Replica all’articolo di Paolo Forcellini del 28/08/2013

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LatoucheIl presente costituisce un commento e una risposta all’articolo“Economia globale e decrescita infelice: da Capalbio, Serge Latouche come Pol Pot”, pubblicato ieri (28/08/2013) su blitzquotidiano.it da Paolo Forcellini.

Forcellini esordisce descrivendo il pubblico presente alla conferenza tenuta recentemente da Serge Latouche a Capalbio, in occasione del ritiro del premio “Capalbio Piazza Magenta”, come

un pubblico variegato di villeggianti, butteri e nobili proprietari di ville, casali e tenute”, il quale “ha così potuto ascoltare dalla viva voce del teorico della ‘decrescita felice’ in cosa consista la sua ricetta contro la crisi e per il futuro del globo”.

Tralasciando il tono velatamente offensivo e satirico dell’incipit, mi pare doveroso sottolineare che Latouche, per quanto sia probabilmente lo studioso di decrescita più noto al grande pubblico, NON è:

  • L’unico teorico della decrescita, né il teorico di riferimento (almeno per una buona parte degli attivisti dei vari movimenti pro-decrescita).

  • L’ideatore della teoria della decrescita, come si può invece leggere tra le righe di molti articoli critici. Per rintracciare il nucleo originario della teoria, nonché l’origine dello stesso termine “decrescita”, occorre infatti risalire all’opera dell’economista ungherese Nicolas Georgescu-Roegen.

L’articolo prosegue notando che, secondo l’analisi di Latouche, “[…] le risorse naturali […] starebbero in molti casi andando verso l’esaurimento” (sottolineatura mia).

L’utilizzo del condizionale pare suggerire che l’autore dell’articolo ignori quanto per la stragrande maggioranza del mondo scientifico costituisce ormai un fatto accertato e dimostrato, dati alla mano, da innumerevoli ricerche, ovvero che gli stock di numerose risorse non rinnovabili si vanno sempre più rapidamente esaurendo (cfr. ad esempio “Perspectives on the environmental ‘limits concept’”, Turner et al., 2007, in particolare le tabelle 1-3) e lo sfruttamento eccessivo delle risorse rinnovabili rischia di compromettere irreversibilmente, quando già non lo ha fatto, l’integrità degli ecosistemi (cfr. ad esempio i vari “Living Planet Report” pubblicati dal WWF, o anche gli “Human Development Report” pubblicati a cadenza annuale dallo UNDP).

Segue l’elenco delle idee “banali” di Latouche, il quale critica, fra le altre cose:

consumi superflui a go-go, indotti anche dalla pubblicità; disoccupazione di molti e supersfruttamento di chi lavora; distruzione del paesaggio naturale e di quello urbano del tempo che fu; dittatura della moda con relativi sprechi; obsolescenza accelerata dei mezzi di produzione e dei prodotti che mettono fuori mercato beni che avrebbero ancora capacità di produrre e soddisfare bisogni“.

Ma come, queste cose non erano reali? Ovviamente, ammette l’autore, ma si tratta di “una descrizione tutt’altro che nuova: basti pensare a testi fondamentali che spesso ormai hanno compiuto cinquant’anni, come ‘La società opulenta’ di John Kenneth Galbraith o ‘I persuasori occulti’ diVance Packard.

Come a dire: l’importante non è dire le cose come stanno, ma essere originali e non annoiare il pubblico. Il ragionamento non fa una piega. Eppure le azioni di gran parte della popolazione occidentale paiono indicare che queste cose sarebbe bene ribadirle e ancora ribadirle, e che forse non è la novità che ci salverà, ma la diffusione di queste grandi ovvietà che molto banalmente potrebbero compromettere il futuro di tutti.

L’articolo prosegue sostenendo che “quando poi il pensatore d’oltralpe passa dalla descrizione, poco originale e in parte condivisibile, alla prescrizione, vale a dire a indicare le strade che l’umanità dovrebbe imboccare per superare le mortali aporie del capitalismo, allora di condivisibile rimane poco o nulla. “

Ribadito che il pensiero all’interno del movimento per la decrescita felice non si riduce a quello di Serge Latouche, e che probabilmente quest’ultimo non è nemmeno maggioritario, passiamo a commentare le singole critiche:

  • Per superare il problema della crescente disoccupazione […] il teorico francese rispolvera lo slogan del ‘lavorare meno per lavorare tutti’ […]. Anche in questo caso le questioni delle interrelazioni fra le variabili macroeconomiche, della competitività internazionale, delle dinamiche retributive (guadagnare meno? e quanto meno?) vengono bellamente trascurate.“

E’ innegabile che Latouche trascuri l’analisi delle componenti economiche all’interno del suo discorso teorico, ma questo non implica l’apatia di tutti gli altri teorici sull’argomento. Un economista vicino alle tesi decrescentiste come Tim Jackson dedica una parte significativa del suo libro “Prosperità senza crescita: economia per il pianeta reale” proprio all’analisi macroeconomica delle implicazioni che avrebbe sul mercato del lavoro e sull’economia l’implementazione dell’idea di abbattere il monte ore di lavoro individuale (col fine esplicito di contrastare la disoccupazione generata dal processo di innovazione tecnologica [1]). Va detto che una tale tesi, tutt’altro che utopistica, è discussa anche a livello accademico nell’ambito dell’economia ambientale.

  • Pare che Latouche non abbia mai sentito parlare della teoria dei vantaggi comparati che David Ricardo elaborò due secoli fa, dimostrando che la specializzazione produttiva fra paesi portava vantaggi a tutti gli attori in gioco.“

Tralasciando il fatto che la teoria di Ricardo non costituisce l’unica interpretazione dei meccanismi di scambio inter e trans-nazionale (per citare solo una delle alternative più conosciute, ricordo la teoria del sistema-mondo di Immanuel Wallerstein nel cui ambito il commercio inter e trans-nazionale seguirebbe la logica dello ‘scambio ineguale’) e ipotizzando che essa sia al 100% fedele alla realtà empirica, avremmo comunque a che fare con un trade off fra competitività e conservazione degli ecosistemi/stock di risorse. Se poi si scegliesse di privilegiare la competitività all’insegna dello slogan “approfittiamone finché possiamo”, si dovrà essere coscienti che così facendo si condanneranno le generazioni future a un mondo peggiore del nostro (violando fra l’altro il concetto, tanto caro agli economisti “green”, di sviluppo sostenibile, almeno secondo la nota definizione della commissione Brundtland [2]) [3].

L’articolo si conclude sostenendo che “evidentemente la cultura economica è assai poco diffusa nel Belpaese. Un Paese, peraltro, dove la decrescita è in atto da più di un decennio e sta provocando enormi disastri economici e sociali: una “decrescita infelice”, anzi infelicissima, insomma.“

Appare paradossale doverlo ripetere ogni volta, fino alla nausea, a persone che si presume si siano prese la briga di informarsi sulle tesi che intendono criticare, ma per l’ennesima volta: la recessione economica è un concetto che nulla ha che vedere con il concetto di decrescita felice, nel quale la dimensione economica (per quanto importante e forse, bisogna concederlo, non considerata a sufficienza da alcuni studiosi di spicco) rappresenta, insieme a quelle culturale, sociale e politica, solo uno dei 4 pilastri del cambiamento.

Al quesito (retorico) finale, ovvero “chi decide quando chiudere le frontiere al commercio internazionale, quali beni contingentare, come far sì che tutti i paesi accettino questo modus operandi?” posso solo rispondere rimandando al libro già citato di Tim Jackson che, per quanto riguarda questa e altre questioni prettamente economiche, è forse quello che meglio presenta le possibili soluzioni in un’ottica decrescentista, pur partendo da posizioni più moderate (e, a parere di chi scrive, più liberali e auspicabili) di quelle di Latouche.

Note:

1. L’altra via è naturalmente la crescita del PIL, che ha però pesanti implicazioni sul piano ecologico. Vedi anche il mio articolo “Teoria della decrescita: limiti, convergenze e nuove prospettive”.

2. La quale definisce lo sviluppo sostenibile come  “uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri” (WCED, 1987).

3. Sulla questione confronta anche “Sviluppo umano e sostenibilità ambientale: in cerca di una strada verso l’integrazione”, F. Tabellini e P. Ponti, Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”, 2013.

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Autore de 'Il Secolo Decisivo: storia futura di un'utopia possibile'. Da anni si interessa di tematiche ambientali, economiche e sociali. In passato ha pubblicato tre paper su temi inerenti alla decrescita: "Degrowth and Sustainable Human Development: in search of a path toward integration" (Paper presentato alla Conferenza Internazionale sulla Decrescita, Venezia 2012), "Sviluppo umano e sostenibilità ambientale: in cerca di una strada verso l’integrazione" (Vincitore della prima edizione del "Giorgio Rota Best Paper Award", Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”, 2013) e "From growth to degrowth to a steady-state economy: a (more) liberal path is possible" (disponibile su ASR e online, 2019). È laureato in Scienze Politiche, in Sociologia e in Linguistica Applicata. Attualmente vive a Barcellona.

6 Commenti

  1. Difficilmente mi è capitato di leggere articoli più faziosi di questo di Forcellini.
    Il quale evidentemente nulla sa di decrescita e nulla o quasi ha letto di Latouche.
    Le citazioni di Galbraith, Packard e Ricardo sono fumo negli occhi e non sono logicamente collegate alla critica del pensiero decrescentista. Ma più di tutto mi ha colpito la scorrettezza della conclusione, questa butade di tirar fuori il nome di Pol Pot come se Latouche avesse paventato la necessità di imporre la decrescita alla gente in maniera coercitiva.
    Quanto al successo ottenuto da Latouche a Capalbio, del quale Forcellini si stupisce, farebbe meglio a chiedersi come mai anche tra coloro che vivono con relativa dovizia di mezzi in questa ormai fragile società dei consumi, serpeggi l’infelicità, il pessimismo, una visione tragica del futuro. Ma da chi confonde recessione con decrescita non c’è niente da aspettarsi, solo che sbatta la testa, possibilmente con dolore, contro la vacuità delle proprie parole.

  2. Replica precisa, pacata, documentata, ottimo lavoro. Mi hai fatto venir voglia di leggere Jackson, ce la farò? ti farò sapere…….

  3. Ringraziamo infatti Federico per la sua replica molto professionale, perché personalmente dopo aver letto l’articolo di Forcellini, un po’ di rabbia mi è salita, non sarei riuscito a rispondergli in modo così preciso e pacato. Detto questo, sono veramente amareggiato di come un uomo che si professa giornalista si permetta di denigrare il professor LaTouche, mancando totalmente di umiltà intellettuale, non sapendo nemmeno che la maggior parte delle persone che lo seguono ha un buona conoscenza dell’economia, ed è proprio da questa conoscenza che stanno apprendendo e percorrendo la strada della liberazione da quella stessa economia che ci sta portando nel baratro.

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