Quelle quattro foglie di insalata

10
3510

Luca Simonetti termina la sua prima risposta alle critiche di Felice_Mente al suo libro “Contro la Decrescita”, dicendo: “Come si evince da quel che scrivete poco dopo, quando richiamate “il fatto concreto – ossia il diverso ‘zaino ecologico’ tra insalata autoprodotta e venduta in busta dalla grande distribuzione, ad esempio”. Ma il diverso “zaino ecologico” non dipende mica dal fatto che i soldi passino da una mano all’altra, ma dipenderà semmai dalle diverse tecniche produttive impiegate! Questa è una delle molte ragioni per cui la distinzione pallantesca merci/beni non sta in piedi.”

Queste parole mi hanno colpito e vorrei commentarle.

Mi si permetta di prenderla un pò alla larga, tornando indietro di un secolo e mezzo abbondante: al tempo della Rivoluzione Industriale.

Se dovessimo condensare in una frase la rappresentazione del fenomeno che, è il caso di dirlo, ha sconvolto il mondo e l’ha rimodellato, si potrebbe dire che la Rivoluzione Industriale è stata essenzialmente destrutturazione e ricomposizione del lavoro, ricondotto a nuove forme.

Karl Marx ne “Il Capitale” racconta come un artigiano che producesse carrozze dovesse lavorare molti mesi per produrne una, essendo assai varie e complesse le fasi necessarie alla realizzazione di ciascuna.

La “nuova officina”, a differenza della bottega artigiana, non aveva piu’ una o poche persone ma operai di catena.

Ciascuno di essi aveva una mansione semplice, ripetitiva, da “Tempi Moderni”, magistralmente messa alla berlina da Charlie Chaplin.

Produrre in questo modo risultava vantaggioso, sebbene alienante per gli operai. Il denaro investito ritornava sotto forma di profitto; anche per via del plusvalore non riconosciuto alle maestranze.

In breve: se l’artigiano produceva una carrozza ogni due mesi di lavoro, la fabbrica col vapore ne faceva una al giorno!

In un secolo e mezzo le tecnologie si sono evolute ma, in fondo, il meccanismo è rimasto lo stesso.

Alla logica del lavoro su ordinazione che dava luogo alla produzione di un bene, il cui prezzo consentiva all’artigiano di comprare le materie prime, pagare i garzoni e mantenere la propria famiglia, si è sostituita la “commessa”: difficile da prendere perchè esiste la concorrenza e, per stare sul mercato, bisogna essere competitivi, innovativi,

Bisogna avere un marketing che ponga il prodotto in evidenza, risulti empatico e in grado di conquistare i consumatori, battere i competitors.

Per dare un’idea della modernità basti pensare a una bella cucina realizzata da un falegname e quelle che si comprano in una nota catena di mobili da montare col “fai da te”, costruite in trucciolare e tenute insieme da viterie; in luogo degli incastri a coda di rondine, bilaminato tamburato e accuratezza nei particolari, tipici della falegnameria artigiana.

Il basso prezzo e la possibilità, data a tutti di possedere una cucina di bassa qualità ma che comunque faccia “scena”, è il migliore ritratto di questi tempi.

Ma anche questa realtà è entrata in crisi perchè, colpa del lavoro che non c’è, molti giovani non possono permettersi di mettere su casa. La crescita tanto agognata e sempre procrastinata, (e che, a mio avviso, non tornerà mai piu’) ha costituito, di fatto, una forma collettiva di deprivazione; che è cosa ben diversa dalla Decrescita, anche se, spesso, viene etichettata con questo nome.

Nello sconquasso generale in cui l’economia nazionale è ruzzolata indietro di un ventennio, la gente inizia a immaginare qualche cosa di diverso dal “Paese dei Balocchi” che le è stato prospettato ai tempi della Grande Illusione del “basta crederci e ognuno ce la può fare”.

Non tutto quello che c’è è evidente, chiaro, rettilineo.

Spesso abbiamo a che fare con comportamenti latenti, in embrione che, da poco tempo, sono stati posti in essere ed hanno bisogno di fare ancora molta strada per affermarsi.

Con un ideogramma direi che, se è possibile, si stanno creando le condizioni per un percorso all’inverso, rispetto a quanto è avvenuto dalla Rivoluzione Industriale in poi.

La deindustrializzazione, fatta di chiusura di fabbriche, fase che ha caratterizzato gli anni ’80 e ’90, è stata vissuta come periodo dell’incertezza, della precarietà.

L’Italia, tutto sommato, è ancora immersa in questa fase e stenta ad uscirne.

Ma, dopo gli anni delle speranze deluse, dei buchi alla cintola dei pantaloni, la gente comincia a guardare a nuovi paradigmi.

Se gli anni ’80 e ’90 sono stati caratterizzati dall’egoismo, dal “ce la fanno solo i migliori e quelli che sanno sgomitare meglio”, oggi ci si accorge che serve recuperare socialità. Al posto del “faccio da me” subentra il “facciamo insieme”. Al posto del “competere” subentra il “condividere”. Al posto del “brevetto”, “l’open source”.

Fossi in Simonetti non prenderei sottogamba questo mondo.

Oggi come oggi la realtà dei Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) e  dei Distretti dell’Economia Solidale (DES) sta diventando molto significativa, con numeri economici molto importanti.

Alcune regioni, come la Toscana e l’Emilia Romagna, hanno già riconosciuto con proprie leggi l’Economia Solidale e ne promuovono lo sviluppo.

Ecco che allora quelle quattro foglie di insalata, pure così simili a quelle vendute in un qualsiasi supermercato, sono così profondamente diverse.

Ed ecco perchè è bene distinguere tra “merci” e “beni”; proprio come fa Pallante.

La “mia” insalata, quella che cresce nel mio orto, oltre ad avere qualità organolettiche assai migliori di quelle del supermercato, oltre ad essere stata coltivata con metodi naturali e senza l’impiego di prodotti chimici, proviene da semi scambiati con altri produttori.

Uno dei grandi imperialismi mondiali è proprio quello legato alle sementi e ai pochissimi monopoli che le producono.

Lo scambio dei semi tra piccoli produttori consente di mantenere specie antiche che, diversamente, con la standardizzazione andrebbero perdute e, con esse, un pezzo fondamentale della biodiversità.

Privilegiare il consumo di prossimità, la “filiera corta”; rivolgersi direttamente al produttore locale, consumare sul territorio quello che c’è, costituisce una piccola grande rivoluzione.

Il cibo torna ad essere non solo semplice nutrizione: somma di vitamine e calorie indispensabile al nostro sostentamento ma un insieme di saperi e di sapori.

Il cibo incapsula conoscenze ataviche, tradizioni locali, saperi di generazioni.

Concepire tutto questo come una risorsa e una grande ricchezza costituisce la differenza tra quattro foglie di insalata autoprodotte e prodotte da chissà chi e chissà dove.

Uno degli aspetti piu’ interessanti di questa piccola ma grande rivoluzione che avanza è che le piu’ forti sensibilità a questi argomenti si rintracciamo nelle grandi città.

I GAS meglio organizzati sono quelli della Lombardia profonda. Quella che, guarda caso, non è mossa verso “queste” quattro foglie di insalata da ragioni meramente economiche ma, semmai, da adesione a un nuovo modello di condivisione e di compartecipazione.

Tutto ciò che sta dietro non è motivato dalla logica del profitto, non obbedisce alla condanna di arrivare primi, pena il fallimento dell’impresa.

Allo “speedy” si contrappone lo “slow”.

Quello che (forse) a Simonetti sfugge è che piu’ una società è complessa, potente, organizzata, apparentemente invulnerabile, piu’ in realtà è fragile.

Basta un’inezia: un cortocircuito per cui tutto si blocca.

Allora ha poca importanza sapere se Hubbert, col suo picco del petrolio, avesse torto o ragione.

E’ piu’ importante, a mio avviso, comprendere come il combinato disposto di molte azioni plurime induca le società a ricercare alternative.

Che il “clima” (in tutti i sensi) stia cambiando è evidente. Nella mia regione, L’Emilia Romagna, alle ultime elezioni, ha votato solo il 47% degli aventi diritto. Nel mio comune, Bardi, la percentuale è scesa al 34%: il minimo storico dal dopoguerra.

La stanchezza, la disillusione nella forza dello Stato e delle sue Istituzioni spinge a nuove forme di non-delega e di riappropriazione dei propri destini.

Nessun libro di economia parla di questo, non di meno esiste.

(Fonte immagine in evidenza: Wikimedia commons)

CONDIVIDI
Articolo precedenteDiritto di replica #1
Articolo successivoGomorra: (R)esistere attraverso gli orti
Originario della provincia di Sondrio, ho vissuto per molti anni a Sesto San Giovanni (MI) occupandomi di Garanzia della Qualità, prima come dipendente poi come libero professionista. Da otto anni vivo in una frazione del comune di Compiano (PR). Quando ci siamo tutti siamo in tredici persone. Cerchiamo , mia moglie ed io, di autoprodurre tutto quello che ci serve e di condividere con gli amici del GAS, del quale facciamo parte, acquisti e filosofia di vita. Sono laureato in Scienze Statistiche. Mi occupo di biodiversità come ricercatore. Sono coordinatore del Centro ISPRA dell'Appennino Parmense, per lo studio del suolo e degli effetti dell'impatto antropico.

10 Commenti

  1. Caro Uboldi, ma guarda che io non prendo affatto “sottogamba” questo mondo: ci ho scritto sopra ben due libri (il primo è un libro del 2010 su Slow Food: “Mangi chi può”), e mi pare quindi che di tutto potete accusarmi, salvo che di prenderlo sottogamba.

    Lo prendo invece per quel che a me sembra: una chiusura in un recinto identitario, una fuga dalla realtà, una rinuncia all’azione collettiva, e quindi, in ultima analisi, una accettazione dell’esistente. Anche perché si tratta, come ogni posizione genuinamente ed esclusivamente ideologica, di una contestazione apparente e fiammeggiante che però è intrinsecamente parassitaria del mondo così com’è e che senza quest’ultimo non durerebbe mezz’ora.

    In ogni caso, rimane il fatto che tutte queste cose non rendono minimamente le tue foglie di insalata migliori di quelle del fruttivendolo.

    Infatti scrivi: “ Ed ecco perchè è bene distinguere tra “merci” e “beni”; proprio come fa Pallante.La “mia” insalata, quella che cresce nel mio orto, oltre ad avere qualità organolettiche assai migliori di quelle del supermercato, oltre ad essere stata coltivata con metodi naturali e senza l’impiego di prodotti chimici, proviene da semi scambiati con altri produttori”.

    Eh no, non è vero. Magari lo fosse: sarebbe bellissimo. Basterebbe non vendere un bene, ed ecco che quello, per miracolo, diventa improvvisamente migliore. Ma questo è il mondo delle fiabe, non il mondo reale. Facciamo qualche esempio del mondo reale? Eccoli.
    Io ho un giardino nella mia casa al mare, dove c’è un prugno. Fa moltissime prugne. Peccato però che non siano buone: sono molto, infinitamente peggiori delle prugne che compro dal fruttivendolo. Mio nonno, che viveva in campagna, aveva un orto e aveva fatto il contadino per trent’anni prima di trasferirsi a Roma, per poi andarsene in campagna dopo altri trent’anni a fare di nuovo il contadino, faceva il vino per sé e la sua famiglia. Quel vino era pessimo (in compenso aveva verdura e frutta buonissima, anche se qualche anno più e qualcuno meno): credo che solo un pazzo sosterrebbe che il suo vino fosse migliore del Barolo o del Brunello che compro dal vinaio. O per cambiare genere merceologico: chi potrebbe sostenere che lo stesso pezzo di Beethoven, suonato da me per mio autoconsumo (=un “bene” pallantesco) sia migliore che suonato da Pollini in concerto (=una “merce” pallantesca)? Solo un cretino, direi.

    Il fatto che un oggetto o un servizio sia un “bene” (nel senso pallantesco) non garantisce affatto migliori qualità di quelle possedute da una “merce” (sempre nel senso pallantesco), e non può garantirle perché la qualità di un prodotto lo fa la tecnica produttiva usata per produrlo e non la scelta – fatta dopo la produzione – se venderlo o autoconsumarlo.

    Quanto alla psicosi per i “prodotti chimici”, come pure la fissazione per le “filiere corte” o per i semi consacrati dalla tradizione, sono alcuni dei grandi enigmi della cultura italiana contemporanea, che mi auguro un giorno o l‘altro venga studiata da qualcuno che ne sa più di me, come i miei amici Dario Bressanini o Antonio Pascale. Purtroppo per trattare come merita questa nuova ideologia italiana, avrei bisogno di altre duecentocinquanta pagine…

    Un saluto e buone feste.

    • Alla faccia del fatto che l’analisi dei limiti dello sviluppo prescinde dalle critiche alla decrescita, come ami ripetere sempre Luca: anche in questo caso rivendichi la superiorità dell’agricoltura industriale e a filiera lunga dando per scontato che questo modello ad alti input energetici sia procrastinabile a tempo indeterminato. Poi parli ideologia…

      • Uh? Non capisco. Non dico mica che l’agricoltura industriale (qualunque cosa significhi poi, visto che persino l’agricoltura biologica usa “prodotti chimici”) o le filiere lunghe siano “meglio” del bio o della filiera corta: a volte lo sono senz’altro, a volte no, dipende dai casi. Dico che la fissazione per le filiere corte o la psicosi per i prodotti chimici, per come è diffusa attualmente in Italia, è del tutto irrazionale e si basa (quasi sempre) su informazioni scorrette o tendenziose. Ma non avevo comunque nessuna intenzione di discutere di questo, che non ha nemmeno granché a che fare col nostro argomento.

  2. Caro Simonetti,
    ma si, godiamoci quest’aria vacanziera e prendiamola alla leggera, abbandonando per un attimo i ragionamenti sui massimi sistemi.
    Spero di condividere con te questa affermazione: le merci prodotte dal sistema agroalimentare ( e non solo) hanno risolto, in massima parte, i problemi quantitativi.
    Basta navigare un pò tra gli indici dell’ISTAT e le tabelle dei vari censimenti dell’Industria e dell’Agricoltura per rendersene conto.
    Naturalmente la “quantità” necessaria e sufficiente per sfamare la popolazione è stata raggiunta in modo ondivago; includendo l’import-export a livello soprattutto comunitario, con alterne vicissitudini.

    La caratteristica principale del prodotto industriale è di essere, in larghissima parte, standardizzato.
    La cosiddetta “Qualità”, parafrasando Jouran, è “adeguatezza all’uso”; ne piu’ e ne meno.
    Spero che inorridirai al fatto, come inorridisco io, che, tra le tante standardizzazioni relative ai processi di qualità, la UE voleva imporre ai paesi membri la cottura in forno in recipienti monouso e, in nessun modo. tramite l’appoggio del prodotto da cuocere sulla soletta del forno.
    Se avessimo aderito a quest’idea balzana addio pizza!
    Certo, Report della Gabanelli ci ha fatto vedere quanta sporcizia ci sia in molti forni delle pizzerie ma questo è un problema che non ha nulla a che vedere con la cottura sulla nuda soletta.
    Altra “perla”: la UE pretendeva che i formaggi venissero confezionati tutti in asettici caseifici. In questo modo ci saremmo giocati la Fontina di Mmalga, perchè, a duemila metri, certi standard industriali possibili in pianura non lo sarebbero altrettanto sul Monte Rosa o il Gran San Bernardo.

    Un altro esempio che mi è caro, come apicoltore dilettante, riguarda il miele.
    L’azienda leader in Italia di prodotti apiari: quella che, oltre al miele fa pure le caramelle ultra pubblicizzate, mette sul mercato un prodotto sempre uguale a se stesso, perfettamente in regola con le norme igienico-sanitarie.
    Peccato che questa blasonatissima azienda:
    a) non abbia una sola ape: tutto il miele lo compra dall’Argentina e dai paesi dell’Est europeo, dove i controlli sanitari ( inclusi quelli sui radionuclidi) sono assai piu’ blandi dei nostri.
    b) il miele normalmente cristallizza, dopo un paio di mesi dal confezionamento. Il miele di questa ditta no, perchè viene portato a 78°C per mantenerlo liquido; con tutte le conseguenze negative connesse al tratamento termico.
    c) non esistono garanzie di sorta sui luoghi in cui le api bottinano. Tieni presente che le api sono tra i migliori bioindicatori di inquinamento ambientale.
    d) non esiste diversità organolettica. Tutti i mieli dell’azienda innominata sono sempre uguali, per tutti gli anni e per tutte le stagioni. Dunque addio miele di acacia, di corbezzolo, di erba medica, di achillea, di lavanda.

    Lasciamelo dire, Simonetti, un decrescente è prima di tutto un buon gustaio.
    Vuoi mettere il pane, i dolci che fa mia moglie in casa, con la farina coltivata dal contadino di fiducia, macinata a pietra con mulino ad acqua ( quello si è un Mulino Bianco!), lievitati con lievito madre, cotti in forno a legna, col burro appena tolto dalla zangola, non pastorizzato; la marmellata fatta in casa……..
    vuoi mettere tutto questo con le merendine commerciali che ti tentano tre volte tanto?
    Andiamo, il marketing è funzionale al sistema: serve per fare vendere e condizionare il pensiero dei mansueti; ma la buona tavola è altra cosa.
    Poi, naturalmente, se tu, ai tortellini fatti dalla mamma ( o dalla moglie, se è capace), preferisci quelli di Giovanni Anfibio, problemi tuoi.

    La “filiera corta” non è una fissazione.
    Nel sistema che a te piace e che io onestamente disprezzo, è contemplato anche il fatto che migliaia di TIR, tutti i santi giorni, dalla Francia passino sotto il Frejus per portare in Italia una nota marca di acqua minerale. Nel contempo incrociano i colleghi italiani che, dall’Italia portano in Francia le nostre acque in bottiglia.
    Tu dirai: ” è la logica del mercato e della concorrenza”.
    Bene, non è la mia logica. Per me che ognuno si beva le acque sue: sono sempre H20 , con qualche bollicina aggiunta in piu’ o in meno.
    Ma, si sa, ci sono acque che fanno fare “plin-plin” e acque che fanno digerire. Tutte acque della salute: mica come quella nazional-banale che esce dal rubinetto!
    La mia zona è piena di acque termali naturali, anche se non riconosciute o presenti in bottiglia sul mercato; ma la gente, condizionata dai media, non rinuncia ad acquistare quella in bottiglia che, si sa, costa circa mille volte di piu’ di quella del rubinetto.
    Filiera corta significa, per quanto possibile, autosufficienza dei territori. E’ forse peregrino pensare che il cibo a “chilometro zero” sia da preferirsi a quello che viaggia in aereo o su gomma per migliaia di chilometri, ammorbando l’aria e buttando grandi quantità di denaro per trasportarlo?
    Consumo di prossimità significa avere presente cos’e’ l’Italia, come si distribuisca la popolazione sul territorio: concentrata massivamente nelle grandi e medie città, mentre tutta la dorsale appenninica è spopolata.
    Io che vivo in appennino so quanto è importante l’autosufficienza e come qui la qualità della vita dipenda dal fatto che le comunità si sappiano organizzare e, per quanto possibile “bastare” a se stesse.

    La scommessa sta nel coniugare la modernità ( sono ben pochi i decrescenti contrari all’uso razionale delle tecnologie) con la conservazione delle tradizioni.
    Sta nel riuso intelligente del territorio: non invasivo, biocompatibile.
    Del resto, amico Simonetti, ideologie a parte, quand’anche si credesse nella crescita, per quanto riguarda questa parte del mondo e dell’Italia in particolare, di quale crescita parliamo, quando tutti gli indicatori economici, ma proprio tutti, ci dicono che il PIL è destinato, nella migliore delle ipotesi, a crescere quanto un prefisso telefonico?
    Da noi, poi, la “ripresa” è procrastinata di sei mesi in sei mesi da almeno quattro anni a questa parte.
    La “ricetta” liberista per la crescita la conosci meglio di me: avanzo primario nel bilancio dello Stato (ce lo sognamo!) da destinare a investimenti; ricerca, innovazione tecnologica, conquista di nuovi mercati ( come se i BRICS stessro a guardare!). Finora queste ricette non hanno funzionato, sia con governi di destra che di sinistra.
    Ma sto divagando.
    Poi è Natale.
    Fai conto che ti abbia invitato (virtualmente) al nostro pranzo di Natale, a base di cardi dell’orto in besciamella al gratin, tortelli di magro alla borragine in salsa di noci, faraona ripiena con castagne, patate arrosto, sbrisolona, croccante e torrone, frutta secca.
    Naturalmente tutte cose autoprodotte con le nostre materie prime o quelle dei vicini.
    Ma a te le cose decrescenti non piacciono. pazienza.
    Un saluto cordiale e buone feste, anche da parte mia.

    • Caro Uboldi, forse però c’è un equivoco da chiarire. “Merce” non è sinonimo di “prodotto industriale”. Se vado al ristorante a mangiare la pasta fatta “in casa” dal cuoco, se compro dal fornaio il pane fatto “in casa” dal fornaio, e se compro dal fruttivendolo la frutta e la verdura che si coltiva da sé nel suo orto, non ho a che fare con prodotti industriali, ma sempre di merci si tratta. Ma allora mi spieghi che differenza c’è con “il pane, i dolci che fa mia moglie in casa, con la farina coltivata dal contadino di fiducia, macinata a pietra con mulino ad acqua ( quello si è un Mulino Bianco!), lievitati con lievito madre, cotti in forno a legna, col burro appena tolto dalla zangola, non pastorizzato; la marmellata fatta in casa……..”? (A parte ovviamente i dovuti complimenti a tua moglie, eh 🙂 ) Sono entrambi “fatti in casa”, magari anche con ingredienti della stessa provenienza e magari con tecniche produttive analoghe. Solo che uno è una merce, l’altro no. Davvero pensi che un bene sia peggiore dell’altro solo perché uno lo ottengo pagando e l’altro no? Davvero pensi che “le merendine commerciali che ti tentano tre volte tanto” facciano schifo perché sono state comprate, anziché perché sono fatte con ingredienti meno buoni? Non so, a me pare una posizione tutta ideologica.

      Non è poi che “le cose decrescenti non mi piacciono”, è la teoria della decrescita che mi sembra sbagliata. Allo stesso modo, penso che Slow Food abbia idee aberranti, ma i prodotti e i ristoranti Slow Food mi sembrano generalmente ottimi. Fra le due cose non vedo alcuna contraddizione, perché in effetti non ce n’è.

      Grazie comunque per l’invito! Non so peraltro nemmeno se ce la farei a mangiare tutta quella roba… Un cordiale saluto e di nuovo tanti auguri.

      • Non è quello che dice Pallante. Pallante ti direbbe che il prodotto fatto di alimenti genuini ma comprato è una merce che è anche un bene. Per lui i beni che non sono merci sono cose come il gas per il riscaldamento che va sprecato a causa di un cattivo isolamento.

        • Pallante dice un’altra cosa relativamente ai beni-che-sono-anche-merci: che esistono beni che si possono ottenere solo sotto forma di merci, cioè quelli “che richiedono tecnologie complesse e competenze specialistiche” (“La felicità sostenibile”, Rizzoli, 2009, p. 33). Anche se riconosco volentieri che cercare di trovare una coerenza nel guazzabuglio della teoria di Pallante è un’impresa probabilmente vana.

  3. Mi pare che Pallante, il cui pensiero, ovviamente, non è il Verbo, in quanto è fallace come tutti noi, dica cose di elementare buon senso.
    Io ho coibentato, da cima a fondo, la casa che ho acquistato qui, in appennino.
    Dunque ho speso denaro per acquistarla ed ho speso denaro per metterla a posto.
    Ho fatto cose che fanno tutti coloro che comprano casa: siano essi consumisti convinti oppure decrescenti.
    Ma la mia azione è stata oggettivamente decrescente, perchè:
    a) sono stato un migrante al contrario: via da Milano per ripopolare una zona in cui la popolazione rischia l’estinzione
    b) mi sono messo a lavorare terreni abbandonati ai rovi e alle ortiche, restituendo vita e bellezza al paesaggio
    c) ho diminuito, nel mio piccolissimo, la mia impronta ecologica, perchè molti beni li produco da me e poi , oltre a utilizzarli personalmente, li regalo o li scambio.
    d) per una casa piu’ una dependance.di 490 mq. complessivi , terreni di pertinenza, ho speso meno di quanto costi un box in centro a Milano.
    e) materiali a parte, la gran parte dei lavori di ristrutturazione me li sono fatti da solo coi miei figli ( che non abitano con me)
    f) prima della ristrutturazione consumavo 100 quintali di legna per scaldare che, al valore di mercato di 10€/q,le fanno 1.000€ /anno. Ora, dopo la coibentazione, consumo poco piu’ della metà. Così facendo risparmio denaro, risparmio emissioni di CO2 in atmosfera e, oggettivamente, faccio calare il PIL, perchè, dopo gli interventi iniziali in cui l’ho fatto aumentare, nella spesa di parte corrente l’ho ridotto.
    g) che è poi il punto piu’ importante, sono felice! Dopo una vita in giacca e cravatta, balocchi e profumi, posso apprezzare la differenza tra “essere” e “avere”. Sto facendo di tutto per essere autonomo e, nel contempo, spendo molto del mio tempo ad elaborare e progettare per valorizzare il territorio con attività non invasive e biocompatibili.
    Qui, in fondovalle, c’era un’unica fabbrica ( di piastrelle) che ha chiuso. Tutti a stracciarsi le vesti, SEL in testa.
    Quella fabbrica dei veleni ha portato solo danni e nessun beneficio strutturale alla valle.

    Un dato: l’Italia è prima in Europa per consumo di legna da ardere e ultima per produzione di un bene, che, se gestito bene, è perfettamente rinnovabile. Ora, non è meglio costruire un razionale piano di coltivazione, piuttosto che fare piastrelle al piombo che creano enormi danni ambientali e inducono una falsa idea di benessere ?
    Non è che stai bene solo se sei a rischio silicosi o di saturnismo. Stai bene “anche” se vivi in pace con l’ambiente, se vivi la comunità e sei partecipe del “fare” insieme, se poni l’altruismo alla base delle tue scelte e non l’egoismo, come insegna la dottrina liberale.
    Noi qui abbiamo aria buona, acqua buona ambiente intonso con un impatto antropico attorno allo 0,75% del territorio. Non è ricchezza questa, anche se è “bene” e non “merce”?
    Caro Luca, quello che tu e nessun altro, me compreso, ovviamente, riusciremo mai a stimare è la ricchezza immateriale: quella che ti fa vivere bene senza dovere passare da alcun registratore di cassa che certifichi i tuoi acquisti.
    Se ragionassimo tutti come Ennio Flaiano: “felicità è desiderare quello che si ha”, forse avremmo la metà del PIL ma tanto ben-essere in piu’.

  4. Premetto che non ho mai letto Pallante.

    Tra i miei vari passatempi c’e` il progetto e costruzione di amplificatori a valvole termoioniche, che faccio solamente per me e non vendo.
    Sono supersicuro che non reggerebbero un paragone all’oscilloscopio con altri amplificatori comprabili in negozio, siano a valvole o a transistor, ma garantisco che ascoltare Beethoven o Coltrane sul mio stereo completamente autocostruito suona, per me, infinitamente meglio che farlo su qualsiasi altro sistema.
    Lo stesso si potra` dire delle mele acerbe dei miei alberi, del mio yogurt, della mia ginger-ale, delle mie lasagne.
    Certo un piacere simile potra` venire dall’uso di prodotti scambiati con vicini di casa che forse avranno mele migliori, o si costruiscono le valvole termoioniche meglio di me. Ma il punto e` proprio questo, avendo annullato o ridotto al minimo possibile gli intermediari ogni bene possiede un valore aggiuntivo che e` quello di conoscere chi lo ha fatto, di partecipare al suo sforzo artigianale ed umano con qualcosa di piu` di una serie di bonifici bancari inifnita per pagare le fragole delle California al quadruplo di quello che valgono incrementando l’entropia dell’ecosistema dieci volte piu` del necessario.
    Simonetti dice che per godere di tali piaceri dobbiamo comunque stare sulle spalle delle tecnologie e del sistema che ce le fornisce “contestazione apparente e fiammeggiante che però è intrinsecamente parassitaria del mondo così com’è e che senza quest’ultimo non durerebbe mezz’ora”. Questo, che forse e` il nocciolo della questione, e` tutto da dimostrare.
    In pratica basta ribaltare l’assioma industriale di Adamo il Fabbro che per fare un buon chiodo servono dieci operai, uno a tirare il filo, uno a battere la capocchia, uno ad incartare i chiodi, uno ad inscatolarli… ed una fila di mercanti a venderli. Non e` difficile come ci vogliono far credere…
    Abbiamo infatti da miliardi di anni miliardi di esempi di oggetti estremamente complessi e completamente autocostruiti: gli esseri viventi. Nel mondo della biologia la catena di montaggio non esiste, se non a livello cellulare all’interno dell’individuo. Ogni essere vivente autocostruisce se stesso singolarmente e sequenzialmente senza comprare in negozio reni, tendini e altri pezzi prodotti in serie oltremare. Siccome la rivoluzione industriale e` infinitamente piu` breve dell’evoluzione della vita, si puo` dedurre che il modo di produrre odierno, che crea una miriade di contraddizioni, problemi e crisi, e` semplicemente una parentesi temporanea nell’evoluzione. Stiamo vivendo uno di quei fenomeni che portano il sistema fuori controllo e che possono venir sorpassati solamente attraverso una fortissima contro-reazione che sara` molto probabilmente una catastrofe a meno che non ci diamo tutti una regolata immediatamente.

  5. Buongiorno, qualcuno di voi sa cos’è l’antropocentrismo? E l’antispecismo? Cosa significa decrescita felice?
    Molti affermano erroneamente che il consumo di carne e derivati animali negli ultimi anni sia in discesa. Il consumo di carne rispetto al totale dell’assortimento referenziato food commerciale gdo (distribuzione organizzata) non è affatto diminuito, neppure lo è tutto il resto dei derivati. E’ in forte calo la spesa media dei consumatori. Cosa significa: il potere d’acquisto è sceso causa fattori ben noti a tutti, ma le persone non hanno smesso di fare acquisti alimentari, nè tanto meno hanno smesso di acquistare tutto ciò che ne deriva dallo sfruttamento animale. I prezzi al dettaglio non sono diminuiti ma neanche aumentati, diciamo che il costo del denaro è rimasto stabile (come evidenzia anche la Bce), ma questo non significa nulla in termini antispecisti. L’informazione che è stata diffusa in questi anni non ha creato una cultura di massa verso un consumo più sostenibile ed etico che potesse creare un benessere più giusto e raggiungibile da tutti. Tutto l’opposto! Si è diffuso un consumismo spietato e dannoso per tutti. Un benessere psicotico ed illusorio fatto di carnismo e lusso, vivisezione e farmacologia lobbista…cioè tutta un esagerazione portata all’eccesso senza nessun tipo di controllo ed etica. Certo abbiamo avuto anche gli smartphone e facebook…ma senza allevamenti intensivi e con uno sviluppo maggiore di energie alternative sarebbe stato meglio. Il petrolio e il capitalismo ci ha resi figli e schiavi di tutto questo, e capirlo con coscienza e consapevolezza, anzichè essere complici silenziosi, forse ci rende più nobili e giusti verso uno sviluppo economico più sostenibile.
    La grande distribuzione organizzata, nata in America negli anni ’60 ed importata poi in Europa, crea ogni giorno una miriade di overstock di cibo non riutilizzabile con metodi accettabili. Le collette e i banchi alimentari non sono sufficienti. Tutta la produzione food industriale mondiale (l’Italia è ai primi posti con i dop, doc, igp ecc.ecc.) crea solo devastazione ambientale, sfruttamento animale, diminuzione di risorse naturali come acqua e materie prime essenziali, e soprattutto speculazione economica. Pochi gruppi di persone manageriali incassano cifre ultra-miliardarie e molti sopravvivono o peggio fanno la fame vivendo in povertà. La nostra borghesia moderna è solo un illusione preventiva costruita da chi vuole una globalizzazione forzata e controllata. Il mercato globale uccide quello locale, distrugge l’artigianato e il piccolo produttore…quello di cui invece avremmo bisogno per far rinascere le economie locali. Si analizzino nello specifico le produzioni di olio di palma e ogni prodotto simbolo del consumo globale come il caffè, banane, ananas, grano, zucchero ecc…e soprattutto carne e derivati. Quello che rimane alle popolazioni locali sono piccoli spiccioli vergognosi rispetto alla moltitudine di fatturati che le grandi corporations del food investono sui mercati internazionali. Sradicare questo sistema non è affatto semplice, anzi pare un utopia. Ogni brand ha una storia a sè: essi sono di derivazione marketizzata e chi lavora per impiegarli deve essere per forza di cose costretto dal libero mercato ad imporli sui consumatori impiegando rigide regole di strategia commerciale pena il fallimento stesso del prodotto. Pubblicizzato, indotto, fidelizzato, consumato…e così via. Per diffondere un capitalismo di massa l’imprenditore o il magnate della finanza devo investire denaro, prelevare risorse (naturali, umane ed animali) e creare un sistema produttivo che generi capitali e quindi altro profitto che alimenterà altro capitale dietro utilizzo di altre risorse ed ancora ed ancora…un sistema capitalista basato su profitti infiniti dietro sfruttamento di risorse finite. Che sia bigmac o veggieburger…è la stessa identica cosa. Cosa c’è di tanto complottista-anticapitalista in questo ragionamento? E’ liberamente etico vivere in un mondo basato sullo sfruttamento delle risorse naturali che comporta altrettante vittime umane ed animali? I cosiddetti effetti collaterali di una politica economica globale, chiamata appunto globalizzazione. Cosa invece c’è di sbagliato nell’acquistare prodotti agroalimentari presso un coltivatore diretto, o un piccolo commerciante, magari un nostro vicino di casa che ha un piccolo orto, o una piccola azienda familiare che non utilizza concimi chimici o ogm? Non è anche questo e comunque capitalizzare? Bisogna per forza essere estremisti per far capire concetti così semplici? Qui nessuno sta dicendo che dobbiamo autoprodurci il cibo. Qui nessuno sta dicendo che il futuro debba essere anticapitalista. Qui si sta prendendo una posizione, una doverosa posizione etica.
    Il capitalismo esasperato moderno è antropocentrico per definizione perchè sfrutta gli Animali, le risorse naturali e di conseguenza in maniera totalmente psicotica l’essere umano stesso. Anche acquistare una mela è commercio capitalista, ma se essa è biologica tanto meglio, se è locale ancora di più, se è coltivata raccolta e venduta da una cooperativa agricola regionale o almeno nazionale meglio ancora. Non tutto il cibo può essere autoprodotto, nè tanto meno alcune varietà di frutta e verdura causa diversa stagionalità e clima…ma nessuno ci obbliga a mangiare le fragole a gennaio…ci sono le arance della Sicilia che sono più buone di quelle spagnole. Questo è libero mercato locale non corporativo: il piccolo imprenditore che alimenta un piccola economia fatta di persone oneste.

Lascia un commento

Inserisci il tuo commento
Inserisci qui il tuo nome

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.