Nei momenti di grande incertezza, negli esseri umani cresce il bisogno d’identità. Gli eventi politici recenti, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, ne sono la prova. Uno spirito anti-globale e localistico ha preso d’assedio le due sponde dell’atlantico. Nonostante la globalizzazione dell’informazione, e forse in parte per sua causa, lo stato-nazione – questo binomio in apparenza inscindibile nel nostro tempo – è riemerso prepotentemente come il frame interpretativo egemone sulla realtà: un vero e proprio manto ideologico che ricopre ogni cosa, alterandone la fisionomia.
Gli stati fanno appello all’identità nazionale per rafforzare la propria coesione interna. Le nazioni che non sono organizzate in stati (la Catalogna, per esempio) rivendicano un riconoscimento istituzionale: vogliono costituirsi come stati. Oggi, più che quindici anni fa, vediamo attraverso le lenti distorsive dello stato-nazione, ci sentiamo parte di esso, e in base a esso ci auto-definiamo nelle nostre interazioni con gli altri. Persino chi nel proprio intimo non vede, non sente e non si definisce in rapporto allo stato-nazione, ne è costretto nei propri rapporti sociali da un lessico culturale comune. L’alternativa è l’incomprensione, l’isolamento socio-semantico. Siamo italiani, cinesi, statunitensi o indiani prima che esseri umani. La domanda ‘sei italiano?’ utilizza il verbo essere in quasi tutte le lingue indoeuropee. Se l’io è un individuo, il noi, quando non specificato, è una nazione; il loro è una nazione.
L’identità, è noto, nasce dalla distinzione. Per far parte di qualcosa, occorre auto-escludersi da una realtà più ampia. La mera somiglianza raramente accende la scintilla identitaria. Tutti siamo umani, solo alcuni sono italiani: per questo mentre con la specie umana non intratteniamo una relazione emozionale, essere italiani è un sentimento identitario. Essere italiani è un’esperienza, essere umani una mera constatazione. Sappiamo di essere umani ma sentiamo di essere italiani. E poco importa che essere umani costituisca una realtà fattuale, biologica, laddove essere italiani rappresenti un mero costrutto storico-culturale. I costrutti storico-culturali appaiono spesso più reali della realtà, non è forse vero?
Sì – è vero –, ma cosa c’entra tutto questo con i temi trattati su decrescita.com? C’entra, c’entra eccome. La rinnovata importanza delle identità nazionali si ripercuote sul modo in cui i grandi problemi del presente vengono non solo percepiti, ma anche affrontati (o ignorati). I problemi locali diventano magicamente problemi nazionali, problemi degli italiani. Lo stato se ne deve assumere la responsabilità legale, certamente, ma sono gli individui ad attribuire ad esso una responsabilità morale. E i problemi globali, o anche solo transnazionali, non avendo un referente identitario chiaro cui fare appello sono avvertiti come seccature esterne da delegare, o di cui liberarsi al più presto. La colpa è degli indiani, si dice, dei cinesi, o di un altro esterno che, guarda caso, è sempre rinchiuso nei confini semantici dello stato-nazione.
In Italia tanto il voto alle elezioni regionali quanto quello alle europee è di norma ridotto a un terreno di prova per le elezioni nazionali, le uniche che sembrano avere valore. La stampa e i media di massa privilegiano le notizie di portata nazionale, relegando alle pagine interne tanto quelle locali quanto quelle di portata globale, oppure ponendo l’attenzione su loro aspetti di livello nazionale. I problemi degli italiani diventano così più importanti di quelli dei milanesi o degli europei. La crisi ecologica globale, invece, acquista cogenza e riceve la maggiore attenzione solo quando la sempre più frequente alluvione o (inserisci-qui-un-disastro) colpisce la penisola.
Il doppio binario con cui si considera lo stato-nazione e qualsiasi altra entità politica fa sì che una riforma sgradita a livello europeo spinga ampie frange della popolazione a voler mandare all’aria l’intera Unione, laddove la medesima riforma a livello nazionale provocherebbe al più la richiesta di un cambio nella gestione dello stato. Dai problemi sovra-nazionali si scappa, solo i problemi nazionali vengono affrontati – spesso male, ma questo è un altro discorso. Tale atteggiamento è uno dei principali fattori alla base della paralisi politica di fronte alle grandi sfide globali del nostro tempo, crisi ecologica in primis. (E la colpa del fallimento, superfluo ribadirlo, è sempre dell’altro, e l’altro è sempre, immancabilmente, uno stato-nazione).
Vuoi un esempio? Eccone qua uno: accecati dalla nostra visione stato-centrica del mondo, dimentichiamo che i cinesi, pur contribuendo per un quarto alle emissioni globali di Co2, inquinano assai meno degli statunitensi, che concorrono per un ‘mero’ 15%. Eh sì, perché i cinesi sono 1 miliardo e 400 milioni, gli statunitensi ‘solo’ 320 milioni. Però a noi usare gli stati come metro di giudizio fa assai comodo. Utilizzare le emissioni pro capite come metro di giudizio farebbe ricadere la responsabilità sui nostri consumi, sui nostri stili di vita insostenibili. Utilizzare gli stati, invece, ci consente di andare in piazza a protestare contro il riscaldamento climatico dopo un pranzo veloce al MacDonald. Grazie alla loro visione stato-centrica del mondo, gli statunitensi possono illudersi di essere virtuosi. Loro (il ‘popolo americano’, non i singoli americani) inquinano meno dei cinesi! E gli australiani? Hanno le più alte emissioni pro capite al mondo dopo l’Arabia Saudita, ma ci sono solo 25 milioni di australiani. Un altro popolo virtuoso.
Se solo avessimo il coraggio di scostarci per un istante dagli occhi le nostre preziose lenti identitarie, il mondo ci apparirebbe assai diverso. Chissà, potremmo persino arrivare a condannare gli australiani più dei cinesi, i tedeschi più degli italiani, gli italiani più degli indiani. Ma sarebbe un errore. Perché non è questo il punto. Non il principale, almeno. Il punto è che sono gli individui che inquinano, non i popoli. Ciò non vuol dire che i governi nazionali, in quanto nucleo del potere politico globale, non abbiano la responsabilità più grande di avviare il cambiamento. Significa però che la ripartizione dell’onere di quel cambiamento non può avere come punto di riferimento esclusivo gli stati. Dividere la popolazione mondiale per le emissioni globali e vedere di quanto sono superiori a un livello di emissioni pro capite sostenibile per il pianeta, e usare quel numero come referente individuale, ha più senso che parlare delle emissioni della Cina, dell’India e degli Stati Uniti. È anche probabile che ci faccia passare dalla parte del tort… ah! Hai visto com’è facile? Ci sono quasi cascato anch’io. Stavo parlando ancora di noi-italiani; mi stavo rimettendo le lenti davanti agli occhi. Invece proviamo a guardarci come individui, e a giudicarci come tali, e a usare un plurale (se proprio dobbiamo) che trascenda i confini immaginari delle nazioni. Un plurale inclusivo, che responsabilizzi tutti in egual misura, senza discriminare secondo la categoria più idiota di tutte: il luogo di nascita. Dovremmo farlo a maggior ragione in questo momento d’incertezza, di crisi identitaria (espressione paradossale, visto che l’identità l’alimenta, la crisi).
Noi europei, che in gran parte non sentiamo di esserlo, ripudiamo l’Europa invece di renderla, come sarebbe auspicabile, il fulcro di uno sforzo comune e coordinato verso il cambiamento. Ci rifugiamo nei nazionalismi, quando ciò di cui avremmo disperatamente bisogno è un meta-nazionalismo che ponga al centro l’essere umano. Un eco-umanismo globalizzato che ci faccia vedere il mondo in termini di individui (presenti e futuri) e specie – non solo quella umana, ma anche le numerose altre che stiamo distruggendo giorno per giorno –, anziché in termini di nazioni. Un meta-nazionalismo che ci faccia sentire più europei che italiani, e più umani che europei. E che ci faccia vedere in faccia la realtà.
Come dici? Non riesci proprio a vederla? Guarda qua, l’ho compressa in una frase e ripulita per bene dalle incrostazioni sovraniste, che di questi tempi quelle si appiccicano ovunque come la muffa. Ecco, sta qui sotto:
‘Il futuro dell’Europa conta più del futuro dell’Italia, e il futuro del pianeta infinitamente più di entrambi.’
Abbiamo fatto l’Italia, abbiamo fatto gli italiani. Ora credo sia tempo di fare l’Europa e gli europei, e l’umanità soprattutto, e gli esseri umani.
Caro Federico, io che non riconosco l’idea di nazione e mi considero cittadino del mondo, sono nazionalista, anzi localista in campo economico. L’ecologismo e la decrescita avrebbero solo da guadagnare da un protezionismo economico attuato con buonsenso. L’idea di Europa è nata nelle menti di burocrati, al servizio delle multinazionali per sfruttare a fine di lucro gli scompensi che i mutamenti macroeconomici inevitabilmente causano: produzioni che si spostano in zone dove il costo del lavoro è minore e dove ci sono meno tutele ambientali, livellamento verso il basso, flessibilità del lavoro e perdita di diritti acquisiti ecc . Da un punto di vista, egoistico, ne sono felice: aria inquinata e caos mi stiano pure lontano; ma da un punto di vista della giustizia sociale sarebbe meglio che ogni paese torni a produrre in forma locale. L’Europa è una grossa e neanche bella bugia. Ciao.
Ciao Diego! Ti rispondo punto per punto.
“Caro Federico, io che non riconosco l’idea di nazione e mi considero cittadino del mondo, sono nazionalista, anzi localista in campo economico. L’ecologismo e la decrescita avrebbero solo da guadagnare da un protezionismo economico attuato con buonsenso.”
Su questo sono d’accordo, anche se con un paio di precisazioni: 1) non credo che il referente debba essere lo stato. Meglio la singola comunità, o al massimo la regione. 2) occorre definire bene cosa si intende per buonsenso.
“L’idea di Europa è nata nelle menti di burocrati, al servizio delle multinazionali per sfruttare a fine di lucro gli scompensi che i mutamenti macroeconomici inevitabilmente causano: produzioni che si spostano in zone dove il costo del lavoro è minore e dove ci sono meno tutele ambientali, livellamento verso il basso, flessibilità del lavoro e perdita di diritti acquisiti ecc.”
L’Europa ha anche messo fine a secoli di conflitti militari fra stati europei. Troppo spesso ce ne dimentichiamo. L’articolo difende l’idea di un’Europa al servizio dei diritti dell’uomo e della protezione dell’ambiente. Per entrambi, i referenti necessari sono il locale e il globale. Gli stati non sono necessari, ed anzi sono un ostacolo verso un mondo più libero e sostenibile. L’Europa (come progetto politico) va riformata e migliorata, sicuramente, ma per metterla davvero al servizio dell’idea di cui sopra. Altrimenti si rischia di buttare via il bambino con l’acqua sporca. E una volta buttato via il bambino, ci si risveglierebbe infine dal sogno di un paese dei balocchi nazionale, ricordandoci che l’Italia, da sola, non è esattamente un modello di integrità, giustizia e sostenibilità.
“Da un punto di vista, egoistico, ne sono felice: aria inquinata e caos mi stiano pure lontano; ma da un punto di vista della giustizia sociale sarebbe meglio che ogni paese torni a produrre in forma locale. L’Europa è una grossa e neanche bella bugia.”
Dov’era la giustizia sociale prima dell’Europa? Nel ventennio fascista? O nel quarantennio democristiano in cui si generava debito pubblico senza freno per sostenere un welfare insostenibile (e altamente inefficiente), che ancora oggi paghiamo? Edulcorare il passato è una trappola pericolosa. Per quanto riguarda la produzione locale, sono d’accordo. Ma è possibile farlo restando in Europa, riformandone il progetto politico. Il vantaggio è che, così facendo, gli europei potrebbero esercitare una maggiore influenza su quei probemi che, invece, possono essere risolti solo attraverso uno sforzo globale condiviso e coordinato.
Ciao Federico…sono dell’idea che ciò che ha disinnescato i conflitti tra le nazioni siano state, lo so é paradossale, le armi nucleari che hanno messo i governi di fronte alla possibilista molto realistica che un eventuale guerra sarebbe stata letale per l’intera umanità. D’altra parte mi riesce difficile discutere su Europa si Europa no perché di fatto l’Europa non esiste! Una nazione per essere tale deve avere un esercito un governo in grado di esercitare il potere una legislazione comune. Tutto ciò non c’è.
L’unica cosa che agisce a livello europeo è la Commissione che sembra una diretta emanazione delle multinazionali e dei gruppi bancari.
Un economia a misura d’uomo può nascere e svilupparsi solo nel piccolo perché risponde alle esigenze degli individui e delle comunità di cui fanno parte…
Ma ciò che dimostra inequivocabilmente che l’Europa non esiste è che non ha una squadra di calcio!! Scherzo…
Ciao.
“Ciao Federico…sono dell’idea che ciò che ha disinnescato i conflitti tra le nazioni siano state, lo so é paradossale, le armi nucleari che hanno messo i governi di fronte alla possibilista molto realistica che un eventuale guerra sarebbe stata letale per l’intera umanità. D’altra parte mi riesce difficile discutere su Europa si Europa no perché di fatto l’Europa non esiste! Una nazione per essere tale deve avere un esercito un governo in grado di esercitare il potere una legislazione comune. Tutto ciò non c’è.”
L’Europa non è una nazione, è una comunità politica ed economica. Personalmente sarei per gli stati uniti d’Europa e per un esercito europeo, ma questo è un altro discorso.
“L’unica cosa che agisce a livello europeo è la Commissione che sembra una diretta emanazione delle multinazionali e dei gruppi bancari.”
Questa è una visione alquanto riduttiva della realtà, che non rende onore alle innumerevoli iniziative lodevoli messe in atto dall’unione. Nel campo della tutela dei diritti dell’uomo e della protezione dell’ambiente, solo per fare due esempi. Si potrebbe e dovrebbe fare molto di più? Certamente. Ma ciò è vero anche a livello dei singoli stati dell’unione, Italia inclusa. Ti consiglio di dare un’occhiata alle 6 priorità della commissione europea per il quinquennio 2019-2024: https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024_en.
“Un economia a misura d’uomo può nascere e svilupparsi solo nel piccolo perché risponde alle esigenze degli individui e delle comunità di cui fanno parte…”
Vero, ma serve anche coordinazione a livello sovralocale e globale. In ogni caso il focus attuale sulla dimensione nazionale dei grandi problemi contemporanei fa passare in secondo piano tanto il locale quanto il globale. Era uno dei punti chiave dell’articolo.
“Torino è stata meravigliosa nell’opera di assistenza. Ci siamo già sganciati dal concetto troppo meschino di filantropia per arrivare al concetto più vasto e più profondo di assistenza. Dobbiamo fare ancora un passo innanzi: dall’assistenza dobbiamo arrivare alla solidarietà nazionale”.
“Ma è dal punto di vista umano, perché il pensiero che una famiglia soffra dà a me stesso una sofferenza fisica, perché io so, so per averlo provato, che cosa vuol dire”.
Ciao Federico, questi sopra sono due frammenti del discorso che Mussolini fece a Torino in Piazza Castello nel 1932. A leggere queste parole paiono pronunciate dal più mite politico “radical-chic” dei nostri tempi.
Questo per dire che le iniziative dell’unione europea di cui tu parli spesso si fermano alle buone intenzioni, sono solo parole.
Dov’era l’unione europea quando gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno attaccato l’Iraq con la scusa della presenza di armi di distruzione di massa poi rivelatasi falsa, che cosa fa l’unione europea oggi dopo l’assasinio del generale iraniano se non moversi in ordine sparso, cosa fa l’unione europea per evitare che migliaia dipersone muoiono continuamente nel mediterraneo nel tentativo di raggiungerla.
Tuttavia sono felice e speranzoso sulla svolta ecologista e sulla tutela dei ditritti umani data dalla nuova presidenza. Spero che ancora una volta non siano solo parole sotto cui si nascondono le solite trame portate avanti dalle classi privilegiate a scapito delle popolazioni. Ciao.
Ma stiamo davvero paragonando le iniziative di Mussolini a quelle dell’Unione Europea? Quando in Italia Salvini sfiora il 40%? Mi dispiace ma questo è proprio un esempio del doppio standard di cui parlavo nell’articolo.
“Questo per dire che le iniziative dell’unione europea di cui tu parli spesso si fermano alle buone intenzioni, sono solo parole.
Dov’era l’unione europea quando gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno attaccato l’Iraq con la scusa della presenza di armi di distruzione di massa poi rivelatasi falsa, che cosa fa l’unione europea oggi dopo l’assasinio del generale iraniano se non moversi in ordine sparso, cosa fa l’unione europea per evitare che migliaia dipersone muoiono continuamente nel mediterraneo nel tentativo di raggiungerla.”
Se l’Europa non ha la forza di agire e si ‘muove in ordine sparso’ è proprio perché attualmente è schiava degli stati membri. Abbiamo bisogno di un’Europa più forte e unita, che possa giocare un ruolo di protagonista nel mondo.
Ciao Federico, l’esempio di Mussolini mi serviva solo per mettere in luce come dietro belle parole e proclami spesso si nascondano atti concreti di tutt’altro tenore.
Mi auguro per te e per tutti che l’Europa possa diventare il faro della civiltà del futuro ma se il buon giorno si vede dal mattino…a vent’anni dall’entrata in vigore della moneta unica che ha di fatto causato un peggioramento delle condizioni socio economiche dei cittadini dell’unione non si è fatto nessun sostanziale passo avanti per ciò che riguarda la creazione di un governo con reali poteri politici, non si è mai vista nessun minimo abbozzo di una politica estera comune mentre forti venti di disgregazione soffiano da ogni dove (vedi brexit).
Rispondo solo ora perché purtroppo non avevo notato il commento. Premesso che ci sono moltissime cose da migliorare in Europa (come anche in Italia), si tratta di non buttare via il bambino con l’acqua sporca. Per quanto riguarda l’entrata nell’euro e il peggioramento delle condizioni socio-economiche dei cittadini europei, il discorso sarebbe lungo, e non è questo il luogo. Solo un paio di appunti: 1. correlazione non significa causazione. Questo ne è un caso esemplare. Ci sono stati innumerevoli altri fattori (in primis le ripetute crisi economiche di origine extraeuropea) che hanno causato il declino delle condizioni sociali di molti cittadini europei. E questo ci collega al punto successivo. 2. Il modello precedente era per molti versi insostenibile a livello economico. Un welfare sovradimensionato rispetto alle capacità di spesa è il principale fattore alla base della crescita esponenziale dei debiti pubblici in Europa nella seconda metà del XX secolo. In altre parole, i nostri padri e nonni vivevano al di sopra delle proprie risorse.
Non capisco invece il tuo utimo punto. Se non ci sono stati passi in avanti verso un governo europeo e una politica estera comune (e, aggiungo io, un welfare europeo e un esercito europeo) è proprio per quei forti venti di disgregazione di cui parli. Il nazionalismo egoista e l’anti-europeismo diffuso (e in gran parte immotivato) non creano un clima favorevole a tali cambiamenti. Se vuoi sapere qual è l’Europa che mi piacerebbe vedere nel futuro, e perché ritengo ci sia disperato bisogno di un progetto europeo forte, ti invito a leggere il mio libro ‘Il Secolo Decisivo: storia futura di un’utopia possibile’.
vi seguo e vi stimo tantissimo, ma in questo caso non sono daccordo con voi!! può piacere o meno, ma chi inquina di piu oggi sono cina e india, piu altri paesi in via di sviluppo, su questo c’è poco da discutere, inoltre, ache se inquinano gli individui, sono gli stati che organizzano la vita delle persone, e se questi stati costruiscono centrali a carbone una dietro l’altra, costringono i cittadini a fare centinaia di chilometri al giorno per andare a lavorare, si creano una economia basata sulle esportazioni, e cosi via, mi sembra assolutamente corretto parlare di stati inquinanti. con questo non voglio demonizzare cinesi e indiani, che sono due grandi popoli, prendo solo atto del fatto che, in questa epoca i maggiori inquinatori siano loro; che poi tante cose debbano cambiare anche qui è un altro discorso
Ciao Paolo, oltre a segnalarti che i livelli pro capite di inquinamento cinesi e indiani sono decisamente più bassi di quelli occidentali, ti rinvio al grafico che trovi in questo articolo http://www.decrescita.com/news/maurizio-blondet-e-gli-autogol-sul-clima/ relativo al calcolo delle emissioni di CO2 incorporate ai paesi importatori: ne risulta che, se i due giganti orientali sembrano tanto inquinanti e gli occidentali tanto ‘virtuosi’, è solo perché quetsi ultimi hanno delocalizzato l’industria pesante e di conseguenza l’inquinamento generato. Nel momento in cui venisse meno la divisione internazionale del lavoro della globalizzazione e gli occidentali dovessero tornare a fare da soli la manifattura, tornerebbero a essere i peggiori inquinatori anche con i calcoli ‘normali’.
Mi pare che Igor abbia già detto tutto. Aggiungo che non si tratta di essere d’accordo o meno, si tratta di un dato empirico: i cinesi a livello pro capite emettono meno Co2 degli italiani. In termini assoluti emettono molto di più degli italiani. Ma questo è ovvio: loro sono 1.4 miliardi, gli italiani 60 milioni.