‘Alimentazione’ è forse il termine più largamente usato negli ultimi tempi, variamente affiancato da aggettivi come ‘sana’, ‘consapevole’, ‘corretta’ o anche, nei casi più arditi, ‘etica’. Il cosiddetto greenwashing ha colpito non solo numerose grandi aziende che hanno ideato linee di prodotti ben impacchettati in sacchetti verdi, ma anche tutti noi consumatori. Il tema è così caldo, nonché potenzialmente molto remunerativo, da essere stato scelto come argomento centrale per l’expo.
Dopo aver letto decine e decine di articoli, quando anche le testate giornalistiche più importanti e rispettate hanno cominciato a dirci che l’olio di palma non andava affatto bene, che troppa carne forse faceva male e che il glutine fosse il male supremo, ci siamo sentiti tutti un po’ in colpa e abbiamo cominciato ad interrogare, nel migliore dei casi, le nostre coscienze e le nostre dispense al fine di rinverdirle un po’.
Via i grassissimi e raffinatissimi biscotti all’olio di palma e zucchero, bandita la margarina, fino a due giorni fa il nostro baluardo contro il colesterolo cattivo, e vai con muesli, latte di soia, formaggio di soia, panna di soia, yogurt di soia e così via. Poco importa poi se i nostri nuovi prodotti verdi, che sprizzano salute da tutti i pori e che alleviano i nostri sensi di colpa, siano prodotti dalle stesse case da noi demonizzate, siano di fatto poverissimi di sostanze nutritive o siano impacchettati in contenitori pieni zeppi di pvc. D’altronde, a quante cose dobbiamo o possiamo stare attenti? Ognuno poi ha la sua opinione in merito e non si riesce mai a capire quale sia la verità con queste cose! Dopo qualche mese di impegno quantomeno nel selezionare i packaging più affidabili, ci si arrende all’amara realtà: sono tutti uguali, è tutto inutile, non se ne può venire a capo. Come biasimare il povero consumatore che, mosso dalle più sincere intenzioni, affronta la giungla di informazioni parziali, pretenziose e spesso anche discordanti che lo circondano. Per ogni articolo in cui si sconsiglia il consumo di carne rossa, dieci diete innovative che la consigliano; per ogni lode alla soia, panacea di tutti i mali, tre in cui si mette in discussione pure quella; per ogni pacco di biscotti più o meno decente, cento che paventano proprietà miracolose e poi annoverano tra i primi ingredienti oli vegetali non identificati e mostruose quantità di zucchero. Mangiare non era tra i piaceri della vita? E poi, al supermercato quella è la scelta, e chi ce l’ha il tempo di mettersi a girare per negozi specifici? Lì costa tutto troppo e chi ce la garantisce la qualità? Sempre di grande distribuzione si tratta, e su questo si può solo concordare.
Le manie, nonché le ipocrisie che ne conseguono, sono trasversali: le aziende dettano il trend, i consumatori seguono mesti il colore del momento e una volta usciti dal negozio sbattono le porte in faccia alla salute, agli ogm, ai tumori veri o presunti e vanno a vivere le loro vite come è giusto che sia.
Il risultato è sempre lo stesso: grazie ad individui che vivono sempre più alienati dalla società che li circonda, anche chi vorrebbe approfondire certe tematiche è costretto a confrontarsi con un’informazione carente da molti punti di vista e con prodotti di scarsa qualità a prezzi sempre più alti, non solo nei supermercati ma nella maggior parte delle tavole calde, pizzerie, paninoteche e simili. A meno di non volersi relegare in un eremo, la contraddizione è offerta dalle circostanze stesse della vita di ogni giorno. Ciò accade a voler considerare esclusivamente la qualità nutritiva di ciò che mangiamo, perché la situazione peggiorerebbe inesorabilmente se volessimo considerare anche il resto delle nostre azioni quotidiane: vestirci, lavarci, accendere il computer. All’inizio la maggiore attenzione per il cibo, per quanto ossessiva, mi sembrava il segno positivo che qualcosa stesse cambiando nelle nostre coscienze, che ci stessimo rendendo conto di quanto fossero nocive certe abitudini ormai radicate e che volessimo fare sul serio un passo in avanti per cambiare questo stato di cose. Ho dovuto ricredermi, siamo quella parte del mondo che crea problemi per risolvere altri problemi, che ha perso di vista da ormai quasi un secolo cosa sia la ‘verità’ e che si è votata all’apparenza senza possibilità di appello; dove basta cambiarsi il vestito per cambiare personalità, così come basta cambiare il colore dei pacchi di pasta per renderli più sani, più etici e più cari.
Abbattere questi potenti muri di plastica travestiti da progresso e innovazione non sarà facile, ma non voglio credere che siamo così pochi a pensare che bisogna agire ogni giorno, nel proprio piccolo e, soprattutto, che bisogna parlarsi, conoscersi, confrontarsi, riunirsi tutti insieme nel sacrosanto vincolo della comunità. Iniziare a diffondere informazioni reali e soprattutto complete sulle proprietà di ogni prodotto, mostrare come anche il diritto alla salute sia stato inequivocabilmente impacchettato, messo in vendita, trasformato in denaro liquido per aziende in continua crescita, non sono solo azioni possibili, ma anche auspicabili, in quanto rappresentano il primo passo verso una vera e anche sana consapevolezza del mondo che ci circonda. Senza voler passare per moralizzatori, ché ci siamo tutti dentro fino al collo in quest’isteria generale, ma ricostruendo reti sociali, dando al consumatore solitario un punto di riferimento che non sia solo disinteressato ma anche reale, in carne ed ossa.
Finalmente forze fresche e giovani si uniscono a DFSN! Un caro benvenuto a Roberta nella speranza che diventi una presenza fissa delle nostre pagine! L’esordio direi che è più che convincente!
Grazie! 🙂 🙂
Buongiorno Roberta,
benvenuta anche da parte mia.
Penso che ci sia anche un mondo che è sfuggito alla tua rappresentazione: quello dei piccoli produttori che ancora, con metodi arcaici si ostinano a coltivare la terra e vendere direttamente i loro prodotti nei mercatini rionali.La loro verdura, la loro frutta, le carni di mucche Chianina allevate allo stato brado,non ostentano marchi di qualità; anche perchè la “fogliolina verde” costa per ottenerla e loro, soldi da buttare, non ne hanno. Ti confezionano la verdura in fogli di carta e non ricorrono certo alle vaschette di plastica. Le loro mele magari sono un pò “tocche” e di formati diversi, perchè non fanno trattamenti con pesticidi. Questo popolo di piccoli coltivatori è composto essenzialmente di persone giovani, spesso scappate dalla città e da una vita che a loro non piaceva. Sono di cultura medio-alta, con una spiccata sensibilità ambientale.
A costoro si affiancano numerosissime persone, residenti soprattutto nelle medie e grandi città che hanno imparato parole come “filiera corta”, “acquisti a chilometro zero”. I GAS che hanno messo in piedi e che ormai sono presenti , diffusamente, in tutta Italia, rappresentano una grossa realtà; anche dal punto di vista della massa monetaria che muovono coi loro acquisti collettivi.
La decrescita guarda con interesse a queste novità. Vede con favore come un mondo “altro” avanzi e cerchi di sottrarsi alla G.D.O.
Anch’io guardo con avversione le “mode” e certe dubbie conversioni al biologico, a certe diete pseudo-salutiste; magari messe in piedi dalle stesse organizzazioni che, fino a qualche temo fa, ti proponevano il cibo standard, industriale e di scarso valore alimentare.
Però non dobbiamo fare di tutte le erbe un fascio e comprendere cosa di autenticamente nuovo sta avanzando e ciò che è solo vecchio con un pò di maquillage.
Ciao Daniele, grazie per esserti fermato a leggere.
Quello che dici è vero, un cambiamento è in atto e ho potuto constatarlo da vicino, ma io non vedo intorno a me persone veramente pronte per questo. Una certa consapevolezza si sta diffondendo, ma è spesso deviata da informazioni parziali, superficiali, che in pochi hanno voglia di approfondire. Da qui a finire vittime delle solite aziende che prontamente cavalcano l’onda, è un attimo.