Stimolato da un dibattito su FB, nato nel gruppo “No Pesticidi” a proposito degli acquisti a “km. zero”, non ritenendo che si possa esaurire un discorso così complesso in poche righe, lo affronto qui, in modo più esteso.
Risulta subito evidente che km. zero non è esattamente zero. Non esiste che una gamma di prodotti ortofrutticoli si trovi tutta sotto casa. Ne consegue che, prima di tutto, km. zero sia un luogo mentale: una maniera alternativa di pensare il consumo di prossimità.
L’agricoltura italiana ha subito profonde trasformazioni a ridosso degli anni ’60 del novecento. Il 90% della manodopera è stata espulsa dai cicli di produzione; così come sono sparite il 90% delle aziende agricole: per lo più piccole e piccolissime, per lasciare il posto a medie e grandi aziende molto meccanizzate. Il primo effetto è stato quello di ricorrere a fertilizzazioni sempre più massicce e ad un uso altrettanto ingente di pesticidi, per contrastare la crescente infertilità dei suoli, con il risultato di innescare progressivamente salinizzazione, depauperamento della fauna edafica e conseguente desertificazione.
L’uso imponente di azotanti e nutrienti al fosforo hanno procurato problemi alle falde freatiche e, col dilavamento, sia meteorico che delle irrigazioni, veicolazione verso il mare Adriatico di specie chimiche eutrofizzanti. Da qui il fenomeno della proliferazione
abnorme di alghe, la cui putrescenza ha generato i noti fenomeni di inquinamento e ammorbamento dell’aria nonché, cosa più grave, sottrazione di ossigeno al mare e alla fauna ittica.
Lo spopolamento delle campagne ha comportato, inevitabilmente, un forte incremento migratorio verso le aree industriali del nord, per cui una massa enorme di contadini e braccianti sono stati ricovertiti a operai del triangolo industriale del Nord. Parimenti, la meccanizzazione delle campagne ha spinto verso impieghi monocolturali, per lo più di poche specie, sulla scia della crescente richiesta di mercato; in modo particolare del settore zootecnico (come il mais).
E’ interessante notare, paragonando i dati del censimento agricolo del 1961 con quello del 2011 (ultimo disponibile), come una quantità impressionante di prodotti agricoli siano spariti. Colture come quelle della cicerchia, dei ceci, delle fave, della segale, del grano tenero, del farro, dell’avena, sono praticamente azzerate.
Questo perchè, a differenza dell’agricoltura fondata su autoconsumo e consumo di prossimità, le cui peculiarità stanno nella biodiversità delle produzioni, l’agricoltura meccanizzata necessità di un’economia di scala, basata sui grandi volumi e con bassi costi per unità prodotta.
E’ chiaro che, per arrivare a questi risultati, considerate le complesse (e negative) reazioni biochimiche del suolo alle attività intensive, serva, inevitabilmente, l’apporto continuo di fertilizzanti e pesticidi. Questi ultimi sono la risposta alle modificazioni biologiche del suolo, alla scomparsa della fauna edafica e di tutti i nemici naturali degli insetti nocivi (rospi, rane, rettili…), alla progressiva resistenza degli insetti ai pesticidi stessi.
Il “km. zero”, comunque lo si guardi, è un tentativo di risposta alternativo al processo di conversione agricola iniziato a fine anni cinquanta e che ha imperversato
per un sessantennio. E’ lo sforzo, dei singoli e dei territori, di riappropriarsi di una agricoltura responsabile e sostenibile. Certo, di per se stesso non è garanzia del fatto che sia tutta produzione naturale e biologica (tra i due termini c’è una certa differenza).
Però è un’inizio che ha grande valore, sotto più punti di vista, che provo a sintetizzare:
– accorciamento drastico della filiera produzione-consumo, col “salto” di molti processi intermedi;
– nuovo rapporto, diretto e personale, tra chi produce e chi consuma, con l’instaurazione di un legame di fiducia;
– miglioramento dell’offertà quantitativa delle specie ortofrutticole;
– giusta remunerazione del lavoro di chi produce, senza particolari aggravi per chi compra (forti differenze di prezzo non sono giustificabili);
– incentivazione al miglioramento continuo: i consigli e le richieste dei consumatori incoraggiano i produttori a fare di piu’ e meglio;
– stabilità dell’occupazione ed argine all’abbandono e alla migrazione. Un contadino che trae sostentamento dal proprio lavoro è incoraggiato a continuarlo facendo in modo che anche i propri figli continuino l’attività di famiglia;
– rappresenta una enorme opportunità per il ripopolamento di aree a rischio desertificazione, come lo è tutto l’Appennino. Tre quinti del territorio nazionale hanno un indice di vecchiaia e un indice di dipendenza strutturale da primati mondiali che, purtroppo, si associano alla denatalità generale che pervade tutto il Paese ( con gravi ripercussioni sociali; soprattutto sul welfare).
Per tutti questi motivi il “km.zero” va visto con favore e incoraggiato. Personalmente, mi pare superficiale e poco meditata la liquidazione dell’argomento adducendo il pretesto che si tratti solo di una “etichetta” di comodo, appiccicata dalle associazioni di categoria.
In realtà, dietro a questa definizione, c’è la lotta e l’impegno di molti movimenti dei consumatori ( GAS, DES..) perchè si affermi una agricoltura equa, solidale e sostenibile.
Solo andando in questa direzione possono venire meno le ragioni oggettive che inducono, all’uso forzato di fertilizzanti e pesticidi. La lotta biologica alle problematiche indotte dagli insetti nocivi è possibile solo se c’è un forte cambio di paradigma, di cui il “km. zero” è sicuramente una premessa importante.
Fonte immagine in evidenza: Pro Loca La Fenice