PIL, beni/merci: fuori da cavilli e faziosità

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Negli ultimi scambi che io e altri membri del DFSN abbiamo avuto con Luca Simonetti, autore di Contro la decrescita, sono emerse quelle critiche che, nella presentazione alla decostruzione del libro e al gruppo Felice_Mente, avevo bollato come ‘cavillose’. Con questo termine intendo riferirmi alle disquisizioni teoriche astratte, abbastanza indifferenti alla realtà, oppure a quelle che richiamano alla mente l’antico proverbio cinese “quando il dito indica la luna lo stolto guarda il dito”: magari molto interessanti a livello teorico, ma che sviano dai problemi concreti. Le ultime discussioni sulla definizione di PIL e la differenza beni/merci operata da Pallante rientrano sicuramente in questi ambiti.

Cominciamo dal PIL, riepilogando la sua parabola dialettica iniziata in Contro la decrescita e proseguita sulle pagine di DFSN:

  • in Contro la decrescita il PIL è – senza se e senza ma – la somma di tutti i redditi e tutti i servizi, autoproduzione inclusa: un’insalata autoprodotta aumenta il PIL quanto quella comprata, ne consegue quindi che Pallante e i decrescenti criticano il PIL senza sapere cosa sia;

  • dopo che ho riportato la definizione di PIL del dizionario economico Treccani facendo notare che è la stessa di Pallante e dei decrescenti (rientrano solo gli scambi monetari), Simonetti per coerenza avrebbe dovuto inserire anche la Treccani tra gli ignoranti del PIL; invece ha introdotto la distinzione PIL-a e PIL-b (articolo Diritto di replica #1). Pertanto i decrescenti sarebbero già un po’ meno ottusi rispetto all’immagine che si ricava dal libro: la loro idea di PIL sarebbe il PIL-b, ossia la misura del reddito;

  • successivamente propongo degli stralci del Rapporto Stiglitz dove si evince chiaramente che Stiglitz, Sen e gli economisti della Fondazione per lo sviluppo sostenibile intendono il PIL unicamente nella versione PIL-b, che non fanno alcun riferimento a un ipotetico PIL-a (dicono che solo gli scambi ALL’INTERNO DEL MERCATO – il reddito autoprodotto si quantificare in denaro ma e’ ESTERNO AL MERCATO – sono computati nel PIL, unico e indivisibile). Trovo anche un riferimento al fatto che, contrariamente a quanto scritto in Contro la decrescita, gli ingorghi stradali fanno incrementare il PIL. Replica di Simonetti al riguardo (commento del 21 dicembre 2014):

A dire il vero il Rapporto Stiglitz dice solo che “traffic jams *may* increase GDP as a result of the increased use of gasoline”, il che è certo vero (“possono”, infatti – ma solo quando non si applica la “finestra rotta” di Bastiat, cioè in sostanza quando c’è crisi da insufficienza della domanda effettiva: l’ho pure scritto nel libro…), ma non toglie che *di norma* non lo facciano.. Talvolta nemmeno gli economisti sono molto svegli, ma non è certo il caso di Stiglitz e Sen! E conferma che gli economisti conoscono benissimo i limiti dei PIL. Non torno ulteriormente sulla questione PIL-misura del prodotto e PIL-prodotto, anche perché ho già spiegato ad nauseam e non mi pare il caso di continuare. D’altronde, se siamo d’accordo che il PIL di cui parla Pallante è solo la misura del prodotto, ma non il prodotto, a me sta benone: se ci tieni, diciamo pure che “PIL” vuol dire solo la misura, e il prodotto chiamiamolo allora Giovanna, Francesca o come ti pare; rimane il fatto che la distinzione merci/beni, così come l’ha impostata Pallante, non sta in piedi.

L’aumento del PIL dovuto al traffico, finestre di Bastiat a parte, si deve alle marce più basse che aumentano il regime di rotazione del motore e quindi il consumo. Per il resto, Simonetti usa toni più concilianti di quelli usati in Contro la decrescita: in quella sede il fatto che il PIL venisse considerato solo la ‘misura del prodotto’ era tale per cui “la decrescita ignora concetti economici fondamentali quali il significato di reddito e produzione” (pag. 26). L’avvocato romano ha anche presentato, su mia richiesta, le fonti da cui discenderebbe la distinzione del PIL ‘a’ e ‘b’; tra i diversi libri proposti sono riuscito a procurarmene uno: G.N.Mankiw, Macroeconomics, New York, Worth Publischers, New York, 2009. Vediamo come questo manuale spiega il concetto di PIL; per evitare qualsiasi accusa di parzialità, presento il testo originale attraverso degli screenshot:

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Finché il PIL (GDP in inglese) viene considerato “the total income of everyone in the economy”, ci può ancora essere spazio per l’insalata autoprodotta; ma nella seconda parte, dove si dice che “ogni transazione ha un compratore e un venditore”, è fuori di dubbio che il PIL riguarda esclusivamente gli scambi monetari. Ed è sempre del medesimo PIL di cui si parla, non ‘a’ o ‘b’. Mankiw prende in considerazione i ‘redditi figurativi’, basati su stime in quanto non contemplati in un normale scambio di mercato; ma l’autoproduzione non rientra in nessun caso:

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I “beni durevoli prodotti dalle famiglie” non sono inclusi nel PIL, e neppure le torte fatte in casa, sebbene talvolta possano rivaleggiare in bontà con quelle del ristorante.

Non sono riuscito a consultare le altre fonti proposte da Simonetti, ma credo non sia necessario farlo e che possiamo trarre le seguenti conclusioni:

  • Pallante e i decrescenti hanno capito benissimo che cosa sia il PIL. L’autoproduzione non rientra assolutamente nel PIL;

  • la distinzione PIL-a e PIL-b (PIL-prodotto e PIL-misura) è idiolettale di Simonetti, la si può inferire da una lettura molto parziale dei manuali di economia, si può proporre al pubblico dibattito ma non si può certo accusare chi non la segue di ignorare “concetti economici fondamentali quali il significato di reddito e produzione”;

  • Mankiw definisce il PIL “un indicatore imperfetto dell’attività economica” (quella che Simonetti vorrebbe far passare per PIL-a, contro l’intenzione dell’autore); imperfetto solo in teoria, dal momento che comprende tutte le attività su cui lo stato può esercitare imposizione fiscale.(1) La decrescita concentra la sua critica sul PIL perché, come vedremo, le attività che rientrano nel PIL solitamente prevedono cicli produttivi ecologicamente più impattanti, ma la filosofia di base della decrescita non cambia anche ammettendo di considerare reddito qualsiasi tipo di produzione. L’autoproduzione non è di per sé un valore positivo, lo diventa se – come nel caso dell’autoproduzione agricola – permette di ridurre l’impatto sul pianeta, altrimenti viene osteggiata. Nell’estate del 2013 ho realizzato una serie di articoli sul fenomeno dei makers (gli artigiani high tech) attentamente supervisionati da Giulio Manzoni, dai quali si evince che la diffusione di massa delle stampanti 3D per uso individuale aggraverebbe il problema dell’estrazione delle Terre Rare usate come magneti nei motori elettrici e provocherebbe nel complesso un maggior consumo di risorse. La nostra proposta in quel caso è contro l’autoproduzione individuale e a sostegno di forme di condivisione più simili all’industria tradizionale.

In un commento al sito del 23 dicembre, Simonetti ha provato a parare alle constatazioni in questo modo:

Pallante non ha “colpe”: semplicemente, nella misura in cui è convinto che spostando parte della produzione dal mercato all’autoconsumo, e quindi riducendo il PIL-b, si faccia qualcosa di rilevante per gli aspetti FISICI della produzione di reddito (che al massimo, nella sua prospettazione – anche se non nella realtà perché le cose sono più complicate – , potrebbe accadere se si riducesse il PIL-a), si sbaglia. Tutto qua. E’ tutto quel che ho scritto nel libro, a questo proposito. Non mi pare né una critica cavillosa, né oscura, né faziosa: dico solo che dalla teoria di Pallante non discendono le conseguenze che lui vorrebbe, perché si concentra su un aspetto (la misura del reddito) che è irrilevante, mentre lascerebbe tal quale l’aspetto che potrebbe esser rilevante (il reddito)..

Semplificando parecchio, Simonetti vuole sostenere che un’insalata è pur sempre un’insalata – un reddito – che venga prodotta fuori o dentro il regime di mercato. In realtà, qualità organolettiche a parte, Pallante non ha mai pensato che l’insalata autoprodotta fosse meno ‘materiale’ di quella della grande distribuzione, bensì che è completamente diverso il background che le porta a essere servite nel piatto. Si capisce benissimo dall’esempio dello yogurt proposta in La decrescita felice:

Lo yogurt prodotto industrialmente e acquistato attraverso i circuiti commerciali, per arrivare sulla tavola dei consumatori percorre da 1200 a 1500 chilometri, costa 5 euro al litro, viene confezionato al 95 per cento in vasetti di plastica, quasi tutti monouso, raggruppati in imballaggio di cartoncino, subisce trattamenti di conservazione che spesso non lasciano sopravvivere i batteri da cui è stato formato (pag. 17)

Imballaggi, trasporto e trattamenti di conservazione sono tutte spese che incrementano il PIL. Quindi uno yogurt è uno yogurt, ma quello industriale metaforicamente parlando è molto più ‘pesante’ del suo equivalente autoprodotto (entrano in gioco i concetti di ‘zaino ecologico’ ed ‘energia grigia’). Questo breve estratto conferma altresì che, a differenza di quanto sostenuto da Simonetti in Contro la decrescita e in Diritto di replica #1, Pallante concentra la propria critica sulla tecnica di produzione e non si limita a constatare se avviene o meno uno scambio di denaro.

Passiamo ora alla differenza beni/merci. Pallante ritiene che il combustibile impiegato in eccesso da una caldaia per riscaldare un edificio a causa del cattivo isolamento sia una merce non considerabile come un bene. Simonetti lo contesta attraverso questo esempio:

Se io compro del pesce e invece di mangiarlo tutto ne butto una parte nella spazzatura, lo sto senz’altro sprecando: ma perché dovrebbe derivarne che la parte che ho gettato è del tutto inutile (e dunque una merce-non bene) anziché utile proprio come la parte che ho mangiato (cioé una merce-che-è-anche-un-bene)?… Eppure è chiaro che due porzioni dello stesso cibo delle quali una viene mangiata e l’altra finisce nella spazzatura, come pure due parti di energia termica delle quali l’una finisce a riscaldare effettivamente una casa mentre l’altra viene inutilmente dissipata, sono identiche, perché ugualmente idonee a soddisfare gli stessi scopi… (pag. 17)

Il paragone è inconsistente: nel caso del pesce c’è la precisa volontà di rinunciare a un bene ancora utilizzabile, nel secondo caso lo spreco deriva da una mancanza tecnica che nel PIL verrà computata positivamente. Inoltre, mentre il cibo è un mezzo che coincide con lo scopo per il quale è designato (l’alimentazione), il combustibile della caldaia è un mezzo allo scopo di riscaldarsi. Mentre non si può fare a meno del cibo per nutrirsi, per la termoregolazione domestica l’optimum sarebbe una casa ‘passiva’ (ne sono già state progettate e realizzate alcune), capace di offrire temperature adeguate senza input energetici esterni.

La distinzione bene/merce di Pallante è funzionale ai ragionamenti dell’autore, ma si presta facilmente alle obiezioni di chi vuole astrarre i problemi concentrandosi sofisticamente sulle definizioni. A differenza del PIL, il concetto di ‘bene’ può assumere accezioni che esulano dall’economia e rientrano nell’antropologia e nel diritto, mentre i critici della decrescita orientano le loro obiezioni quasi esclusivamente sul piano economico, per cui quando è possibile conviene muoversi sul loro stesso terreno.(2) Pertanto, preferisco affrontare l’intera problematica basandomi sul concetto di crescita antieconomica, un’intuizione di Fritz Machlup ripresa da Ivan Illich e sviluppata successivamente da Herman Daly. Ecco come la spiega quest’ultimo:

Vogliamo credere che la crescita possa “curare la povertà” senza redistribuzione, e senza limitare la dimensione della nicchia umana nella creazione. Per mantenere questo stato illusorio, confondiamo due distinti significati del termine “crescita economica”… Che gli economisti possano contribuire a questa confusione è sconcertante, perché tutta la microeconomia è dedita a trovare la dimensione ottimale di una data attività – il punto oltre il quale i costi marginali eccedono i benefici marginali e l’ulteriore crescita sarebbe antieconomica. Ricavo Marginale = Costo Marginale è anche chiamata la “regola del quando fermarsi” nella crescita di un’impresa. Perché questa semplice logica di ottimizzazione scompare in macroeconomia? Perché la crescita della macroeconomia non è soggetta ad un’analoga “regola del quando fermarsi”?…

Eppure alcuni dicono che se la nostra misura empirica della crescita è il PIL, basato sulla compravendita volontaria di beni e servizi finali in liberi mercati, questo di per sé garantisce che la crescita consista sempre in beni, non in “mali” (gioco di parole in inglese “goods-bads”, ndt). Questo accade perché la gente comprerà volontariamente solo beni. Se di fatto comprasse un “male”, dovremmo ridefinirlo come bene! Abbastanza verosimile a come funziona nella realtà, che non è dissimile. Il libero mercato non mette un prezzo ai “mali” – ma ciononostante i “mali” vengono inevitabilmente prodotti parallelamente e in modo congiunto ai beni. E siccome i “mali” non hanno prezzo, il calcolo del PIL non può sottrarli – anzi, registra la produzione aggiunta di “anti-mali” (che hanno prezzo) e li conta come beni. Per esempio, non sottraiamo i costi dell’inquinamento come un “male” , anzi, aggiungiamo il valore della sua bonifica sotto forma di bene. Questo è un conteggio asimmetrico. In aggiunta contiamo il consumo di capitale naturale (esaurimento di miniere, pozzi, acquiferi, foreste, pesca, suolo fertile, ecc.) come se fossero redditi anziché prelievi di capitale – un colossale errore di calcolo. Di conseguenza, paradossalmente, il PIL, qualsiasi altra cosa possa misurare, è anche il miglior indice statistico che abbiamo per totale di inquinamento, esaurimento, congestione e perdita di biodiversità. (3)

Messa in questi termini la differenza tra le due insalate – quella industriale e quella autoprodotta biologicamente – si fa straordinariamente evidente. L’insalata industriale è stata seminata e cresciuta in un contesto di agricoltura ad alto input energetico, è stata trasportata per centinaia di chilometri e imballata; tutti elementi che nel PIL verranno conteggiati come ‘beni’.

Prima di chiudere vorrei anticipare un’obiezione tipica di Simonetti, quella secondo cui una miglior coibentazione degli edifici e in generale un uso più razionale delle risorse si potrebbe realizzare senza particolari problemi all’interno del contesto economico, politico e sociale attuale. Nulla di più lontano dal vero, purtroppo. Stefano Feltri, nell’articolo La decrescita totalitaria, pubblicata sul Fatto Quotidiano del 17 febbraio 2012, così commentava le proposte di Pallante in materia di risparmio energetico:

Certo, se fossi un ministro non assumerei Pallante come consulente se prima non mi stima l’impatto sul Pil e sull’occupazione delle sue idee, ma questo è un altro discorso.

Appena letto quest’articolo, mi venne in mente una frase di Baudrillard, secondo cui molte delle ‘disfunzioni’ e dei ‘beni negativi’ del sistema in realtà sono elementi fondamentali del suo funzionamento: l’acquisto di sostanze inquinanti procura redditto e occupazione a qualcuno, così come la lotta all’inquinamento. La casa mal coibentata, a prescindere che dissipi beni o merci, nel lungo periodo ‘fa girare’ l’economia meglio di quella ben isolata. Molti analisti sostengono che l’attuale ripresa economica americana sia da ascrivere, oltre a una massiccia immissione di liquidità da parte della FED, allo shale gas, il gas di scisto ottenuto attraverso la pericolosa e altamente inquinante tecnica di estrazione del fracking, che sta creando illusioni di indipendenza energetica. Un grave danno ecologico sta contribuendo alla riduzione del deficit e alla ripresa dell’occupazione.

Persino Simonetti, dalla sua prospettiva anti-decrescita, coglie alcuni problemi significativi:

In secondo luogo, se non compro un cespo di insalata, cioé se non spendo il denaro corrispondente, vuol dire che sto risparmiando, e allora (salvo casi marginali, come chi nasconde il denaro risparmiato dentro il materasso) la somma che risparmio, opportunamente incanalata attraverso il sistema bancario, servirà a qualcun altro per consumare o investire, e dunque si trasformerà in reddito, cioé in PIL (pag. 25)

Lo stesso problema si verifica con il cosiddetto ‘paradosso di Jevons’, tale per cui l’energia risparmiata attraverso l’efficienza tecnologica si traduce in una diminuzione di costi e quindi in un aumento generalizzato dei consumi: la società di mercato attraverso questi meccanismi neutralizza lo sforzo individuale, così come – ed è sempre Simonetti a spiegarlo nel libro – riesce a rendere più conveniente economicamente l’acquisto ex novo invece del riuso e del riciclo.

Scriveva Lord Keynes nel 1930:Per almeno altri cent’anni dovremo fingere con noi stessi e con tutti gli altri che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perché quel che è sbagliato è utile e quel che è giusto no. Avarizia, usura, prudenza devono essere il nostro dio ancora per un poco, perché solo questi principi possono trarci dal cunicolo del bisogno economico alla luce del giorno”. Tale ‘finzione’ è sicuramente proseguita molto più di quanto l’economista inglese potesse auspicare, è stata interiorizzata ed elevata al rango di verità di fede. La decrescita questo si propone: la creazione di un sistema economico guidato il più possibile da principi ispirati non da ‘ciò che è sbagliato’ ma da ‘ciò che è giusto’. E qui bisogna dar ragione a Simonetti, quando nel suo libro puntualizza che la radice del problema, fondamentalmente, è politica.

(1) Tutte le politiche basate sul rispetto di particolari valori del rapporto deficit/PIL (come quelle legate al cosiddetto Patto di stabilità) perderebbero senso se il computo del PIL si allargasse a settori sottratti all’imposizione fiscale.

(2) Simonetti non fa eccezione. Scrive a pag. 15 del suo libro: “Tra parentesi, è proprio qui che deriva l’annosa polemica contro la mercificazione dei più vari aspetti della vita indotta dal sistema capitalistico: la mercificazione è, in questo senso, precisamente l’eliminazione degli impedimenti allo scambio di beni” (pag. 15), dando per scontato che lo scambio avvenga esclusivamente in denaro. Per la stessa ragione accomuna insieme i primitivisti – cioé coloro che propugnano effettivamente il ritorno alla vita primitiva – agli antropologi che, come Sahlins, hanno riscontrato che le società primitive vivevano in una percezione di abbondanza, mentre quelle industriali di scarsità (parliamo di ‘crisi economica’, in riferimento all’epoca attuale, quando dati alla mano ci troviamo nell’era più ricca della storia umana).

(3) Daly in Jorgen Randers, 2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni, Edizioni Ambiente, Milano, 2012, pag.95-97

Fonte immagine in evidenza: http://www.forexinfo.it

1 commento

  1. Caro Igor,
    mentre ti leggevo mi è venuto in mente una figura “professionale” che incrementa fortemente il PIL: il ladro.
    Chi piu’ del ladro muove fatture e fa lavorare un mucchio di gente?
    Il ladro forza le serrature, rompe vetri, devasta gli interni, spesso sporca, sottrae oro, suppellettili…….
    Per contrastare il ladro servono porte blindate, sistemi di allarme, inferriate alle finestre, vigilantes privati, Polizia, Carabinieri.
    Se non ci fosse il ladro non servirebbe tutto questo. I miei nonni dormivano, in campagna, con la porta aperta. Nessuno rubava le cose degli altri perchè c’era rispetto coesione sociale, solidarietà.
    Oggi non c’è nulla di tutto questo e, se vuoi salvarti dal ladro, devi pagare, con una quota parte delle tue tasse, l’esercito di tutori dell’ordine. Devi pagare il serramentista che blinda le tue porte e finestre. Devi ricorrere all’elettrotecnico perchè ti installi sistemi a raggi infrarossi o allarmi acustici.

    Dunque il ladro merita una medaglia, perchè come fa “fatturato” lui lo fanno in pochi.
    E’ inevitabile concludere che, se il ladro non ci fosse, bisognerebbe inventarlo.
    Una società che appena appena si rispetti deve avere i suoi bravi ladri.
    Per inciso, l’organico delle cinque forze di Polizia (nazionale e locale) assomma, anno 2014, a 324.339 .
    http://it.wikipedia.org/wiki/Polizia_%28Italia%29

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