1 febbraio 1957), altri nove avevano già iniziato la produzione commerciale ed era oramai in fase di ultimazione una centrale (Phénix) dotata di avveniristico reattore autofertilizzante. Nel 1992, l’ultima unità della prima generazione nucleare veniva definitivamente smantellata, dopo che la seconda (reattori PWR) si era oramai imposta su larga scala a partire dagli anni Settanta, rendendo la Francia la nazione dove si fa maggior uso di energia atomica in rapporto al fabbisogno elettrico (75-80% sul totale).

Calendario della costruzione degli impianti francesi di II generazione (Wikipedia)

Il periodo di vita operativa stimato per i reattori, intorno ai 30-35 anni, non era considerato un problema perché il XX secolo avrebbe dovuto segnare l’avvento definitivo delle nuove unità autofertilizzanti e forse addirittura la possibilità concreta, imitando le stelle, di ricavare energia dalla fusione; si confidava inoltre nel progresso tecnologico anche per gli aspetti legati alla sicurezza, in particolare per quanto attiene alla gestione delle scorie radioattive.

Tuttavia, una volta giunto il momento di sostituire la prima serie di PWR installati, la realtà si è rivelata decisamente più deludente delle aspettative. I piani legati ai reattori autofertilizzanti sono stati accantonati alla luce dei sostanziali fallimenti delle centrali di Phénix e Superphénix (quest’ultima dismessa dopo appena dieci anni dall’allacciamento alla rete); i cosiddetti reattori di terza generazione (EPR, evoluzione dei PWR) sono stati destinati per lo più all’esportazione (facevano parte anche del progetto italiano di ritorno all’atomo varato dall’ultimo governo Berlusconi e bocciato con il referendum del 2011), attualmente la Francia si è impegnata a prolungare l’operatività delle centrali già esistenti, limitandosi a prevedere l’installazione di una sola nuova unità (l’EPR di Flamanville, che dovrebbe essere allacciato alla rete l’anno prossimo a tredici anni dall’inizio dei lavori e costi lievitati oltre i dieci miliardi di euro). Nel 2015 il governo socialista guidato da Segolene Royal ha varato un piano di transizione energetica parzialmente rivisto sotto la presidenza Macron ma che ha lasciato inalterato l’impegno a disimpegnarsi progressivamente dal nucleare, la cui quota sulla produzione elettrica dovrebbe calare al 50% già nel 2025. In tutto questo, il colosso energetico francese EDF ha accumulato una situazione debitoria poco invidiabile mentre l’impresa a maggioranza di capitale pubblico specializzata nel campo nucleare (prima CEA Industrie, poi Areva oggi Orano) ha subito problemi analoghi che hanno comportato numerosi processi di ristrutturazione; fatti non sorprendenti, essendo incrementati nel tempo i costi della tecnologia nucleare.

 

 

Intercorrono enormi differenze tra il ponte Morandi e il programma atomico francese, ma sono entrambi accomunati dall’essere state ‘buone idee’ del boom economico che, riviste con occhi attuali, rivelano eccessiva sopravvalutazione dello sviluppo tecnologico, sottovalutazione di inconvenienti a lungo termine e difficoltà nel contenere oneri gestionali sempre maggiori. Si potrebbero proporre altri esempi dimostranti già oggi gli enormi sforzi per riproporre strategie che solo qualche decennio fa apparivano del tutto efficaci e funzionali. Ci troviamo oramai a un bivio: o accettare la realtà del declino cercando di contenerne gli effetti più nefasti e provando a tirare fuori tutti gli aspetti positivi possibili, oppure proseguire ostinatamente contro tutto e tutti, costi quel che costi – almeno finché il problema è ‘limitato’ al crollo di ponti.

 

Limiti dello sviluppo, scenario-base.

*Fonte sull’operatività delle centrali nucleari francesi: Wikipedia.

Fonte immagine in evidenza: modificazione foto linkiesta

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