Stati Uniti e Cina, i maggiori produttori di gas serra del pianeta, hanno annunciato l’impegno per una significativa riduzione delle emissioni nel corso della conferenza COP21 di Parigi. Si tratta senza dubbio di un passo in avanti importante rispetto a quanto accaduto sei anni fa a Copenaghen quando, prima ancora di iniziare le trattative sul clima, le due potenze si accordarono preventivamente per impedire l’applicazione di qualsiasi accordo vincolante. Meglio tardi che mai, ma non bisogna sopravvalutare i proclami sia perché, in concreto, le proposte non sembrano adeguate per porre un argine al paventato aumento di 2°C della temperatura media del pianeta rispetto all’era preindustriale, sia perché ci troviamo di fronte all’ennesimo caso di strumentalizzazione del problema ecologico camuffata da preoccupazione ambientale.
In un suo libro, Ugo Bardi traccia un parallelismo tra la presa di coscienza dei limiti del pianeta e le cinque fasi di elaborazione del dolore individuate dalla psichiatra Elisabeth Kübler Ross – negazione, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione. Dopo aver ignorato per lungo tempo qualsiasi tematica ecologica, dopo la rabbiosa reazione negazionista della grande industria e dei paesi in via di sviluppo desiderosi di aumentare il tenore di vita, i vertici della politica globale ammettono l’esistenza di un serio squilibrio climatico, i cui effetti del resto cominciano a manifestarsi in tutta la loro drammaticità anche nei paesi più avanzati, vedi la pesante siccità che ha colpito la California e i fenomeni meteorologici estremi che sconvolgono sempre più frequentemente l’Europa. Ma il riscaldamento globale, per quanto concreto in tutta la sua distruttività, rappresenta davvero il cuore del malessere ecologico planetario, oppure viene elevato a nemico pubblico numero uno celando così una realtà ben più vasta e complessa?
Come ha ben spiegato Dennis Meadows attraverso una pregevole metafora, se un malato di cancro soffre di emicrania è stupido individuare in questo malessere il problema fondamentale, somministrando antidolorifici si interviene sul sintomo senza risolvere alcunché. Allo stesso modo, il riscaldamento globale non è la malattia del pianeta, ma solo uno dei tanti sintomi di quel cancro rappresentato dalla ricerca della crescita economica continua. Perdita di biodiversità, acidificazione degli oceani, rendimenti decrescenti dell’agricoltura e dell’attività estrattiva, unitamente a tanti altri fenomeni che non siamo soliti associare tra loro – molti dei quali assumono risvolti politici e sociali, non solo ambientali ed economici – sono tutti sintomi correlati. La conferenza COP21, da questo punto di vista, rappresenta il vano tentativo del business as usual di rifarsi una verginità, illudendosi di trovare la soluzione affidandosi alla tecnologia o escogitando qualche efficiente mercato del carbonio. Si discosta parecchio dall’atto di consapevolezza di cui avremmo bisogno.
Ciò premesso, riteniamo necessario sostenere la mission della conferenza e mobilitare l’opinione pubblica internazionale per un accordo sulle emissioni più equo e stringente possibile, senza vedervi alcuna contraddizione con quanto esposto in precedenza. Così come la talpa non è un animale capace di compiere acute osservazioni della volta celeste, allo stesso modo le logiche degli stati nazionali e dell’economia capitalista mal si conciliano con una reale sensibilità ambientale; il solo fatto di prendere coscienza dell’esistenza del global warming e di volerne contenere gli effetti – intaccando almeno parzialmente le logiche del business – rappresenta un grande risultato.
Del resto, se i costituzionalisti liberali settecenteschi hanno forse preteso troppo chiedendo ai governi di impegnarsi nella ricerca della felicità umana, tuttavia non collaborare attivamente alla catastrofe è il minimo per poter reclamare ancora un qualche residuo di legittimazione. Per quanto oramai i governi nazionali – persino nelle democrazie liberali di lunga tradizione – si stiano trasformando sempre di più in uno specchio deforme della loro opinione pubblica, questa può impegnarsi attivamente affinché tali deformazioni assomiglino il più possibile alle sue aspirazioni reali. C’è molta differenza, ad esempio, tra una politica incentrata sull’investimento in energie rinnovabili e sui limiti alle emissioni rispetto a una basata sullo sfruttamento intensivo delle fonti fossili e la deregolamentazione più assoluta. Nonostante le critiche alla green economy e allo sviluppo sostenibile, noi decrescenti siamo pur sempre capaci di apprezzare i meriti di tali concezioni rispetto alla riproposizione imperterrita del business as usual, ed è anzi probabile che una sensibilità ambientale diffusa (per quanto confusa) possa stimolare una presa di coscienza più forte verso la decrescita.
Dopo aver costretto i governanti del pianeta alla massima contrattazione loro possibile del problema ecologico, starà a noi – comunità di tutti i popoli della Terra – superare rapidamente la fase della disperazione e accettare il problema in piena coscienza e in tutta la sua gravità, intervenendo attivamente. Soluzioni per curare il pianeta ma anche per migliorare le nostre vite potrebbero essere a portata di mano.