Ultimamente sentiamo spesso parlare di povertà. Credo che dai nostri media queste tema viene eccessivamente semplificato e, basandosi semplicemente su indicatori economici di difficile credibilità, e ci sentiamo spesso dire che gli italiani si sono impoveriti e tornati ad un livello di ricchezza di 20-30 anni fa. Eppure io, anche se ero bambino, mi ricordo un po’ quell’Italia, e il mio ricordo è quello di un paese più benestante, meno preoccupato, ma soprattutto più felice, e quindi, secondo me, più ricco. Che tipo di povertà stiamo vivendo allora, dato che il malessere è percepibile? E poi penso che sorga spontanea la domanda, anche se non mi pare che ciò accada ai nostri politici, se è legittimo considerare la ricchezza di un paese solo attraverso degli indicatori economici? Inoltre poi mi chiedo: siamo poveri perché ci mancano cose materiali oppure perché aspiriamo semplicemente ad avere sempre di più? Ci premevo quindi a scrivere la mia su questa tema così complesso.
In una società in cui alla generazione del dopoguerra fu stato detto di fare affidamento allo stato-nazione, con la conseguente nascita di uno stato sociale che avrebbe iniziato ad occuparsi e prendersi cura dei nostri bisogni, ed alla generazione successiva di fare affidamento al libero mercato capace di regolarsi da solo e far emergere i più meritevoli, ci troviamo ora in un periodo storico in cui lo stato sociale non ha più la volontà, né la capacità di occuparsi dei cittadini ed il libero mercato della società capitalista, con l’obiettivo della crescita economica come soluzione per i problemi di tutti, ormai completamente fuori controllo ed arrivato a fine corsa. Data questa situazione, ma soprattutto data la nostra adesione con l’adeguamento del nostro stile di vita, inizialmente al primo sistema dello stato sociale e poi in seguito a quello del libero mercato, ci troviamo ora completamente smarriti, confusi, spaesati. Abbiamo, in altre parole, anche perso determinate capacità fisiche ma anche soprattutto mentali per adattarci a nuove situazioni. È un po’ come se l’uomo civilizzato si trovasse di colpo catapultato nella giungla, magari ancora con in mano una ventiquattrore e un palmare di ultima generazione. Solo che ora non gli serviranno più niente perché per sopravvivere ora dovrà cominciare a cacciare e senza che questo gli sia mai stato insegnato. Ma, oltre a questo, consideriamo anche che il sistema capitalistico-consumistico[1] all’uomo moderno non ha mai inculcato nemmeno altri valori fondamentali che, secondo me, stanno alla base del vivere bene, come: umiltà, sobrietà, rispetto e cooperazione sostituendogli con ostentazione, individualismo, invidia, arroganza ed egoismo. Inoltre la continua esposizione a stimoli dovuta ad uso (ed abuso) inappropriato dei mezzi tecnologici, la vita frenetica ed indaffarata (corrispondente di successo nella società odierna), hanno privo le persone della capacità di riflessione, di pensiero ed ascolto verso gli altri e verso se stessi (in altre parole non sappiamo più chi siamo e cosa ci rende felici), focalizzando la loro attenzione su cose frivole e superficiali. Oltre a questo, oltre a queste carenze individuali che hanno fatto diventare le persone più povere, è venuto a mancare la comunità, sostituita da altri sistemi come Stato e mercato. Quel sistema di comunità basato sulla cooperazione, sull’aiuto reciproco, sull’esperienza condivisa. Quel sistema di comunità presente una volta nella provincia italiana e poi abbandonato cosi come le case dei tanti paesini per cercare fortuna in città. Abbiamo perciò abbandonato quel sistema di economia basato sul rapporto con persone di fiducia che conoscevamo, e oltre a ciò anche più efficiente perché basato sul minimo dispendio di risorse, sostituendolo con uno molto più complesso, dispendioso, volubile e fragile, ed affidando il nostro destino, anche involontariamente, a perfetti sconosciuti che hanno come unico obiettivo quello di aumentare i propri profitti. È questa, secondo me, la vera povertà al giorno d’oggi. Più che povertà materiale viviamo una povertà che è conseguenza di carenze individuali: mancanza di cultura e valori fondamentali, e carenze collettive o di sistema: povertà di legami e aiuto reciproco, cioè mancanza di comunità.
Ultimamente Papa Francesco ha espresso parole sulla povertà che a tanti forse sembravano stonare. Parlava di una povertà volontaria, nobile, preziosa. Una povertà che deve accompagnarci, i cui valori non vanno dimenticati, indipendentemente da quello che è il nostro reddito o da ciò che possediamo, e che tanti di noi riscoprono soltanto attraverso la rinuncia. A noi , figli di questa società, ci è stato insegnato di lottare ed agognare per la ricchezza materiale, di ripudiare e vergognarci della povertà. Che bastava lavorare duro e che i frutti si vedranno. Una società basata sulla menzogna che ci racconta che basta indebitarci e comprarci una bella macchina per non sentirci inferiore agli altri e poter far parte di quelle persone un po’migliori. Invece la vera povertà è l’insicurezza e il complesso di inferiorità delle persone, non il fatto di possedere o no una bella macchina. Non abbiamo considerato che con l’aumento della ricchezza materiale si è impoverita la nostra anima. Pensiamo ai frati che fanno il voto di povertà, capaci di rinunciare ai beni materiali per fare una vita spirituale. Persone cosi lontane dal mondo odierno, dove tutto si basa sull’accumulazione, sull’apparenza, sul consumo. Credo che ci vuole un’enorme ricchezza interiore, e persone ricche dentro mi rifiuto di considerarle povere. Riconosco che questi possono sembrare esempi estremi, ma perché per una volta non possiamo in qualche maniera prendere queste persone come esempio e cercare di avvicinarci almeno un po’ a loro nei nostri comportamenti ed atteggiamenti? Perché non invidiamo(invidia buona si intende) loro, capaci di essere felice facendo una vita di rinuncia? Perché noi invidiamo e pensiamo che la felicità abiti nel SUV del nostro vicino di corsia durante l’attesa al semaforo?
Credo che ognuno di noi ha un rapporto personale con i beni materiali che dipende dalle sue radici, dalle sue esperienze e dalla sua cultura. M’immagino ognuno di noi che si colloca in un determinato punto di una scala dove all’estremità in basso ci siano quelle persone più insicure, attaccate alle cose, al denaro, al giudizio degli altri, all’apparenza e che non si sforzano di fare uno scalino, di salire un po’, per liberarsi da queste catene. Tanti di noi invece, soprattutto se decrescentisti, probabilmente qualche scalino l’hanno già fatto. Più in basso vediamo gli altri, anche noi eravamo laggiù, nella loro posizione, ma noi abbiamo cominciato a riflettere, a pensare, a sforzarci di capire se esiste solo questo modo di vivere (legato all’immagine che gli altri abbiano di noi per il lavoro che facciamo, per quanto guadagniamo, per ciò che possediamo) oppure se si può cambiare. Noi agli altri che si trovano in fondo vorremmo spiegare, vorremmo fargli capire che si può cambiare vita semplicemente cambiando modo di pensare e smettendola di desiderare ed agognare. Solo che in questo caso tutte le armi e tecniche di persuasione sono abbastanza inutili. Ognuno deve fare il primo passo, o il primo scalino, da solo. Tutti gli aiuti sono vani se uno non inizia da solo a riflettere e mettere in discussione il suo percorso verso la felicità, cercandola non più all’esterno, ma dentro se stesso. Io, e parlo per me personalmente, intraprendo il percorso di decrescita, e conseguentemente di rinuncia ad alcune cose materiali che prima consideravo necessarie ma poi ho scoperto superflue, ho trovato finalmente la vera libertà. La libertà di non essere più schiavo delle cose materiali, la libertà di non dover più ascoltare la pubblicità per sapere le ultime tendenze, la libertà di non dover comprare per forza una cosa perché ce l’hanno tutti gli altri, la libertà di non desiderare, perché l’unico vero desiderio che può esserci, come ci raccontò l’illuminante Tiziano Terzani nelle sue ultime memorie, è quello di essere se tessi.[2]
Noi comunque non siamo ancora in cima. Probabilmente siamo ancora lontani ma vogliamo arrivarci. Ed è questo l’importante. A tanti di noi che hanno intrapreso un percorso di decrescita può succedere ancora che si trovano delle incongruenze tra atteggiamento e comportamenti personali, ma ciò è normale. Bisogna continuare a lavorare su se stessi. Continuare a farsi domande, capire dove si può ancora migliorare. Anche se sono convinto che chi ha già fatto qualche scalino non torna indietro. Abbiamo capito che quassù si sta meglio. Abbiamo capito che esiste anche il piacere della rinuncia, e soprattutto la libertà della rinuncia, e che la ricchezza agognata ti rende soltanto schiavo delle cose. Si tratta quindi di non perdere di vista l’obiettivo: la cima. Allenarsi e sforzarsi, e per una volta, CRESCERE (dentro ovviamente).
“Non è ricco colui che possiede tanto, ma colui che ha bisogno di poco.”
HENRY DAVID THOREAU
[1] Uso questo termine per differenziarlo dal sistema capitalistico nella società dei produttori antecedente a quello della società dei consumatori. Nella società dei produttori il valore fondamentale si basava sul rinvio delle gratificazioni e quindi diversa dalla società odierna che vive per consumare.
[2] LA FINE E’ IL MIO INIZIO, Un padre racconta al figlio il grande viaggio della vita. Tiziano Terzani.