Una critica ai concetti di crescita e sviluppo

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“Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista” (Kenneth Boulding)

L’assurgere a ideologia dei concetti chiave di crescita e sviluppo ha portano in occidente ad un’accettazione supina della loro presunta indiscutibile realtà, ed alla percezione distorta di un mondo che procederebbe inesorabilmente dal semplice al complesso, dalla miseria alla ricchezza, seguendo un percorso prestabilito e univoco. La cultura occidentale è oggigiorno a tal punto intrisa di tali concetti da applicarli pressoché ad ogni cosa. La parola “sviluppo” può così “alludere ad un blocco di case popolari, alla sequenza logica di un pensiero, al risvegliarsi della mente di un bambino, a una partita a scacchi o allo sbocciare del seno di una giovanetta. […] Sebbene manchi di un significato preciso, è fermamente insediato nella percezione popolare e degli intellettuali” [1].

L’inattaccabilità di questi due concetti interpretativi chiave è stata garantita dall’autorità acquisita da una nuova scienza, l’economia, che a partire dal XVIII secolo si è posta arrogantemente al centro di ogni possibile lettura, accademica e non, delle dinamiche sociali, politiche e culturali in atto e passate.

La crescita e lo sviluppo non sono tuttavia totalmente identificabili con un altro concetto chiave, quello di progresso: mentre quest’ultimo è anche etimologicamente positivo, la crescita e lo sviluppo rappresentano qualcosa che, se non controllato, può invadere gli spazi degli individui, rendere stressate le loro vite e finanche danneggianrli fisicamente, attraverso l’inquinamento: esternalità negativa di una crescita ipertrofica. E’ necessario dunque spezzare con forza la retorica della crescita, disfacendoci una volta per tutte del suo presupposto fondante: l’equazione prosperità economica = benessere.

Non è infatti banale affermare che, fatta eccezione per situazioni di totale indigenza, povertà e ricchezza non influenzano in modo consistente l’opportunità di condurre una vita felice.

Per dirla con il grande poeta libanese Kahlil Gibran: “La differenza fra il più ricco e il più povero si riduce a un giorno di fame e a un’ora di sete”. Nell’ampio range fra prosperità economica e miseria altre sono le cose importanti.

L’accezione economica di povertà è indiscutibilmente preponderante sulle altre nel mondo occidentale, dove la sua validità viene considerata spesso universale. Tuttavia va notato che “nelle principali lingue dell’Africa nera non c’è parola per designare il povero nel senso economico del termine” [2].

In molte regioni dell’Africa subsahariana, e non solo, ancora oggi “i riferimenti alla miseria non rinviano immediatamente alla mancanza di denaro, ma all’assenza di sostegno sociale” [3].

La comunità africana ha subito tuttavia l’assalto devastante dell’individualismo, e il tentativo di ripristinarla da parte di un’ideologia figlia dell’industrialismo e del capitalismo come il comunismo è fallito miseramente.

Subire la sovraesposizione a media che forniscono unicamente interpretazioni economicistiche del mondo e della vita, assieme all’indottrinamento di una cultura trasmessaci passivamente da persone che a loro volta la subiscono, ha condotto noi occidentali a ritenere crescita e sviluppo imperativi categorici, ai quali sacrificare le nostre vite e la nostra serenità.

Il compulsivo sforzo verso una crescita illimitata e senza freni, che in un mondo limitato può essere portata avanti solo da una fede cieca nel progresso umano, sta conducendoci invece ad una vuotezza esistenziale e di senso percepita da sempre più persone.

Ed ora ci arroghiamo il compito di diffondere il verbo del progresso ai ” poveri” paesi sottosviluppati. Ma lo stesso concetto di sottosviluppo è riflesso della nostra percezione di noi stessi e della nostra civiltà come modello ideale, una percezione che distorce tutto attraverso le lenti dell’economia, della modernità e del consumismo.

Siamo così invischiati in una tale prospettiva da non riuscire a fermarci nemmeno il tempo sufficiente a metterli in discussione, a stabilire le nostre priorità in modo autonomo, e a valutare possibili alternative.

Sarebbe meglio allora se “prima di apportare all’Africa la soluzione chiavi in mano dei problemi che le abbiamo creato, spazzassimo davanti alla nostra porta. Le malattie mentali, le epidemie da stress, la violenza e l’insicurezza delle periferie, l’uso massiccio di droga, la solitudine degli esclusi sono sintomi del disagio della civiltà. […] Marabutti e terapeuti africani […] hanno iniziato più o meno clandestinamente a curarli a loro modo. Un’assistenza tecnica massiccia e ufficiale dell’Africa profonda sarebbe forse indicata!” [4].

Forse dovremmo smetterla di pensare a migliorare il mondo e iniziare a migliorare noi stessi. Crescere è possibile, ma non c’entra nulla con l’economia, non c’entra nulla con la politica, c’entra con le persone.

 

Note:

1) Dal saggio “Sviluppo” di Gustavo Esteva, pag. 354, righe 9-14.

2) Serge Latouche, L’Altra Africa, pag. 95, righe 15-17.

3) Serge Latouche, L’Altra Africa, pag. 95, righe 19-21.

4) Serge Latouche, L’Altra Africa, pag. 203, righe 14-21.

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Autore de 'Il Secolo Decisivo: storia futura di un'utopia possibile'. Da anni si interessa di tematiche ambientali, economiche e sociali. In passato ha pubblicato tre paper su temi inerenti alla decrescita: "Degrowth and Sustainable Human Development: in search of a path toward integration" (Paper presentato alla Conferenza Internazionale sulla Decrescita, Venezia 2012), "Sviluppo umano e sostenibilità ambientale: in cerca di una strada verso l’integrazione" (Vincitore della prima edizione del "Giorgio Rota Best Paper Award", Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”, 2013) e "From growth to degrowth to a steady-state economy: a (more) liberal path is possible" (disponibile su ASR e online, 2019). È laureato in Scienze Politiche, in Sociologia e in Linguistica Applicata. Attualmente vive a Barcellona.

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