Capire tutti per non capire niente

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capire

Sibiu (Romania), giovedì 10 marzo 2016. Mi trovo nella biblioteca del Colegiul National Gheorghe Lazar, in attesa di assistere a un dibattito tenuto da alcuni studenti di varie nazioni sul tema dei rifugiati. Sono un po’ nervoso perché mi trovo insieme  alla miglior insegnante di inglese dell’istituto, una donna sulla cinquantina apparentemente uscita da Cambridge che, in vero stile british, è anche quella meno incline a sforzarsi di comprendere parlanti livello Tarzan come il sottoscritto. Spero davvero di non dover intervenire in alcun modo, anche se ne avrei di cose da dire sull’argomento.

E’ abbastanza assurdo pensare a come sia finito in Romania. Il progetto Erasmus+ DOME, in cui è coinvolta la scuola dove lavoro – l’ITIS Nullo Baldini di Ravenna – era pensato per persone con certificazioni linguistiche o comunque dotate di un inglese abbastanza fluente. Io non ho mai studiato inglese a scuola e le mie conoscenze derivano per lo più da fonti molto diverse tra loro e decisamente poco consone al contesto – il punk rock e la scienza dei limiti dello sviluppo. Ho notato che la collega francese, Virginie, e i due rappresentanti di un istituto di Brema – Bodo e Sebastian – mi hanno preso in simpatia perché in effetti deve suonare buffo ascoltare uno che parla con toni da bullo ma capace di inaspettate riflessioni ecologiste: devo sembrare una sorta di Denis Meadows di serie B posseduto dallo spirito di Johnny Rotten. A pranzo e cena, dove la grappa è parte integrante e fondamentale dei pasti che ci vengono offerti – per le mie bevute non avete quindi pagato un euro di tasca vostra, contribuenti! – normalmente divento più coraggioso e loquace, altrimenti mi limito a parlare il minimo indispensabile.

In attesa che cominci il dibattito, controllo l’email dal mio smartphone e leggo finalmente un commento pacato del professor Guidorzi riguardo all’articolo OGM, lo spot in presa diretta, che ha alimentato un ginepraio di polemiche. Ecco, la Romania si può considerare una sorta di nazione geneticamente modificata.

Sibiu è stata per secoli parte integrante dell’impero austro-ungarico, ma ancora oggi si può facilmente scambiare per una città tedesca o austriaca: pulita, ordinata, ricca di locali ricreativi e di banche, abitata da una borghesia fortemente occidentalizzata e parlante un ottimo inglese, è lontana anni luce dagli stereotipi imperanti sulla Romania. Sono anzi molto preoccupato perché l’istituto Lazar – una scuola pubblica statale, per la cronaca – è sotto tutti i punti di vista superiore al Nullo Baldini e l’organizzazione interna è stata semplicemente impeccabile; a ottobre tocca a noi italiani ricambiare il favore e ospitare tutti quanti, compito che si rivelerà per nulla semplice.

A Sibiu però non ci si arriva con il teletrasporto. L’aeroporto internazionale della città è appannaggio quasi esclusivo delle compagnie di bandiera, noi ravennati abbiamo quindi optato per una compagnia low cost che però fa scalo su Cluji, città a quasi duecento chilometri di distanza. Il viaggio di domenica sera da Cluji a Sibiu ci ha offerto atmosfere degne di un film post-apocalittico alla Mad Max, con ettari ed ettari di aree agricole abbandonate che si stanno ritrasformando in steppa e villaggi quasi completamente disabitati, con strade dove l’unica forma di illuminazione è offerta dai fanali delle auto e dei tantissimi camion. Gli unici segni di civiltà sono dei locali di ristoro per caminionisti qua e là e qualche cittadina un po’ meno desolata dove si riconoscono i nomi delle catene di discount diffuse anche nel nostro paese; per il resto, si direbbe che la regione della Transivalnia sia stata oggetto di un bombardamento a neutroni su vasta scala che ha risparmiato solo i grossi centri.

L’escursione di mercoledì per recarci a Bran, sede del famoso castello di Dracula, ha confermato lo stesso scenario, con l’eccezione di qualche letargica forma di vita rianimata dalla luce del giorno: anziani con carretti a mano, anziani che fanno l’autostop, anziani che conducono al pascolo qualche capra… chissà, forse si tratta dei nonni e degli zii dei tanti studenti rumeni che ho conosciuto nella mia carriera di docente. In effetti, la Romania da loro descritta assomiglia più a questa desolazione che a Sibiu. Arrivati a Bran, uno dei tanti cani randagi delle campagne ci è venuto incontro scondinzolando, per elomosinare qualche residuo del nostro pranzo al sacco: i discendenti di Dracula non se la passano male grazie alla loro attrazione turistica, per cui non mi sono fatto scrupolo di donargli qualche scampolo del sandwich gentilmente offertomi e che – in un altro contesto – avrei sinceramente trovato abbastanza disgustoso.

Immerso in questi pensieri, non mi accorgo che il dibattito sui rifugiati è già iniziato: tre ragazzi da una parte e tre dall’altra, a moderare c’è Andrada, studentessa di Sibiu da tutti apprezzata per le sue capacità dialettiche anche in lingua inglese; dalla parte ‘pro-rifugiati’ riconosco un ragazzo rumeno e uno spagnolo, in quella ‘contro-rifugiati’ due ragazzi islandesi e uno forse turco; i nostri alunni sono impegnati in altre tematiche.

La discussione è improntata alla tecnica del role playing, i coinvolti non devono tanto esprimere le loro opinioni personali quanto piuttosto inscenare uno scontro ‘realistico’, da talk show per intenderci. I ‘contro-rifugiati’ sembrano delle Le Pen o dei Salvini dopo l’assunzione di ecstasy – sono infatti consapevoli delle sciocchezze che stanno dicendo per cui faticano a frenare le risate – mentre i ‘pro’ paiono una strana fusione tra Madre Teresa e Laura Boldrini. Perché i ragazzi devono scimmiotare i politici? Sono sicuro che, se si esprimessero liberamente, se ne uscirebbero con argomentazioni molto più intelligenti.

Alla fine tanti applausi, perché “da questo confronto ognuno ha imparato meglio a comprendere le ragioni dell’altro”, come sottolinea la collega. Finalmente saremo capaci di provare empatia per un militante di Alternativa per la Germania o del Fronte Nazionale oppure proveremo maggior ammirazione per le ragioni dei dirigenti delle ONG umanitarie. Ed è molto bello capire le persone, mi viene però il sospetto che forse adesso sappiamo ancora di meno sulle dinamiche che sconvolgono il mondo reale. Prima di avere un’opinione sui rifugiati, non sarebbe meglio capire perché esistono dei rifugiati? Prima di parlare di “difesa del nostro stile di vita” o di “dovere dell’accoglienza” non sarebbe il caso di analizzare se il nostro modello di sviluppo contribuisce a creare le condizioni per migrazioni epocali e conflitti nel mondo, prescindendo da buoni e cattivi sentimenti? Invece di impantanarsi nelle astrazioni, il contrasto insanabile tra le condizioni di città e campagna in Transilvania non poteva essere un buon argomento per comprendere alcuni meccanismi politici ed economici agenti forse anche a livello globale?

Metto insieme il mio miglior inglese possibile e bofonchio qualche perplessità alla collega ‘british’ la quale, giustamente, ostentando un sorriso 32 denti, replica “I’m sorry, i don’t understand”. Me ne esco allora con una risata nervosa e lascio perdere, ho la sensazione che non capirebbe il mio ragionamento neppure se parlassi come la regina Elisabetta. E poi non c’è tempo per le chiacchiere: bisogna premiare i migliori studenti emersi dal dibattito. La mia sensazione, però, è che abbiamo perso tutti quanti.

Immagine in evidenza: municipio della città di Sibiu (foto scattata dall’autore)

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Nasco a Milano il 7 febbraio 1978. Sono un docente precario di italiano e storia nella scuola superiore, interessato ai temi della sostenibilità ambientale e sociale. Insieme a Jacopo Simonetta ho scritto 'La caduta del Leviatano. Collasso del capitalismo e destino dell'umanità, edito da Albatross Il Filo.

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