Verso un’utopia possibile

1
2497

Questo articolo costituisce una rielaborazione originale di temi trattati in maniera più organica e approfondita nel libro Il Secolo Decisivo: Storia Futura di un’Utopia Possibile (qui un’anteprima gratuita).

Povertà, diseguaglianze, degenerazione degli ecosistemi, riscaldamento globale, disoccupazione. Tutti termini che richiamano alla mente il concetto di crisi. E di crisi si discute incessantemente, in pubblico e in privato, analizzandone e dibattendone conseguenze e possibili soluzioni. Ben di rado se ne discutono le cause profonde. Il che è quanto meno singolare, dato che gran parte delle difficoltà incontrate dalla comunità internazionale nel porre rimedio alle grandi ‘crisi’ contemporanee possono essere ricondotte precisamente alla mancata comprensione di ciò che potremmo chiamare, con una perifrasi un po’ raffazzonata, ‘l’origine sistemica del problema’.

La crisi è sistemica, per la semplice ragione che è conseguenza fisiologica del sistema socio-economico vigente (quello consumista-produttivista incentrato sulla crescita infinita dell’economia materiale), e non già frutto di un suo deragliamento transitorio. Ne deriva che le soluzioni sono sistemiche o non sono tali. L’alternativa, per così dire, è quanto fatto sinora: una cura omeopatica che si affanna a contrastare i danni della crescita, del sovra-consumo, del sovra-lavoro e della sovra-produzione con più crescità, più consumi, più lavoro e più produzione.

Se non possiamo risolvere la crisi è perché non sappiamo comprenderla. Non distinguiamo i problemi dalle soluzioni, e sovente confondiamo i primi con le seconde. Osserviamo la realtà da dietro una maschera spessa – il suo tessuto una miscela tossica di tradizione e presunzione – che ci impedisce di scorgerne la struttura profonda. Quando poi cerchiamo di cambiarla, ci stupiamo che le nostre soluzioni, inesorabilmente, non funzionano.

Un esempio emblematico è il rapporto paradossale che intratteniamo con il lavoro e l’innovazione tecnologica (sarà il tema di un prossimo articolo). Quest’ultima, si sa, è alla base della progressiva automatizzazione dell’economia globale, il cui esito è un continuo aumento della produttività dei lavoratori, il quale a sua volta si traduce in una costante riduzione del lavoro umano necessario a mandare avanti il sistema economico-produttivo. Potenzialmente, un’opportunità di liberazione dal giogo del lavoro coatto (quello che nel nostro onanismo lavorista chiamiamo ‘opportunità professionali’). Nei fatti, un sogno infranto da un sistema economico e sociale che fa del lavoro (qualsiasi lavoro, a prescindere dalla sua utilità per il benessere umano) un imperativo categorico. Tale sistema, interagendo col processo di automatizzazione di produzione materiale e servizi, sul lungo periodo rende la crescita economica indispensabile a contrastare il crollo occupazionale. Senza crescita, La disoccupazione provocherebbe un calo dei consumi, il quale genererebbe ulteriore disoccupazione, innescando la spirale recessiva. Naturalmente, se si ricalibrasse il sistema socio-economico in vista di una società post-lavorista e a crescita zero, i frutti dell’innovazione tecnologica potrebbero essere messi al servizio dell’uomo. Ma la maschera è ancora troppo spessa, e troppo avvinghiata agli occhi e alle orecchie. E così confondiamo la soluzione col problema, e ci affidiamo a vecchi espedienti e a vecchie idee. Il coro è quasi unanime: “Per contrastare la ‘disoccupazione tecnologica’ ed evitare la recessione occorre far crescere l’economia”, lanciandosi all’inseguimento d’una stabilità in costante fuga in avanti. La logica di fondo è ben nota: se per produrre dieci smartphone (o computer, o automobili) ieri servivano dieci lavoratori, oggi ne servono nove. Domani ne serviranno otto. Se però aumentiamo il numero di smartphone prodotti e ne ‘consumiamo’ sempre di più, il problema è facilmente risolto e possiamo nuovamente ‘godere’ di piena occupazione e un cellulare nuovo fiammante ogni due settimane.

Vi sono tuttavia almeno tre problemi con tale ragionamento:

  1. Il sistema Terra dispone di risorse sufficienti a produrre un numero finito di smartphone;
  2. Il sistema Terra può sostenere la vita di un numero finito di esseri umani;
  3. Gli esseri umani possono ‘consumare’ un numero finito di smartphone.

Per risolvere ognuno di questi problemi, ci si è finora concentrati rispettivamente su:

  1. L’incremento del numero finito di smartphone che è possibile produrre attraverso una riduzione dell’input energetico e materiale per ogni unità-smartphone.
  2. Lo sfruttamento delle riserve energetiche e materiali accumulate dal pianeta nel corso dei millenni e la produzione di nuovi smartphone ‘a debito’, ovvero attingendo a più energia e materia di quella prodotta dal pianeta nel medesimo intervallo temporale.
  3. Il persuadere gli esseri umani ad acquistare più smartphone rispetto a quelli di cui hanno bisogno, attraverso il passaggio da una cultura del consumo a una cultura del possesso (cui corrisponde la transizione da un marketing centrato sulla promozione della funzione d’uso dei prodotti a uno centrato sulla promozione dello status sociale ad essi associato).

Si tratta, come ben sanno i lettori di decrescita.com, di soluzoni destinate a fallire.

La prima soluzione si basa sulla falsa premessa che la riduzione delle risorse-input necessarie per ogni smartphone possa procedere a una velocità tale da compensare la crescita del numero totale di smartphone prodotti (cosa mai realizzatasi in passato e impossibile per definizione sul lungo periodo per via di limiti fisici invalicabili).

La seconda soluzione consiste nel trasferire i problemi del presente alle generazioni future, scaricando sui nostri discendenti un fardello gravoso senza che questi ultimi abbiano alcuna voce in capitolo.

Ma è la terza soluzione a creare i maggiori problemi. L’infinita massimizzazione dei consumi pro-capite, oltre ad avere effetti devastanti sugli ecosistemi, non corrisponde, al contrario di quanto marketing e pubblicità vogliono farci credere, ad una infinita massimizzazione del benessere umano. La correlazione fra consumi e benessere, indubbiamente positiva fino a una certa soglia di consumo pro capite, oltre tale soglia diviene infatti del tutto trascurabile. Detto in altri termini, superata quella soglia, che potremmo chiamare ‘del consumo superfluo’, consumi addizionali non si traducono in benessere addizionale per il consumatore. 

Questo perché, laddove la crescita di consumi e produzione opera secondo una logica di massimizzazione (date le risorse necessarie, non c’è limite superiore al numero di smartphone producibili da un’economia), il benessere umano opera secondo una logica di ottimizzazione – derivante dalla nostra natura biologica –, per cui non già la massimizzazione di input materiali e socio-relazionali, bensì il loro apporto ‘nella giusta misura’ conducono al maggior grado possibile di benessere. Possedere cento smartphone non rende più felici che il possederne uno solo.

Abbiamo convenuto che esiste un problema e abbiamo visto che le soluzioni più diffuse a quel problema sono fallaci. E qui si ferma, purtroppo, gran parte del dibattito contemporaneo sulla decrescita felice.

Nel mio libro mi sono sforzato di andare oltre, identificando quali soluzioni alternative possano essere efficaci. Se il problema fosse semplicemente il sovra-consumo, naturalmente, una soluzione di tipo culturale sarebbe sufficiente: convinciamo abbastanza persone a consumare meno (e meglio), e siamo a posto; tutti sono più felici, le generazioni future sono in salvo. Il punto è che se crollano i consumi crolla la produzione, e se crolla la produzione crollano l’occupazione, i redditi pro-capite e le entrate fiscali degli stati. Diminuisce il budget pubblico per i servizi e aumenta il debito. Diminuire i consumi all’interno del sistema vigente è la ricetta perfetta per il disastro sociale ed economico.

Cambiare i nostri stili di vita non è quindi sufficiente. La megamacchina della crescita dispone di un sistema immunitario fenomenale contro questo genere di rivoluzione culturale. Pensare di cambiare la rotta e la velocità della macchina semplicemente modificando la natura dei passeggeri è un’illusione vana. È necessario farlo? Certamente. Ma occorre anche cambiare auto e pilota.

Ecologisti e sostenitori della decrescita felice si trovano generalmente d’accordo nell’affermare:

  1. Che la bontà di ogni sistema sociale è funzione della sua capacità di garantire sul lungo periodo il benessere umano sulla Terra;
  2. Che perché ciò sia possibile è necessario che un sistema sociale coesista in un rapporto di equilibrio con gli ecosistemi terrestri.

Tutti vogliamo una società al tempo stesso felice e sostenibile. È però necessario andare oltre la semplice constatazione che occorre fare qualcosa, provando a definire il ‘cosa’. Non solo al livello micro (le pratiche di consumo, gli stili di vita) ma anche a livello macro. È quanto ho provato a fare in ‘Il Secolo Decisivo’, concentrando la mia attenzione su tre questioni fondamentali:

  1. La destinazione. Ovvero quale struttura dovrebbero assumere l’economia, il mercato del lavoro, le relazioni sociali, i sistemi di welfare, i sistemi di governance, gli apparati di governo (e via dicendo) per garantire la stabilità di un’economia stazionaria e a zero crescita materiale.[1]
  2. L’itinerario. Quali macro-riforme istituzionali, economiche e politiche devono essere messe in atto per trasformare l’attuale sistema in vista della destinazione prefissata?
  3. Gli attori del cambiamento. Identificazione degli attori istituzionali, sociali e politici necessari a portare avanti la transizione. Tanto a livello locale quando a livello globale.

Una volta chiarite le domande fondamentali, mi sono reso conto che molte di queste avevano già ricevuto risposta, ma che si trattava di una risposta spesso frammentaria, quando non addirittura contraddittoria. Occorreva mettere insieme i frammenti e ricomporre una fotografia coerente della destinazione, e disegnare una mappa per raggiungerla, mettendo insieme una ad una le molte mappe già esistenti. Un lavoro di selezione, ma anche di ricostruzione: selezione delle alternative possibili con gli strumenti a nostra disposizione nel presente; ricostruzione della potenziale integrazione fra le tante piccole soluzioni individuali, delle loro possibili interazioni, delle realistiche conseguenze di una loro implementazione.

Credo di esserci riuscito, almeno in parte. Almeno, posso dire di avere illustrato in maniera analitica una possibile destinazione, senza smarrirmi in discorsi retorici, bensì guardando al funzionamento concreto e tangibile di quel futuro ‘ideale’ di cui tanto si parla ma che ben di rado si prova a descrivere. La mappa ha ancora qualche parte meno definita, sfocata, ma propone una visione organica e coerente di un territorio a oggi in gran parte inesplorato, offrendo un itinerario percorribile da un punto A (noi, ora) a un punto B (utopia, domani).

Se devo prendermi un merito, è solo quello di aver ricomposto pezzi sparsi, di aver messo a fuoco un obiettivo. Tutti vogliamo raggiungere Utopia, ma pochi si premurano di procurarsi una mappa, e quasi nessuno di pensare a una destinazione concreta. Così Utopia resta per sempre Utopia: un non luogo, fuori della nostra portata. In articoli successivi accennerò ad alcuni dei punti salienti di quell’itinerario e di quella destinazione, rimandando al libro per una trattazione approfondita di entrambi.

Note:
  1. La decrescita è un mezzo. Una decrescita infinita è tanto assurda quanto una crescita infinita. Sul lungo periodo l’unico modello socio-economico che può garantire il massimo grado di benessere umano mantenendosi al tempo stesso sostenibile è un’economia stazionaria, ovvero un’economia a zero crescita materiale. Data la nostra situazione attuale, perché una tale economia possa essere sostenibile è necessaria, almeno nei paesi (sovra)sviluppati del nord del mondo, una fase preliminare di decrescita.

 

CONDIVIDI
Articolo precedenteGilet gialli e squarci sulla realtà
Articolo successivoPiccola guida per negazionisti climatici
Autore de 'Il Secolo Decisivo: storia futura di un'utopia possibile'. Da anni si interessa di tematiche ambientali, economiche e sociali. In passato ha pubblicato tre paper su temi inerenti alla decrescita: "Degrowth and Sustainable Human Development: in search of a path toward integration" (Paper presentato alla Conferenza Internazionale sulla Decrescita, Venezia 2012), "Sviluppo umano e sostenibilità ambientale: in cerca di una strada verso l’integrazione" (Vincitore della prima edizione del "Giorgio Rota Best Paper Award", Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”, 2013) e "From growth to degrowth to a steady-state economy: a (more) liberal path is possible" (disponibile su ASR e online, 2019). È laureato in Scienze Politiche, in Sociologia e in Linguistica Applicata. Attualmente vive a Barcellona.

1 commento

  1. […] Le grandi crisi del mondo contemporaneo possono essere divise in quattro macro-categorie: una crisi ambientale ed energetica, una crisi delle disuguaglianze, una crisi culturale e una crisi concernente la stabilità del sistema economico-finanziario. Ne ‘Il Secolo Decisivo’ dimostro come ognuna di queste crisi sia conseguenza fisiologica del modello socio-economico vigente, e non già una sua deriva accidentale. Ne deriva che la loro risoluzione passa per il superamento di tale modello. […]

Lascia un commento

Inserisci il tuo commento
Inserisci qui il tuo nome

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.