Verso la conversione ecologica della società

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L’alternativa a questo modello di sviluppo insostenibile passa anche attraverso la conversione ambientale del sistema produttivo – e dei nostri consumi – a partire dagli stabilimenti in crisi e dalle fabbriche di prodotti obsoleti o nocivi, tra i quali l’automobile occupa il secondo posto, dopo gli armamenti. I settori in cui progettare, creare opportunità e investire non mancano: dalle fonti di energia rinnovabili all’efficienza energetica, dalla mobilità sostenibile all’agricoltura a chimica e chilometri zero, dal riassetto del territorio all’edilizia ecologica.

Certo, all’inizio si può solo discutere e cominciare a progettare. Gli strumenti operativi, i capitali, l’organizzazione sono in mano di altri. Ma se non si comincia a dire, e a saper dire, che cosa si vuole, e in che modo e con chi si intende procedere, chi promuoverà mai le riconversioni produttive?

Investire miliardi per salvare industrie obsolete, inquinanti o delocalizzabili non serve a niente, se non a prolungare le cause della crisi.

Una trasformazione è necessaria: essa passa dalla modernizzazione ecologica dell’economia tramite la riconversione dell’insieme delle attività produttive e di servizi.

 

Scendiamo dall’auto

L’esempio del settore automobilistico (pur non essendo certo l’unico settore in cui questa conversione di dimostri necessaria) illustra bene questa necessità di riconversione ecologica dell’economia: i piani nazionali di sostegno si avvicendano, i miliardi di euro vengono elargiti, senza vincolo e senza coordinamento europeo. Dobbiamo evitare di recitare di nuovo le pessime opere della siderurgia lorenese dove sistematicamente si è mentito alle popolazioni sull’avvenire di queste industrie. La circolazione automobilistica regredirà. E’ una realtà, poiché la società del dopo petrolio è già cominciata. La conversione del settore è una misura di buon senso per stasare le città e lottare contro l’inquinamento urbano. E’ anche una necessità climatica e una posta ecologica maggiore: i trasporti contano oggi per il 31% sul consumo energetico finale, 70% del consumo di petrolio e 25% di emissioni di CO2. L’automobile rappresenta oggi in Europa il 12% delle emissioni. Ma è altrettanto una posta sociale determinante: 2,5 milioni di famiglie europee sono direttamente coinvolte e intorno al 15% del budget familiare è riservato all’automobile. E non dimentichiamo mai i costi e le conseguenze derivanti dagli incidenti stradali (ogni giorno in Italia 13 morti e 849 feriti: un bollettino da guerra!)

Proprio la conversione dell’industria dell’auto avrebbe un effetto di impulso passivo per il resto dell’industria: da sempre la macchina gioca un ruolo centrale dell’organizzazione della società e nell’immaginario collettivo.

La filiera auto – petrolio non garantisce più la valorizzazione del capitale e da tempo si è aperta una crisi strutturale fra macchina produttiva e estrazione del “plusvalore”, specie dopo il boom della motorizzazione di paesi come il Brasile, l’India e la Cina.

Dobbiamo leggere la crisi dell’auto e sviluppare una vera e propria “auto-critica”: l’APTI (ossia l’Auto Termica a Proprietà Individuale) rappresenta ormai un “sistema tecnologico e finanziario” obsoleto e capitalisticamente debole, un vincolo normativo alle libera mobilità personale.

La conversione ecologica si costruisce dal basso «sul territorio»: fabbrica per fabbrica, campo per campo, quartiere per quartiere, città per città. Chi ha detto che la programmazione debba essere appannaggio di un organismo statuale centralizzato e non il prodotto di mille iniziative dal basso? Chiamando per cominciare a confrontarsi in un rinnovato «spazio pubblico», senza settarismi e preclusioni, tutti coloro che nell’attuale situazione non hanno avvenire: gli operai delle fabbriche in crisi, i giovani senza lavoro, i comitati di cittadini in lotta contro gli scempi ambientali, le organizzazioni di chi sta già provando a imboccare strade alternative (dai gruppi di acquisto ai distretti di economia solidali). E poi brandelli di amministrazioni locali, di organizzazioni sindacali, di associazioni professionali e culturali, di imprenditoria ormai ridotta alla canna del gas; e nuove leve disposte a intraprendere, e a confrontarsi con il mercato, in una prospettiva sociale e non solo di rapina.

Per questo il cantiere Italia deve iniziare a riprogettare il veicolo partendo pure da ecologi – metereologi, architetti, ingegneri telecomunicazioni, esperti finanza e leasing, ingegneri dei materiali, ingegneri elettrici, meccatronici. E ovviamente utenti, cittadini, vigili urbani, educatori e pedagogisti, bambini e anziani.

E partire dal come e cosa produrre. Sì, del cosa produrre, cosicchè uscendo dall’auto, si esca anche dalla crisi capitalistica e dal capitalismo stesso.

Questi sono i veri “fattori competitivi”: perché la transizione verso produzioni ambientalmente compatibili non solo è irrealizzabile senza una partecipazione consapevole delle comunità coinvolte; ma ha anche bisogno dei loro saperi. Sia di quella conoscenza del territorio e dei contesti sociali che solo chi vive in essi possiede; sia delle competenze che ciascuno ha sviluppato attraverso esperienze di studio, di lavoro o di vita.

Si tratta allora di creare, o riaprire, degli spazi pubblici dove questi saperi possano confluire, confrontarsi, integrarsi, pur nella irriducibile diversità di valori e interessi di cui sono espressione; e, alla fine, sintetizzarsi in una o più proposte di transizione a livello locale.

Dobbiamo ripensare la mobilità costruita sul tempo e sull’acquisto non di hardware e veicoli ma di software, cioè di “carta della mobilità”.

L’obiettivo è la riduzione del parco veicolare, quindi del costo complessivo finanziario ed ecologico, e con la carta della mobilità accedere a diversi e svariati veicoli, ibridi o elettrici o metano, accrescendo l’autonomia personale e riducendo i costi complessivi del parco veicoli e del loro inquinamento.

Va immediatamente avviata la produzione di vetture poco costose, che evitino sprechi di energia e di materiali non riciclabili. Oltre a queste migliorie tecniche, poi, dobbiamo riconsiderare la logica del trasporto individuale e favorire quello collettivo (mezzi pubblici, forme di “car sharing” e/o “car pooling”) e una circolazione “dolce”.

In sintesi, bisogna coniugare i tre meno (meno automobili, meno sprechi di energia, meno inquinamento) con i tre più (più trasporti in comune e su rotaia, più ripartizione energetica, più comfort di vita).

Questa esigenza dovrà coniugarsi con la realizzazione di un immenso cantiere di formazione e di conversione dei lavoratori dipendenti, per preparare il futuro ed evitare, nell’immediato, un dramma sociale.

 

Cambiare il paradigma della società: il “rebus” Pomigliano e la globalizzazione

L’unico vero problema è che le forze che saranno protagoniste di nuovi stili di vita e nuovi consumi esistono in maniera flebile, non dispongono di lobby per far ascoltare la propria voce, non hanno possenti rappresentanze. Non l’hanno soprattutto nei sindacati e nei partiti (tradizionalmente subalterni al modello auto-petrolio come regola del mondo), il più delle volte sordi alle esigenze di chi non ha il posto fisso, di chi vive in condizioni di mobilità continua, di chi non è protetto da reti di sicurezza ed è già attore di nuovi stili di vita e di consumi.

E’ necessario che i lavoratori, i dirigenti, i sindacati e la politica entrino nell’ottica che non si può continuare a difendere prodotti obsoleti che sono ormai in ritardo rispetto agli scenari futuri e che per essi non ci sarà mercato e posti di lavoro. E perchè barricarsi dietro ad una difesa di questi posti di lavoro ad ogni costo e non invece mettere subito sul tavolo un progetto alternativo di società, dove andare a rivendicare posti di lavoro nuovi, puliti, sostenibili e duraturi, con lo sguardo rivolto al futuro?

Sembra però che la conversione ambientale dello stabilimento di Pomigliano o di altre fabbriche in crisi, urti contro la centralità della produzione automobilistica (una volta la centralità era della classe operaia…). E ancora si sostiene che il settore automobilistico continui ad incarnare lo spirito del tempo, perchè continua a svolgere un ruolo cruciale sia nella formazione del PIL, sia nella dinamica occupazionale, e perchè il cuore delle innovazioni organizzative continuerebbe a pulsare qui.

L’apertura dei mercati mondiali, che è l’essenza della globalizzazione, porta inevitabilmente a un livellamento dei salari e della produttività del lavoro, intesa come intensità dello sfruttamento, o, se vogliamo, dell’erogazione della prestazione.

La strada da imboccare è la progressiva e graduale “riterritorializzazione” dei mercati e delle produzioni che coincide in gran parte con la conversione ambientale nei settori vitali del sistema economico.Questo obiettivo è ormai chiaro e largamente condiviso nel settore agroalimentare: qui riterritorializzazione significa multifunzionalità delle aziende agricole, valorizzazione delle colture e delle specialità tradizionali, delle specie autoctone, delle produzioni biologiche, “a chilometro zero”.

Guai però a pensare di avviare la riconversione di uno stabilimento industriale alla green economy con una semplice stretta della disciplina di fabbrica. Occorre altresì passare attraverso la mobilitazione delle forze sane del territorio, una discussione sulle ragioni della conversione, un coinvolgimento delle risorse intellettuali delle comunità interessate. Per poi procedere a verifiche di mercato, a progettazioni di massima, e alle battaglie per impegnare i diversi livelli del governo locale e nazionale. Sono cose che non si preparano nè in un giorno nè in un anno; c’erano però da anni molti motivi per cominciare a lavorarci. Ma non è mai troppo tardi.

Ovviamente questo va inserito e contestualizzato all’interno di una prospettiva complessiva, organica e completa, orientata verso la conversione ecologica dell’intera società.

Una sorta di “Green Deal”, un rilancio verde dell’economia, analogo al New Deal rooseveltiano che fece superare la Grande Depressione del 1929. Si tratta di una nuova filiera industriale, ma contemporaneamente ad un cambiamento degli stessi rapporti produttivi e di potere.

Per le risorse economiche dovremmo articolare finanziamenti locali e/o nazionali di progetti sperimentali con finanziamenti europei, inquadrati da un “Agenzia europea per la trasformazione dell’economia”, coinvolgendo la società civile nel controllo dei fondi.

Le risorse devono essere dedicate pure a favorire la riconversione dei lavoratori. Una fase di transizione attraverso una sorta di reddito di riconversione per i milioni di lavoratori del settore automobilistico finanziandolo con un intervento ridistributivo a livello di Unione Europea (ad esempio il Fondo europeo per lo sviluppo regionale) Così i fondi pubblici degli Stati membri o dell’Unione Europea servirebbero a pagare i dipendenti del settore perchè imparino a fare altro.

Insomma, collegare il processo di trasformazione a lungo termine alla gestione immediata degli effetti provocati dalla distruzione dell’economia reale.

Le soluzioni alternative e gli esempi non mancano…

Ma davvero nelle fabbriche di auto non si possono produrre che quelle? O in quelle di elettrodomestici si possono produrre solo quelli?

Pensiamo agli Stati Uniti o la Germania e ai loro programmi di riconversione delle industrie in produzione bellica: nel giro di pochi mesi, in entrambi i casi riuscirono a cambiare obiettivi e finalità.

La riconversione produttiva con cui l’industria degli stati Uniti aveva a suo tempo affrontato lo sforzo bellico della seconda guerra mondiale permise in pochi mesi alle fabbriche di auto e al loro indotto di essere riconvertite per produrre tank, jeep, aerei, cannoni, munizioni e navi.

La Germania nazista aveva fatto un’operazione analoga in breve tempo pochi anni prima.

Se si prendesse la minaccia climatica (e quella occupazionale) con lo stesso spirito con cui era stata affrontata la guerra, la salvaguardia di milioni di posti di lavoro sarebbe automatica, come era successo con lo sforzo bellico degli anni ’40 che aveva posto fine alla depressione del ’29.

E non mancano esempi concreti attuali: in Francia, la Ford a Blanquefort è stata convertita alla produzione di componenti per turbine eoliche.

In Italia abbiamo l’esempio di Scandicci, dove l’ex stabilimento della multinazionale svedese Electrolux si è riconvertito passando dalla produzione di frigoriferi al fotovoltaico.

Chiudiamo questo contributo richiamando l’attenzione a quanto indicato da Europe Ecologie nel Contratto Ecologista per l’Europa nel capitolo – pilastro sull’occupazione. Un esempio di proposta di un contratto di conversione ecologica dell’industria automobilistica per intraprendere un’altra politica dei trasporti.

Qui si afferma che il primo cantiere della conversione industriale dell’economia europea dovrà riguardare proprio l’automobile.

Un contratto europeo di conversione ecologica dell’industria automobilistica permetterà di uscire dalla società del “tutto macchina”. Soddisfare i bisogni di mobilità più vicino possibile alla domanda sociale e geografica, nel rispetto dell’ambiente e degli obblighi energetici, implica di dare impulso a un’altra politica dei trasporti. E viene proposto di condizionare tutti i sostegni pubblici alla costruzione automobilistica (Europa, Stati, collettività locali) a criteri ambientali e sociali costrittivi che favoriranno la conversione del settore. Fra le clausole di questo contratto le più rilevanti riguardano il capitolo “sicurezza del lavoro e formazione” : i costruttori si impegnano ad assicurare una continuità tra l’impiego attuale e futuro dei loro salariati con un piano di riconversione del personale, comprendendovi i lavoratori dei subappalti e quelli impegnati in stage di formazione remunerati a salario pieno. Le abilità possono e devono essere utilizzate in altri settori. I costruttori che non stanno in questo gioco collettivo non saranno aiutati. Il contratto di sicurezza impiego-formazione garantirà un indennizzo forte della disoccupazione parziale con formazione professionale per “mestieri della mobilità” (esempio: formazione polivalente automobile, treno, bus…) così che la continuità dei diritti sociali e del reddito possa essere garantita.

E poi: nessun aiuto pubblico sarà accordato alle imprese delocalizzanti la produzione destinata all’Unione europea; il denaro pubblico andrà al settore automobilistico solo a chi ridurrà radicalmente il suo impatto sull’ambiente e sul clima (“transizione verso la vettura sobria)” e quindi blocco della potenza (e dei consumi) e nuovi modelli con emissioni inferiori di CO2.

Da parte sua, l’unione europea s’impegnerà a sviluppare una “politica comune di mobilità e di trasporti”:

passare dal dominio della vettura individuale privata all’organizzazione di un servizio di mobilità diversificata nel settore urbano insieme ai trasporti in comune confortevoli e accessibili, delle biciclette, veicoli in comune o noleggiati. Trasporto delle merci: ridurre i trasporti inutili e far pagare i trasporti su strada delle merci al loro giusto costo, internalizzando i loro costi esterni. I fondi europei devono andare alle alternative alla strada (rotaia e navigazione). Trasporto dei passeggeri: priorità al treno, miglioramento dei collegamenti ferroviari regionali, interoperabiltà di collegamenti grandi linee tra sistemi europei.
Riorientamento dei budget per la ricerca verso la mobilità durevole.

Insomma, le soluzioni e le alternative possibili non mancano, dobbiamo cominciare a lavorare per favorire le condizioni.

Luglio 2010 Stefano Romboli Cittadini Ecologisti

Fonti:

– Prove di un mondo diverso (Guido Viale, 2009, NdA Press)

– Contratto Ecologista per l’Europa (Europe Ecologie giugno 2009)

– L’energia felice. Dalla geopolitica alla biosfera (Pierattilio Tronconi, Mario Agostinelli, 2009, Socialmente)

– Lo sguardo lungo di Oscar Marchisio (Manifesto 31.07.2009)

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Nato il 09 - 02 - 1971 a Livorno. Dal 2003 operatore socio-culturale presso l'Associazione don Nesi/Corea. Dal 2008 al 2010 impegno con i Verdi di Livorno (ho svolto per un anno il ruolo di portavoce) e dal 2010 al 2011 referente dei Cittadini Ecologisti. Co-fondatore dell'APPL (Assemblea Permanente per la Partecipazione a Livorno) e della Libera Università Popolare "Alfredo Bicchierini" (dove sono vice-presidente). Da sempre pratico stili di vita alternativi, all'insegna della sobrietà. Promuovo corsi e seminari relativi anche alla decrescita attraverso le attività della Libera Università Popolare.

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