Semplificando molto, si può esprimere il grande problema ecologico del nostro tempo con la celebre equazione I = PxAxT, mutuata dall’economia ambientale. In parole, essa suggerisce che l’impatto umano sull’ambiente (I) equivale al prodotto della numerosità della popolazione (P), per i livelli di consumo (A sta per affluence), per l’efficienza tecnologica (T).
Posti di fronte all’evidenza empirica dell’insostenibilità della crescita indeterminata di I, è di tutta evidenza che per invertire la spirale nefasta del sovraccarico degli ecosistemi occorra ridurre uno o più termini alla destra di tale equazione. La soluzione prospettata dall’economia ortodossa (per altro, almeno fino a tempi recenti, apparentemente senza particolare enfasi né comprensione della portata del problema) propone di affidare le sorti del pianeta all’innovazione tecnologica, confidando che l’efficienza (input energetico e materiale per unità di PIL) cresca ad una velocità tale da compensare l’aumento del throughput materiale (definito come “il flusso di risorse naturali che viene estratto dall’ambiente e , passando attraverso il ciclo economico, ritorna all’ambiente sotto forma di materiali di scarto/rifiuti” [1]) generato dalla crescita dell’economia nel suo insieme: si tratta della chimera di un decoupling (disaccoppiamento) assoluto tra crescita economica ed economia materiale. In altre parole, l’idea sarebbe quella non solo di ridurre l’input energetico per unità di PIL (il cosiddetto decoupling relativo, che peraltro è già in atto da decenni), ma di far sì che esso diminuisca con un PIL in costante aumento (decoupling assoluto). In realtà, sebbene ciò sia teoricamente possibile sul breve periodo (pur richiedendo uno sforzo ben superiore a quello attuale da parte della comunità internazionale), è nondimeno oggettivamente di quasi impossibile attuazione sul lungo in quanto, con un PIL mondiale in crescita anche solo del 2% annuo, ciò implicherebbe un raddoppio del PIL mondiale ogni 35 anni, a cui dovrebbe corrispondere un dimezzamento degli input per unità di PIL, e dopo altri 35 anni un ulteriore dimezzamento e così via, fino a che per riuscire a mantenere il passo ci si dovrebbe ingegnare a costruire tavoli di legno senza legno, lampadine fatte d’aria e torte alle fragole senza fragole (!).
E qui giace la principale linea di frattura fra economia ambientale (la più vicina al modello economico mainstream), economia ecologica e teoria della decrescita: la prima sostiene la possibilità di creare tavoli dal nulla, il che consentirebbe di proseguire a tempo indefinito con l’economia della crescita; la seconda, riconoscendo il carattere illusorio di una tale speranza, si impegna nell’elaborazione di modelli macroeconomici alternativi basati su un modello di economia stazionaria, una “steady state economy” con PIL costante nel tempo – ovvero: “accontentiamoci dei tavoli che abbiamo, che sono già tanti”; la terza, infine, si chiede se siano davvero necessari tutti questi tavoli, e se non apporterebbe più benessere condividere con altri un solo tavolo che stare tutti seduti da soli al proprio.
Naturalmente, come spesso accade con temi di portata così vasta, la questione è ben più complessa, e va affrontata in profondità in ogni suo aspetto. Rimanendo sulla questione “smaterializzazione dell’economia” – la quale per altro sarebbe un bene anche in una società a economia stazionaria o decrescente – , la sua realizzazione rende pressoché imprescindibile la crescita della quota relativa del terziario e del terzo settore sul PIL (le cosiddette economie Cenerentola di cui parla Tim Jackson nei suoi libri), il che per inciso contribuirebbe anche a compensare il principale problema generato dall’aumento costante dell’efficienza tecnologica, ovvero i suoi effetti nefasti sui livelli di occupazione [2] (il fattore capitale, sempre più produttivo, tende a venire privilegiato rispetto al fattore lavoro), in quanto sia nel terziario che nel terzo settore il lavoro non è allo stato attuale sostituibile se non in minima parte col capitale (si tratta, in altre parole, di settori “tecnicamente” labour-intensive).
La teoria della decrescita si differenzia dall’economia ambientale e dall’economia ecologica anche sotto un altro punto di vista, più generale. Al contrario di queste ultime discipline, infatti, essa veicola una visione multidimensionale della realtà, non confinando il proprio sguardo alle variabili economiche ma aprendolo alla complessità sociale e culturale. Questa è in effetti al tempo stesso una carenza e un punto di forza. Chi critica nella teoria della decrescita l’assenza di un modello macroeconomico ben definito di riferimento che consenta, almeno a livello teorico, il funzionamento di un’economia decrescente ha certamente ragione; tuttavia non va tralasciato il fatto che l’accento è in parte posto volontariamente sulle questioni sociali e culturali. In effetti proprio una tale situazione suggerisce che una convergenza reciproca fra economia ecologica e teoria della decrescita possa apportare giovamento e forza argomentativa a entrambe.
Tornando all’equazione I=PAT, è evidente come il contenimento degli altri due termini della moltiplicazione (i consumi e i livelli demografici) assuma un ruolo centrale nel perseguimento dell’obiettivo della riduzione dell’impatto umano sull’ambiente. Se ciò può essere problematico all’interno di un modello macroeconomico come quello attuale basato sulla crescita dei consumi (per sostenere la crescita) e sulla crescita demografica (per sostenere il sistema di welfare), potrebbe però non esserlo all’interno di un modello di economia stazionaria o decrescente. Non essendo una rassegna di modelli macroeconomici alternativi fra gli obiettivi di questo articolo (e non avendo chi scrive le competenze necessarie a svolgerla), vorrei qui concentrarmi sulle implicazioni etiche e politiche legate a un’eventuale riduzione della crescita demografica e dei livelli di consumo a livello aggregato. Appurato che le due variabili sono strettamente connesse (una popolazione di cento persone con un consumo pro-capite di 100 unità materiali genererà lo stesso throughput di una popolazione di duecento persone con un consumo pro-capite di 50), e che in questo momento sono entrambe in aumento a livello globale aggregato, notiamo preliminarmente che:
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La distribuzione dei livelli di consumo nel mondo è largamente iniqua, ed il range fra i più ricchi e i più poveri è in costante aumento.
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Il benessere generato da un’unità marginale di consumo per un individuo è inversamente proporzionale alla quantità di prodotti da lui consumata (un consumo eccessivo può anzi implicare una riduzione del benessere). Ciò, oltre ad essere alla base della moderna teoria economica (come ben sa chi ha letto anche solo un manuale base di economia), è stato dimostrato da numerosi studi (ricordiamo qui soltanto il famoso studio di Easterlin sul cosiddetto “paradosso della felicità”) [3].
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Il tasso di crescita demografica non pare essere univocamente correlato al livello di sviluppo economico, e in tal senso persistono differenze significative anche all’interno dei paesi cosiddetti “sviluppati”.
La questione dei consumi appare per certi versi la meno problematica fra le due: i teorici e i militanti della decrescita si dividono fra quanti vorrebbero una riduzione dei consumi semi-imposta, prima che sia troppo tardi, e quanti vorrebbero invece che ciò avvenisse su base volontaria, a seguito di una presa di coscienza collettiva magari appoggiata da campagne di sensibilizzazione pubbliche e private.
Per quanto riguarda la questione demografica, essa presenta invece diversi livelli di problematicità; tralasciando qui i legami fra variabili quali valori religiosi, livelli di istruzione e reddito con i tassi di natalità (tutte variabili con un grosso impatto causale sulla propensione a fare figli), esaminiamo la questione da un punto di vista più generale.
Sul piano culturale la priorità appare conferita, nelle società democratiche occidentali, all’etica liberale (il diritto a fare quanti figli si vuole a prescindere dal loro impatto futuro sull’ambiente) rispetto all’etica ecologica (considerare l’impatto marginale sull’ambiente di ogni figlio). Non fare figli per limitare l’impatto ecologico apparirebbe probabilmente come un ragionamento cinico ed egoista agli occhi della maggior parte delle persone. Un tale giudizio tuttavia assegna implicitamente una priorità al singolo individuo rispetto alla specie, e alla generazione più prossima rispetto a quelle successive. Volendo contemplare anche la prospettiva inversa in un unico concetto, si potrebbe parlare di cinismo altruista, e configurare il problema come una scelta dicotomica: sacrificare il benessere dei nipoti per avere più figli o avere meno figli incrementando il benessere potenziale dei nipoti? In realtà l’esposizione appena fatta lascia nell’ombra il fatto che il benessere dei figli non nati può essere, da un punto di vista laico, ignorato (una persona non concepita e che non verrà concepita non è una persona e dunque non ha diritti), laddove le generazioni future, sebbene attualmente non nate, nasceranno in futuro, e dunque può avere un senso conferire loro dei diritti [4].
Anche da un punto di vista socio-politico ed economico la questione è complessa: una diminuzione delle nascite comporta, sul lungo periodo, una contrazione della popolazione attiva e un aumento del carico fiscale legato a pensioni e welfare su quest’ultima; viceversa un aumento del tasso di natalità garantisce una maggiore sostenibilità sul lungo periodo delle spese di welfare, ma a scapito di un aggravamento del carico sugli ecosistemi. Inoltre, per reggere sul lungo periodo, un sistema del genere deve mantenere costantemente i tassi di natalità sopra la soglia di rinnovamento, pena ritrovarsi dopo 50 anni con il medesimo problema ma con una popolazione ancor più numerosa, con ciò che ne consegue a livello di consumi aggregati e di impatto ecologico.
Dato che una popolazione che aumenti infinitamente all’interno di ecosistemi finiti è insostenibile per definizione, è chiaro che non si tratta semplicemente di una posticipazione del problema, ma di una posticipazione che aggrava il problema, intaccando quegli stessi ecosistemi che stanno alla base del sostentamento della popolazione.
Nella maggior parte dei casi i teorici della decrescita tendono a rigettare l’ipotesi di politiche di contenimento delle nascite, da sostituire eventualmente (ma, di nuovo, il tema è spesso implicito o lasciato sullo sfondo) a campagne di sensibilizzazione della popolazione sul problema.
La soluzione più saggia, senza sacrificare l’etica liberale ma in direzione del conferimento di maggiore importanza all’etica ecologica, è probabilmente quella di sensibilizzare la popolazione affinché il tasso di nascite rimanga leggermente al di sotto della soglia di rinnovamento (nei paesi sviluppati del nord del mondo tale soglia è di circa 2,1 per donna), in modo da rendere la decrescita demografica poco gravosa per la popolazione attiva del futuro. Questa soluzione, oltre a fare affidamento sulla libera volontà di individui ben informati, consente anche a coloro che non vogliono impattare (attraverso i propri figli) sugli ecosistemi di avere comunque famiglie numerose attraverso la via dell’adozione, la quale comporta un doppio beneficio: meno bambini senza genitori e l’equivalente di una vita di consumi in meno (quella del bambino di cui in questo modo si eviterebbe la nascita).
Dal punto di vista del benessere totale, si tratta di un gioco a somma positiva (ipotizzando come ininfluente il benessere degli individui non nati ma influente quello delle generazioni future), l’unico problema è che una soluzione del genere per essere veramente efficacie richiederebbe un accordo su scala internazionale, o perlomeno macro-regionale, che possa consentire l’impiego di fondi ingenti per campagne di sensibilizzazione, e magari anche incentivi economici alle famiglie meno numerose (punto quest’ultimo in diretta contrapposizione alla tendenza attuale, e su cui occorrerebbe una riflessione più approfondita). Ciò è naturalmente ben lontano dal clima politico attuale, in cui una tale soluzione verrebbe immediatamente etichettata come “eco-fascista”.
Le conclusioni sono tanto semplici nella teoria quanto di difficile applicazione nella pratica: da una parte l’economia ortodossa dovrebbe riconoscere che senza una diminuzione dei consumi pro-capite di beni materiali (ma non necessariamente di servizi!) nel nord del mondo, senza una loro distribuzione più equa sia al nord che al sud e senza una decrescita della popolazione, la sola efficienza tecnologica non può ridurre in termini assoluti l’impatto umano sull’ambiente; dall’altra la prospettiva decrescentista dovrebbe estendere il proprio sguardo oltre i confini dell’affluence e, evitando gli esiti illiberali del controllo delle nascite, promuovere l’auto-controllo demografico.
Questo, in breve, è IL tema. Non è prioritario per la politica, intenta a tappare i buchi del modello macroeconomico della crescita e a risolvere i grandi problemi sociali da quello stesso modello generati, ma lo è per il futuro degli ecosistemi, senza i quali l’economia non serve a nulla, e per quello delle future generazioni, che non hanno voce in capitolo ma che sono candidate a ereditare il frutto gravoso delle nostre inadempienze.
Note: 1. B. Czech e H. Daly, “In my opinion: the steady state economy – what it is”, 2004. 2. Su questo punto cfr. “La trappola della crescita, parte prima”. 3. Molti di questi studi, basandosi su dati soggettivi raccolti con l’ausilio di questionari, prestano il fianco al problema delle “preferenze adattive” sollevato da Elster. Tuttavia, triangolando i risultati di tali studi con indicatori oggettivi quali ad esempio quelli presentati nei rapporti annuali dello UNDP, è difficile negare l’evidenza empirica del paradosso della felicità di Easterlin. 4. Sulla questione cfr. P. Ponti e F. Tabellini, “Sviluppo umano e sostenibilità ambientale: in cerca di una strada verso l’integrazione”, Istituto Einaudi, 2013 (di prossima pubblicazione).