I limiti della conservazione artistica?

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Tutti sanno oramai dello sciagurato incendio che ha coinvolto la cattedrale di Notre Dame de Paris. Molto meno noto invece è il fatto che tale inestimabile monumento già da alcuni anni necessitava di importanti restauri, che avrebbero dovuto impegnare trent’anni per una spesa di almeno 150 milioni di euro. La situazione si era fatta talmente critica che l’arcivescovato parigino aveva istituito un’apposita organizzazione non profit, chiamata Friends of Notre Dame de Paris, al fine di gestire una piattaforma di crowfunding, nel tentativo di sopperire all’insufficienza degli interventi governativi. Anche altrove la situazione non è propriamente idilliaca; sempre per rimanere in ambito transalpino, si parla insistentemente di organizzare un tour di esposizione della Gioconda e altri capolavori del Louvre negli emirati mediorientali e in paesi emergenti, con l’obiettivo di raggranellare più denaro possibile.

Siamo consapevoli di come i bilanci nazionali pullulino di elargizioni discutibili nonché di veri e propri sprechi, e di come i fautori della privatizzazioni siano sempre dietro l’angolo pronti ad avventarsi sulla preda più affamati degli avvoltoi sulle carogne; per non parlare di fenomeni diffusi di incompetenza e malgoverno nella gestione delle belle arti. Attraverso una onesta e ragionevole gerarchia di priorità, guidata da un’amministrazione competente, si potrebbero sicuramente reperire da subito risorse importanti.

Tuttavia, in una civiltà destinata al declino (o peggio ancora al collasso, senza importati interventi sistemici), occorre riflettere seriamente su come preservare patrimoni dell’umanità quali Notre Dame, insieme a tante oltre opere artisticamente minori ma che rappresentano fondamentali simboli di identità culturale; tutto ciò a prescindere dalla causa scatenante l’incendio. Se crediamo nell’arte come bene pubblico, per la sua tutela occorre studiare forme integrative e alternative alla semplice delega allo stato.

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