“Il mondo è come un’unica immensa città”, scrive Marc Augé, noto teorico dei “non-luoghi”, in Che fine ha fatto il futuro? (Elèuthera, 2009), in un capitoletto in cui si interroga su “globalizzazione, urbanizzazione, comunicazione, istantaneità”. Il mondo è, si diceva, “un’unica immensa città”, ed è facile viaggiare, per chi può farlo. In ogni paese troviamo tanti punti di riferimento che ci salvano dalle insidie della diversità di altre culture (che mondo sarebbe senza Coca Cola e Big Mc?) Lo rileva anche Augé che osserva che “l’esotismo, che è sempre stato un’illusione, diventa doppiamente illusorio da quando è messo in scena. Le stesse catene alberghiere, le stesse reti televisive, rinserrano il globo per darci la sensazione di un mondo uniforme, uguale dappertutto, in cui solo gli spettacoli cambiano, come a Broadway e Disneyland.” “Il mondo globale”, dice Augè, “è dunque un mondo in rete, un sistema definito da parametri spaziali, ma anche economici, tecnologici e politici […] Il mondo globale presuppone, almeno idealmente, la cancellazione delle frontiere e delle contestazioni, a vantaggio di una rete di comunicazioni istantanea. La cancellazione delle frontiere, che si vorrebbe fosse una cancellazione del tempo, è messa in scena dalle tecnologie dell’immagine e dell’organizzazione dello spazio.” Lo spazio è annientato dal click della tecnologia che permette, con la rete, di accedere a qualsiasi cosa vi entri, ovunque essa sia ed in ogni tempo. La “cosmotecnologia” (così Augè la definisce) è abolizione di ogni frontiera, anche quella tra realtà e finzione. È però anche vero che “ogni grande città è un mondo a sé e che riassume in sé il mondo, con la sua diversità etnica, culturale, sociale ed economica. Le frontiere o le barriere la cui esistenza tendiamo spesso a dimenticare, davanti allo spettacolo affascinante della globalizzazione, le ritroviamo evidenti, impietosamente discriminanti, nel tessuto urbano tanto variegato quanto lacerato. Si ha in mente la città quando si parla di quartieri difficili, di ghetti, di povertà e di sottosviluppo.” Se guardiamo nel concreto delle nostre città, dei nostri condomini, delle nostre case (piene zeppe di codici di accesso di ogni genere per ogni cosa), ci troviamo davanti alla contraddizione “tra l’esistenza proclamata di uno spazio continuo e la realtà di un mondo discontinuo, nel quale proliferano i divieti di ogni genere.” Quante barriere si celano nella realtà di un mondo che si proclama sempre più “globale”, senza limiti e a portata di mouse?
Sono andata in visita, insieme al mio gruppo giovani di Azione Cattolica, (che ringrazio di cuore e senza il quale non avrei vissuto l’esperienza), al campo nomadi della mia città, per incontrare i sinti che da parecchi anni ci vivono. Ne abbiamo tratto un bellissimo pomeriggio, una merenda, una partita a calcetto con i bambini, qualche confronto serio su pregiudizi e “valori” con i ragazzi più grandi, qualche canzone con la chitarra. È bastato poco per frangere una barriera che qui da noi è peraltro particolarmente calda e terreno di numerosi scontri di “opinione pubblica”. Non perché ora questi amici sinti mi paiano tutti belli bravi e buoni, ma perché quel luogo non è più (e spero non torni a diventarlo) un ghetto ritagliato dallo spazio vivibile della città, un luogo pericoloso da cui tenersi alla larga, ma si è riabilitato ai miei occhi come spazio di vita, di gioco, di relazioni umane; è un luogo nel quale spero di tornare e, presumo, tornerò. Ricollegandomi ad Augè, tagliamo con le forbici le “frontiere” dello spazio e, in compenso, non siamo in grado di vedere i ghetti di cui sono piene le nostre città. E mentre vediamo il mito del “viaggiare” come desiderio comune perché (così dicono tutti) “apre la mente”, “si conoscono altre culture”, “si scoprono luoghi nuovi”, e mentre il mondo è sempre più tascabile e padroneggiabile (per la piccola parte che può permetterselo, non dimentichiamo), il “locale” rimane un luogo alieno, in cui ci spaventa la diversità, quella diversità reale, che forse ha ancora davvero la capacità di interrogarci. E ci spaventa a tal punto, la diversità (o quella che pensiamo tale), da relegarla in luoghi addetti, e così anestetizzarla, e così renderla muta, deprivata di quella che è la sua principale forza: innescare cambiamenti reali.
Il turista non è un viaggiatore e, parafrasando il testo di una vecchia canzone degli Stormy Six, abitare è un termine un po’ forte per quello che facciamo ogni giorno.
Quando capiremo che le barriere che erigiamo ci imprigionano nella stessa misura in cui ci proteggono avremo di nuovo qualche speranza.