Da convinto ma non dogmatico sostenitore delle teorie della decrescita, vorrei provare a rispondere alle accuse mosseci da Antonio Pasquale nell’articolo “Gli egoisti della decrescita”, pubblicato su “La lettura” del Corriere della Sera del 19 febbraio scorso.
Fondate o meno che siano, le critiche di Pascale hanno fatto un po’ arrabbiare (intellettualmente), e proprio per questo hanno generato benefiche discussioni e approfondimenti. A mio parere, Pascale non è quasi mai nel torto; piuttosto, sembra che ovunque punti lo sguardo arrivi a vedere con una certa nitidezza, ma sempre tenendo costante il punto di vista. Ed è un punto di vista saldamente ancorato al sistema. Dà l’impressione, malgrado i timidi tentativi di mettersi nell’ottica della decrescita, che non possa o non voglia fino in fondo cambiare prospettiva, come mosso da un pre-giudizio tutto sommato comprensibile e riscontrabile in molti. Cercherò di contro-argomentare ogni sua critica, possibilmente stando al suo gioco, evitando dunque di mascherare alcunché con l’eloquio e provando ad essere il più chiaro possibile.
Cominciamo, banalmente, dall’inizio. Pascale sente pronunciare la parola decrescita da Dandini, Mercalli, Petrini, Veronesi, dal “benestante italiano, più o meno di sinistra”, in definitiva, lamenta, da persone “che non hanno mai superato un esame di micro e macroeconomia”. La prima di queste due critiche, ossia il fatto che il concetto di decrescita sia ad uso predominante di benestanti, meglio se radical chic, sembra voler suggerire, lascia da subito il tempo che trova. Non voglio far leva sul mio caso particolare per rispondere a questo punto, un solo controesempio sarebbe ben poco efficace, e allora ne porto molti: tra gli amici che condividono le mie idee sulla decrescita, agli incontri pubblici cui ho partecipato con sostenitori e simpatizzanti delle idee stesse, all’assemblea nazionale di “Uniti e Diversi” di Chiesa, Pallante e Fini a Bologna, al festival No Dal Molin di Vicenza, di questi radical chic ne ho visti ben pochi. Piuttosto, se Pascale sente quasi esclusivamente voci di benestanti è perché sono i benestanti ad avere accesso alla comunicazione di massa, non certo le persone qualunque. E’ chiaro in ogni caso che anche solo per arrivare a sentir parlare di decrescita bisogna avere un minimo livello culturale che consenta di accedere ad informazioni critiche esterne al mainstream, e questo può escludere le classi meno istruite dalla discussione (non essendoci oggi forze didascaliche come il Pci di un tempo a praticare pedagogia politica nelle aziende). E’ insomma nella logica delle cose che di decrescita Pascale senta parlare da persone colte, benestanti, “più o meno di sinistra”, magari di background letterario, dotate quindi della sensibilità e degli strumenti adatti a criticare codesta società dei consumi e del cosiddetto benessere. Al contrario, e veniamo alla seconda critica, ciò sarà presumibilmente più difficile per uno che sia riuscito a stare immerso lungamente nel contesto degli studi economici senza esserne repulso. Per quel che mi riguarda, un esame di economia all’Università l’ho sostenuto. La cosa più importante che mi ha insegnato è che l’applicazione delle scienze economiche va considerata con un minimo di sospetto. A che serve dimostrare che, nel libero mercato, fatta tutta una serie di ipotesi, l’allocazione finale dei beni tra i diversi soggetti è tale da garantire la massima soddisfazione finale possibile per tutti con la massima efficienza? Serve al massimo a dimostrare che le ipotesi iniziali sarebbero desiderabili. Ma nel mondo reale, nel capitalismo reale, non sono mai verificate, e di molto: le condizioni di partenza sono diseguali, le conoscenze sono asimmetriche, le storture del mercato infinite, la natura umana non razionale e via dicendo. Può essere chiamata libera competizione, per dire, quella tra una piccola impresa italiana e una impresa di pari dimensioni cinese? O tra una statunitense e una boliviana? Teoremi simili vengono utilizzati per giustificare la mercantilizzazione di ogni possibile ambito. Per essere più aderenti al nostro discorso, Kenneth Boulding, economista e umanista inglese, affermava che «chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista». Frase non solo provocatoria che ben mette in risalto come le teorie economiche siano spesso scollegate dalla realtà. In ogni caso, tornando alla seconda critica di Pascale, dietro alle idee delle decrescita c’è eccome il pensiero di economisti, sia pure sui generis. Serge Latouche, il faro del movimento, è professore emerito di Scienze economiche a Parigi. Latouche prende le mosse dal lavoro di Karl Polanyi, economista ungherese, e il concetto stesso di decrescita pare sia da attribuire a Nicholas Georgescu-Roegen, economista romeno, che negli anni ’70 accusò le teorie economiche di non tenere in considerazione il secondo principio della termodinamica. Gli stessi autori del famoso “Rapporto sui limiti dello sviluppo” non erano certo poeti, almeno di professione. Economisti decrescisti esistono, dunque. Casomai, gli economisti classici hanno difficoltà ad occuparsi della decrescita perché gli strumenti di decrescita rientrano in larga parte nell’ambito delle economie informali, quindi fuori dal loro habitat. Per chiudere la prima parte, accetto e condivido la tesi che il raffinato eloquio dei letterati a volte serva a mascherare lacune dal punto di vista delle soluzioni concrete, ma se ci si ferma all’eloquio di alcuni è perché si ha una certa pigrizia nell’esplorazione, non perché le soluzioni concrete e i punti di vista formali manchino.
Procedendo, Pascale nota giustamente che l’universo riconducibile al concetto di decrescita è variegato e un tantino confuso. Certo. Ma non può essere altrimenti, che diamine! La dicotomia crescita/decrescita, in un ipotetico albero delle scelte politiche, starebbe a un livello molto basso, forse proprio alla radice. Se così fosse (così è per me), scegliendo per esempio crescita al primo bivio, ci si troverebbe poi di fronte a un’infinità di varianti e sottovarianti, tra cui le principali sono o sono state: comunismo, fascismo, liberismo, liberalismo, socialismo. Ragionando come Pascale, si arriverebbe facilmente a dire che tra i sostenitori della crescita regna una gran confusione! Come mettere insieme il pensiero della Camusso con quello della Marcegaglia? O la visione economica di Berlusconi con quella di Nichi Vendola? Bossi quanti esami di economia ha dato? E i sostenitori della Tav o del ponte sullo Stretto sanno fare un’analisi costi benefici? Sanno che cos’è un’esternalità negativa? L’errore è dunque buttare nello stesso calderone Pennac, Pallante e Latouche pretendendo di ricavarne una zuppetta omogenea, e per giunta omogeneamente insaporita dalle medesime nozioni economiche, quando invece Pennac, Pallante e Latouche magari son sì tutte verdure ma sono cavoli, zucchine e pomodori, e speziati in maniera affatto differente.
La mia controcritica alla critica di Pascale si muove poi per colpire nucleo principale del suo articolo: la concatenazione decrescita => meno consumi => minor reddito. La quale è indubbiamente vera, in un sistema fondato sulla crescita. E’ qui che Pascale commette l’errore più comune, e a mio avviso più banale, tra chi critica le teorie della decrescita: e cioè, valutare gli effetti di una contrazione del Pil in un contesto nel quale la crescita è indispensabile, che sono devastanti e lo sappiamo bene, per poi concludere che la decrescita sia una iattura desiderata solo da pazzi o pauperisti. Ma le teorie della decrescita sono tentativi di formulare una sistema economico alternativo, nel quale si riesca a vivere bene (se non meglio) in una situazione a regime di non-crescita economica (il termine corretto sarebbe a-crescita, non decrescita, come spiega Latouche) grazie alle reti, agli scambi, alle cosiddette economie informali, alla possibilità di sfruttare il tempo libero e i beni comuni per se stessi, per i propri cari e per la propria comunità. Ebbene, noi, qui ed ora, lo annuncio solennemente, non siamo in una società della decrescita, bensì in una della crescita! Politici, economisti, sindacalisti non fanno che ripeterlo: “senza la crescita gli sforzi sono inutili”. L’a-crescita, in questo sistema, è già un fatto negativo, e come tale evidenziato dal termine “stagnazione”. Se manca la crescita del Pil crolla l’occupazione, crollano di conseguenza gli introiti per le casse per lo Stato, lo Stato si vede costretto a tagliare servizi e welfare, e via dicendo. Vi suona familiare? I nostri sistemi non son fatti per situazioni del genere, reggono solo se sorretti dalla crescita, per di più da una crescita percentuale e quindi esponenziale. Per cui ad ogni crisi DEVE seguire una ripresa. Ma… e se ormai la crescita non fosse più possibile? E se fosse, in ogni caso, non più sostenibile? Alcune strategie di decrescita, in queste sistuazioni, vengono attuate spontaneamente da singoli e da gruppi per semplice spirito di sopravvivenza: vendere la macchina e spostarsi in bicicletta, con i mezzi pubblici o con il car sharing; tornare a coltivarsi l’orto e ad avere le galline in corte; ridurre al minimo i consumi e gli sprechi; attivare gruppi di acquisto solidale; acquistare indumenti usati o farseli da sé; riciclare gli oggetti inutilizzati dando loro nuove funzioni e nuova vita. Il problema è che questi comportamenti, di per sé evidentemente meritevoli di apprezzamento (e nei quali aumento della qualità, diminuzione della quantità e risparmio possono andare di pari passo, checché ne dica Pascale), a livello macroeconomico deprimono ulteriormente i consumi, aggravando così la crisi. Siamo giunti al paradosso per cui dovremmo risparmiare perché abbiamo pochi soldi ma se non li spendiamo aggraviamo ulteriormente le cose. Inoltre alcuni comportamenti teorizzati dalla decrescita, per molti di noi, semplicemente non sono possibili: perché abitiamo lontano dal posto di lavoro, perché non abbiamo un giardino, perché non sappiamo fare nulla di manuale, perché non abbiamo tempo per fare null’altro che lavorare, perché se lavoriamo meno non riusciamo a pagare la scuola dei figli e la badante della nonna, perché il datore di lavoro non accetta di darci il part-time.
Così non sarebbe in una società diversa. Per restare, ad esempio, nell’ambito dei trasporti, nota con acume Ivan Illich ne “L’elogio della bicicletta” che è il mezzo di trasporto prevalentemente utilizzato a modellare l’ambiente circostante su se stesso, e che le distanze tra i luoghi in cui dobbiamo muoverci crescono proporzionalmente alla “gittata” del mezzo di trasporto stesso. Noi attualmente viviamo in un sistema fatto su misura per l’automobile, e andiamo a lavorare in posti che distano mezzora di macchina da casa, e che non possiamo raggiungere se non con mezzi a motore di proprietà. Prima che le automobili si diffondessero, tuttavia, i luoghi di lavoro erano vicini alle abitazioni dei lavoratori (Marzotto qui dalle mie parti costruì un villaggio adiacente alle fabbriche, dotato di scuole, impianti sportivi, dopolavori, e di tutti i servizi per le famiglie) e la stessa geografia delle località si modellava in modo che dell’automobile si potesse tranquillamente fare a meno, dato che non c’era o ad averla erano in pochi. Con la diffusione di massa dell’auto è sì aumentata la velocità e la possibilità di allontanarsi, ma allo stesso modo si sono allungate proporzionalmente le distanze: per andare al lavoro, per fare la spesa, per andare da un parente. Così, se prima ci si metteva mezzora di bicicletta o di cammino per andare al lavoro, oggi che facciamo il quadruplo dei chilometri, che spendiamo un occhio della testa per auto, combustibile e assicurazione, che danneggiamo irreparabilmente l’ambiente, che ci innervosiamo bloccati nel traffico, oggi, dicevo, ci mettiamo sempre mezzora. Questo per dire che, se cambiassimo il sistema in modo da essere indipendenti dall’auto, attività che ora ci sono precluse, come andare al lavoro a piedi o in bici, diventerebbero fattibilissime. Pochi o nessuno avendo l’auto, nessuno pretenderebbe di avere dipendenti automuniti, e le distanze tornerebbero ad accorciarsi.
Allo stesso modo, come notava Massimo Fini nell’articolo “Gli italiani e la povertà nata dalla ricchezza”, pubblicato sul Fatto del 10-06-11, un povero, in una società povera, non è poi così povero, perché malgrado la penuria di soldi può contare su una rete di aiuti, su prezzi in linea con la povertà generale, su minori bisogni indotti, su tutta una società fatta a misura di povertà. Ci sono società in cui, per dire, non si paga la bolletta dell’acqua perché l’acqua si prende alla fonte. Il povero diventa povero davvero solo quando ha relativamente meno degli altri, specie in una società economicamente avanzata: 1 dollaro può essere niente in Italia, ma può bastare a vivere in Africa, perché la maggior parte delle cose che servono per vivere non le si compra, rientrano in modalità di economia informale (che sia per questo che agli economisti sfuggono le possibilità della decrescita? Perché queste per loro natura sfuggono alle “forme” e dunque alle loro modalità di analisi? È lo stesso motivo per cui esiste ricchezza che non fa crescere il PIL). Dico questo anche per rispondere all’accusa di egoismo: i paesi poveri vivono già ora attuando le strategie della decrescita (vedasi “L’altra Africa” e “Mondializzazione e decrescita: l’alternativa africana” di Latouche): ancora una volta si tratta di necessità, di sopravvivenza. Hanno PIL pro capite irrisori, e parimenti inquinano nulla, vedere mappe al riguardo su www.gapeminder.org. Difatti non sono i paesi poveri che si oppongono ai trattati per ridurre le emissioni, ma quelli ricchi, USA in primis. Sono i primi della classe che non vogliono cambiare modello, non gli ultimi. Per ovvie, queste sì egoistiche, ragioni. Mi torna alla mente una splendida citazione da Davila: “Chiamiamo egoista chi non si sacrifica al nostro egoismo”.
Da tutto ciò si deduce che i cambiamenti culturali e di comportamento individuale da soli non bastano, ma c’è bisogno di contemporanee riforme, siano pure graduali (ma non troppo) e ragionate (nel senso di selettive), del sistema politico-economico attuale. Quali riforme? Idee ce ne sono a bizzeffe, basta aver voglia di andare a cercarsele. Pascale lamenta l’assenza di concretezza nei discorsi riguardanti la decrescita, dunque mi piacerebbe portare a titolo di esempio una piccola idea che mi gira nella testa e che mi sembra, pur allo stato di schizzo, più che concreta. Sarà ingenua, grezza, perfettibile, fantasiosa e forse nemmeno originale, ma non credo possa essere ripudiata causa “raffinato eloquio” e poca sostanza. Ossia: lo Stato potrebbe lasciare la (libera!) scelta ai cittadini di destinare un monte ore lavoro settimanale da attuarsi in servizi alla comunità in cui vive, in cambio di una corrispettiva detrazione dalle tasse. In pratica, invece di pagare le tasse allo Stato per ottenerne in cambio i servizi, il cittadino può scegliere se offrirli lui stesso, i servizi. Una sorta di moderna e democratica corvée, che avrebbe una lunga serie di vantaggi, in primis:
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Una rinnovata forma partecipazione alla vita collettiva, con conseguente responsabilizzazione e la nascita di quello spirito civico che a noi italiani è sempre mancato se non nelle situazioni di emergenza;
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Un federalismo reale, che consentirebbe un totale controllo sui servizi pubblici/comunitari, sugli sprechi, sull’evasione;
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Una maggiore varietà nelle attività e nelle esperienze degli individui, e quindi una maggior ricchezza degli individui stessi, non in senso monetario, ma nel senso comunque economico di competenze e capacità dei lavoratori.
Con un po’ di fantasia, mettiamo che in un tal sistema l’assistenza di base agli anziani, ad oggi quanto mai problematica a causa della contemporaneità della crisi e del nostro stile di vita monadico, sia effettuata da cittadini adeguatamente formati, cui affidare gli anziani non autosufficienti, in spazi comuni in cui non siano soli. Stesso discorso per i bambini, che al giorno d’oggi non sappiamo a chi affidare perché entrambi i genitori devono lavorare per mantenerli. Alcuni cittadini, volontari e formati, a turno, potrebbero occuparsene. Ecco che non dovremmo più pagare badanti e baby-sitter, e, avendo meno spese e più servizi potremmo, se volessimo, ridurre ulteriormente il numero di ore di lavoro (mettiamo a 30 + 5 ore di corvée), creando così nuovi posti di lavoro (anche per quelle persone che l’avessero perso perché sostituiti da personale civile). Nelle 5 ore di tempo che avremmo così liberato potremmo dedicarci all’orto, o all’artigianato, o alla politica, o all’arte, o alle relazioni sociali, rilanciando in questo modo la ricchezza e il benessere complessivo del sistema senza pesare sull’ambiente. E via dicendo. Inoltre i servizi non estremamente specializzati diventerebbero così indipendenti dal PIL, per cui lo Stato potrebbe permettersi di incentivare la riduzione dei consumi, rincorrendo così l’unica possibile soluzione al problema ecologico. Quello che si cerca, insomma, è di immaginare tutta una società diversa, e com’è chiaro, la strada è non è breve, né facile. Spaventa ma è al tempo stesso dannatamente affascinante.
Abbiamo alternative alla decrescita? A mio parere no. Pascali e i sostenitori della crescita sostenibile fanno affidamento sull’innovazione. Ben venga l’innovazione, ma da sola non basta. Sviluppo sostenibile è un ossimoro. Chris Goodall, imprenditore inglese, spiegava nel 2007 in “How to Live a Low-carbon Life” che la produzione di una automobile nuova e “superecologica” inquina comunque molto di più di quanto si inquinerebbe continuando ad utilizzare il vecchio catorcio. Ecco crollare il mito del capitalismo verde: l’inquinamento risiede solo in parte trascurabile nella scarsa qualità del prodotto, ciò che inquina è la produzione di massa in sé. D’altra parte (chi di grafico ferisce…) basta andare su www.gapeminder.org e osservare l’andamento delle emissioni totali di CO2: dal 1800 sono in impressionante crescita esponenziale, esattamente come il PIL, ed esattamente come le capacità tecniche e le competenze scientifiche dell’umanità. Fossero fondate le speranze per cui queste ultime dovrebbero in quale modo risolvere il problema delle emissioni i risultati si sarebbero già dovuti vedere, giusto? Invece peggio che peggio. Fosse effettivo il rapporto tra innovazione e minori emissioni i paesi più evoluti dovrebbero avere le emissioni più basse, ma basta un’occhiata alle mappe del suddetto sito per constatare che così non è. Al contrario, si nota che le mappe mondiali relative a emissioni e PIL sono praticamente identiche, quasi si possono sovrapporre senza che si notino differenze: non so se Gapeminder fornisca anche misura delle correlazioni tra coppie di misure, ma anche un ragazzino capirebbe che quella tra i due indicatori è altissima, che si sta quasi parlando della stessa cosa.
Siamo costretti a decrescere? Sì. Se anche non bastassero, com’è normale, specie tra i positivisti, ragioni estetiche per preferire una società della decrescita ad una della crescita (a proposito, “parola ameba” è un’espressione orrenda), ci sono vincoli ambientali ed economici che se non iniziamo a considerare ci porteranno al tracollo. Se non realizziamo dei sistemi adatti alla decrescita saremo costretti a subirla all’interno di sistemi bisognosi di crescita, con disastri facili da immaginare e non così lontani dal realizzarsi, vedi Grecia, col rischio concreto di affondare nella miseria, in forme di totalitarismi, e forse in guerre, analogamente a quanto successe dopo la prima guerra mondiale. Pascale dice giustamente che non siamo i primi a vedere nero. Ma è il principio di responsabilità a imporci di pensare alle prospettive più pessimistiche, ammesso e non concesso che non siano proprio queste le più realistiche. Lo stesso principio di responsabilità che ci impone di smetterla di sottrarre risorse alle generazioni future, lasciando loro in eredità inquinamento a non finire, clima devastato, e montagne di debiti. Già la mia generazione (ho 30 anni) vive su di sé la punizione per le colpe dei propri padri, generazioni che hanno vissuto molto al di sopra dei propri limiti. Siamo appena diventati grandi, e già ci troviamo sul groppone un debito pubblico immenso, da ripagare rinunciando alla pensione, un mondo del lavoro terrificante, fiumi e acque inquinati (solo fino a pochi decenni fa l’acqua della falda freatica era potabile), ghiacciai che scompaiono (penso a quello dell’Adamello che da bambino vedevo grande il doppio di ora), fenomeni climatici sempre più estremi ecc. Noi vorremmo che i nostri figli e i nostri nipoti non ci potessero rinfacciare la miopia e l’ingordigia che noi possiamo a ragion veduta rinfacciare ai nostri nonni e ai nostri genitori. Magari hanno sbagliato ingenuamente e in buona fede, ma hanno sbagliato. Avessero avuto meno fretta di crescere e più prudenza, ora possiamo dirlo, sarebbe stato meglio per loro e anche per noi. Le loro generazioni, quelle sì, saranno ricordate dalla storia futura come una iattura da scontare per secoli.
Per arrivare in chiusura a rispondere alla domanda di Pascale, “quanto siamo disposti a perdere in termini di reddito?”, sì, siamo disposti a ulteriori rinunce in termini di reddito, nonostante i nostri drammatici contratti precari e le tasche già vuote. In cambio di altri vantaggi, però, probabilmente non formalizzabili economicamente, forse maggiori delle rinunce in una soggettiva analisi costi benefici. Ma no… a pensarci bene, in fin dei conti, almeno noi, davvero non abbiamo niente da perdere.
Marco Matteazzi, egoista della decrescita
Grazie,adesso ho le idee più chiare
completamente d’accordo . e non sono un intellettuale…
Sono entrato in contatto con il dibattito scaturito dall’articolo di Pascale (http://lettura.corriere.it/debates/gli-egoisti-della-decrescita/). Ho letto prima tutti i commenti (anche su siti diversi: http://www.decrescita.com/news/?p=1695 http://www.decrescita.com/news/?p=1658 …e i commenti dei commenti…) Poi ho letto l’articolo di Pascale. L’idea dell’articolo che mi ero fatto leggendo i commenti si è rivelata diversa da quella suscitatami dalla sua successiva lettura. Brutto segno! Ho fatto gran fatica a muovermi tra l’enorme quantità di “citazioni” cercando di non lasciarmi “attrarre” dal ricercare la particolare interpetazione che ogni commentatore ha usato del pensiero dei diversi autori citati. La sensazione che mi ha lasciato “il tutto” è quella di un tipico dibattito della post-modernità -non esiste la verità ma solo interpretazione dei fatti- Ho avuto quella fastidiosa sensazione del trovarmi in presenza di “n” affermazioni dell’IO che contraddice, come sempre, il suo parlare “per e di” “comunità”. Indubbiamente questo è il frutto del mio “sentire umano” alla “Centochiodi di Olmi”, mi son detto! Eppure mi ha colpito provare questo disagio, che in genere mi assale alla lettura dei dibattiti “di sistema” anche nei confronti di temi che in teoria ne sono o dovrebbero essere al margine, costituendone addirittura un’avanguardia (ops!) Come se l’IO che critica il Sistema non fosse, per la sua natura totalizzante, diverso dall’IO stesso di sistema. Insomma dall’IO non si esce. Dal post-moderno non si esce, dall’interpretazione non si esce! Il tutto con una sempre contraddittoria e spessa dimensione metafisica. Tutti troppo convinti di sè, della propria rappresentazione -linguistica ma sempre falsificabile!- della realtà e del suo metafisico senso, fine e valore di verità. Non diversamente dai miei conoscenti piccoli imprenditori veneti… Tutti con IO, idee e verità “perfomanti”. Chi con il mito della crescita chi con quello della decrescita. Tutti, comunque, in nome dello sviluppo dell’umanità …dell’umanità dell’IO. Eppure continuo a sentire che nessuna idea ha più valore di “un caffè con un buon amico”!
marco complimenti per la tua puntuale e approfondita analisi!
la cosa buona dell’articolo di pascale è che ha contribuito a far conoscere la decrescita. secondo me il grosso scoglio (tralasciando l’impostazione del sistema) è far arrivare l’ida di decrescita o acrescita nelle fasce piu basse e più ampie della popolazione. l’unico modo è la comunicazione maieutica. dobbiamo tutti impegnarci a parlare con le persone che ci circondano di questi argomenti.
io nel mio piccolo ho deciso di portare questi argomenti nelle cucine e nei posti di lavoro degli italiani. lasciandoli li per un anno… lo ho fatto col ” calendario del cambiamento 2012″ puoi cercarlo con google.
tornando in argomento secondo me pascale ci ha passato una palla lenta che ci ha permesso di far conoscere maggiormante i nostri argomenti.
Condivido la tua opinione, faccio i miei complimenti a Marco e cerco il tuo progetto!! a presto.
Ringrazio Marco, Giorgia, Kelios e Luca, fa piacere che abbiate apprezzato lo sforzo. Il mio intento era quello di fare chiarezza, a costo di essere prolisso e ripetitivo, sui quattro 3-4 punti (chiave) su cui solitamente ci si scontra con coloro che sono perplessi dal concetto di decrescita. Kelios ha ragione, il dibattito si sta facendo sempre più vivo e interessante. E sarebbe ancora più prolifico se:
– i detrattori della decrescita lasciassero perdere un certo sarcasmo, come se noi tutti stessimo a parlare di cose assolutamente fantasiose e campate per aria
– i sostenitori della decrescita capissero che è normale, per una persona che vive in una società della crescita, avere grossi dubbi e perplessità, se non puro terrore, di fronte al concetto di decrescita. E cercassero, quindi, di essere pasolinianamente pazienti e didascalici. Ad esempio, la risposta di Veronesi a Pascale è a mio parere un po’ troppo aggressiva, forse controproducente.
Buongiorno,
ho scoperto la teoria della “decrescita” quando ho letto per caso l’articolo di Pascale e tutte le reazioni in seguito scatenatesi.
Quest’argomento mi sta incredibilmente appassionando.
Non azzardo commenti né controbattute agli articoli e ai relativi commenti. Sono ancora allo stadio “neofita”.
Ho però una domanda provocatoria :
in un periodo in cui non si fa altro che parlare di salvare l’italia da un tracollo simile a quello greco, quali misure concrete suggerireste quindi, se foste collaboratori del ministro dell’economia?
Come potrebbe l’Italia (coraggiosamente) distanziarsi dal modello unico imposto dall’UE e intraprendere un sentiero alternativo/opposto, ma non per questo meno efficace, di “decrescita” ?
Grazie
Il problema della transizione è sicuramente il problema più complicato. Come detto nella risposta a Pascale, già ora la crisi ci costringe ad assumere, quando possibile, comportamenti di decrescita (in quanto ci fanno risparmiare), e questo però causa un ulteriore collasso del sistema. Per cui secondo me, in questa fase, bisognerebbe tenere i piedi in 2 scarpe. Una, all’interno del sistema, per cercare di mantenere le migliori condizioni possibili, scartando però tutte quelle soluzioni tipo Tav che fanno riferimento esclusivo al vecchio modello (di sviluppo), e invece incentivando tutte quelle che invece si sposano anche con il nuovo modello (di decrescita, ad es. risparmio energetico, commercio dell’usato, …). L’altra, a investigare, testare e inserire nel sistema le norme necessarie per cambiarlo.
Hai più che ragione a porre il problema della UE, che ora come ora ci detta le regole. Con tutti i difetti che abbiamo noi italiani, sul tema della descrescita c’è molta più discussione qui che altrove. Le strade son 2: restare nell’euro e dilatare a dismisura i tempi per un cambio di sistema, rischiando nel contempo che il sistema crolli (chi crede che la crisi greca non comporti più il rischio di contagio? Monti al riguardo mente spudoratamente); uscire dall’euro, pagarne lo scotto, ma ripartire riguadagnando la sovranità, anche economica. Io credo però, anche se la seconda strada mi sembra per certi versi preferibile in questo momento, che sia a lungo termine assolutamente necessario avere un progetto europeo, ripartire con una nuova idea di Europa del tutto diversa da quella messa in atto finora.