Va bene, ci siamo. Lo chiamano “Piano di Licenziamento Collettivo”. “C’è una procedura – hanno detto – adeguatevi”. Una delle società di navigazione più competitive a Napoli, quella per cui lavoro io, naufraga a causa di una scellerata politica d’investimenti e manda a casa quasi metà dell’organico. Un foglio di carta, una riunione in cui i dirigenti si mostrano contriti, le trattative sindacali e poi basta. Basta con tutto, con la tua vita così come l’hai condotta per un bel pezzo, con le piccole certezze di cui ti sei nutrita così a lungo.
Seduta alla mia scrivania, raccolgo i cocci dei miei anni dietro la tastiera. Apro i cassetti e fisso inebetita decine di fogli privi di senso, sterili nel contenuto allora come oggi. Accanto al telefono, interno 155, la foto di mia figlia piccola tra i fiorellini di carta e stoffa che abbiamo ritagliato insieme e che ho portato qui per sentirmi meno lontana da lei. E meno in colpa. Un computer, due monitor, un mouse pad eredità di una collega che andò via…le luci al neon, le gabbie in vetro di un open space, mentre Napoli sorride luminosa là fuori, sulla terrazza che si offre alla Riviera di Chiaia. Il caffè qui sotto e le passeggiate sulla Caracciolo durante la pausa pranzo, la libreria a due passi dove ci siamo spesso rifugiati in cerca di una quarta di copertina che ci facesse sognare, la via delle grandi firme dove puoi ammiccare alle vetrine solo pochi secondi per poi ridere di una ricchezza sfacciata che ti fa sentire a disagio, che non è tua: piccoli ritagli di una vita da impiegata che hanno messo su, giorno dopo giorno, un collage lungo quasi dieci anni.
Ma che ne sanno quelli in giacca scura e viso compassato, quelli che hanno deciso di stravolgere tutti i miei equilibri, di cosa significa lasciare questo posto. Che ne sanno loro delle difficoltà per arrivare qui dalla periferia tutte le sante mattine su mezzi pubblici fatiscenti, la sveglia alle 5.30, le corse affannose per nemmeno mille euro al mese; che ne sanno dei sensi di colpa di una madre che si interrogava ogni giorno su cosa fosse meglio per la sua famiglia, del primo dentino che non ha visto cadere, delle notti in bianco e di una manina paffuta che la salutava al mattino sulla porta di casa, il cuore stretto mentre si allontanava.
Loro non capirono di certo perché piansi quando mi dissero che, dopo sei mesi di prova, mi avrebbero assunto a tempo indeterminato. Se cominci a 18 anni a darti da fare, ti paghi gli studi da sola, ti pieghi a qualunque tipo di lavoro accettando ogni forma di contratto (quando c’è) e copri distanze siderali per pochi maledetti soldi, il “posto fisso” è un traguardo raggiunto per grazia ricevuta. In Campania la disoccupazione non è una statistica: è il veleno in un pane che non c’è. Dopo anni di durezza e sacrifici, diventi sorda alle tue aspettative. Ti accontenti. Qualunque cosa ti possa garantire una ragionevole tranquillità a fine mese sfratta l’ansia che si era scomodamente fatta di casa tra i tuoi pensieri e con la quale hai vissuto come con una petulante coinquilina.
Poi qualcuno decide di “tagliare” e “le forbici saranno grandi”. E’ bastato un tratto di penna per cancellare la mia vita e me. È straordinaria la potenza propulsiva di certe Mont Blanc: un lancio da Cape Canaveral verso l’ignoto del Jobs Act. Solo che, Houston, abbiamo un problema. Non è liberalizzando il mercato che si troverà più lavoro, semmai combattendo la corruzione che frena gli investimenti in Italia; non è rendendo facili i licenziamenti che le aziende torneranno a fare impresa, semmai abbattendo la burocrazia e la pressione fiscale che strangola i piccoli: 45 contratti di precariato su 47 sono ancora lì e le tutele che il governo Renzi dice “crescenti”, in realtà, ci catapultano indietro di 50 anni. Non eravamo “risorse umane”? Non eravamo il vero capitale su cui investire? Un donna di 43 anni, a Napoli, non lo è. Non ho bisogno di consultare i dati Istat per sapere che ciò che mi aspetta è probabilmente un lavoro squalificante a poche centinaia di euro al mese e, in proporzione, per troppe ore di lavoro.
Mi guardo allo specchio e mi scopro invecchiata nell’attesa di un sabato che non arriva mai, anni trascorsi tra un ventisette del mese e l’altro, il senso del sacrificio ad oscurare quello della soddisfazione personale. Tornassi indietro, lo rifarei. Ho famiglia, certo che lo rifarei. Ma stavolta ho deciso: ricomincio da me. Non ho sogni all’americana da realizzare, solo un’immagine di me cui assomigliare di più. E se il futuro mi viene negato, forse è al passato che devo volgere lo sguardo.
In molte vite c’è spesso un filo rosso, a volte impercettibile, che lega tutte le esperienze e di cui bisogna scoprire l’origine. Il mio si dipana da un fazzoletto di terra, da un cognome che vuol dire “roccia”, da una pianta di rosmarino che sistemai sulla tomba di mio padre (strappato alla sua Sardegna) perché le radici si diramassero delicate nelle mie e nelle sue profondità. Perciò è lì che sento di dover tornare, da dove sono venuta: torno alla mia terra bellissima e complicata, alla piana Felix che ora piange umiliata, alla polvere e al fertile fango in cui scorgo anche l’altra mia terra, l’isola aspra di cui sarò per sempre innamorata. E io l’amerò da morire, questa terra piena di significati, perché non ho intenzione di mancarle di rispetto sfruttandola per i miei scopi. La via dell’agricoltura, la mia via, è contadina, non industriale. Un orto va coltivato con la pazienza che merita e la gramigna estirpata a schiena bassa. Non è la ricchezza materiale che desidero, solo dare un senso al mio lavoro quotidiano: voglio rientrare in casa stanchissima, ma con gli occhi pieni di meraviglia per la vita che mi cresce tra le mani e voglio, fermamente voglio, fare dell’attesa un valore e delle stagioni il mio ritmo naturale.
Ancora seduta alla mia scrivania e dietro la tastiera, accanto a documenti inutili e ad un telefono che non squilla più, i pezzi adesso li ho messi insieme davvero. Non sono più cocci da raccattare, come quelli sparsi qui in ufficio tra modellini di navi e bandiere straniere, ma tessere di un puzzle. So bene che non sarà facile, ma, in fondo, che cosa lo è stato mai nella mia vita? Preferisco progettare un sogno, battermi per dargli corpo, che lasciarmi andare al pessimismo e alla paura.
Mi si butta in mare aperto, ma non tornerò a navigare a vista. Avanti tutta: oggi, la rotta, la decido io. Ora so dove brilla la mia Stella Polare. Una stella che, guarda caso, tutti chiamano anche il “Grande Carro”.
Molto spesso, su siti di decrescita o affini, si legge di gente che invita a vivere l’eventuale perdita del lavoro per crisi (vera o come scusa per incapacità manageriale) quale possibilità di riscatto. I critici fanno sempre notare che simili inviti vengono sempre girati ad altri o provengono da persone che hanno già ottenuto riscatto. Miriam ci propone invece una riflessione a freddo, immediata e senza la sicurezza di sapere già come sono andate le cose.
Oltre all’augurio più sentito affinché possa questa situazione davvero trasformarsi in riscatto, posso solo pensare a quanti, nella stessa situazione, sprofonderebbero della desolazione di sentirsi ‘perdenti’, nella più totale mancanza di autostima in quest’epoca di esaltazione del ‘merito’.
Grazie Igor, ho bisogno di tutti i vostri auguri e della vostra vicinanza…perchè so che ciò che ho davanti è un percorso difficile. Tuttavia, per la prima volta, sento mia la vita.
Qualche anno di riflessioni sulla decrescita, credimi, hanno avuto il loro peso: è leggendo gli articoli qui, i tuoi in primis e quelli degli altri, che ho cominciato a respirare. E sono cresciuta in questo respiro perchè adesso vado a pieni polmoni. Respirando così, ho già sicurezza di essere sulla strada giusta.
Bellissimo articolo, Miriam.
Mi sono commosso.
Perdere il posto di lavoro è un dramma che riguarda molti.
In pochissimi casi la “reazione” è motivata e composta come la tua. Tu scrivi: “E se il futuro mi viene negato, forse è al passato che devo volgere lo sguardo.” Da questa frase traspare un progetto che, per la verità, non appare come una fuga all’indietro ma come una lezione di vita: nel passato possiamo riconoscere i nostri valori, le essenzialità autentiche che sostanziano le ragioni stesse della nostra vita.
Non sono uno scoglio a cui aggrapparsi nella burrasca ma oasi di freschezza, di serenità in cui riscoprire noi stessi e le cose davvero importanti: la famiglia, gli affetti, la vita di relazione, l’amore per nostra madre Terra.
Quando si perde il lavoro è come se il mondo ci crollasse addosso.
Qualcuno non ce la fa e cade in preda alla disperazione e reagisce in modo scomposto.
Per pochissimi, e tu fra questi, la perdita del lavoro ha significato ripensare una visione “altra” e “alta” della vita e delle cose che contano.
Non importa quanto sarà dura, quanto sarà faticoso procacciarsi da vivere.
Conta che non sarà pane condito da lacrime salate.
Vedrai , Miriam, quanto ti saranno care quelle quattro foglie di insalata che vedrai crescere, che monderai dalla gramigna e gusterai condite con l’olio buono della tua terra.
In questi attimi, che noi interiorizziamo e li facciamo eterni, ci rendiamo conto che il poco è tutto e questo ci rende felici.
Un abbraccio, Daniele
Grazie Daniele…sei tu che commuovi me. E’ stato giusto oggi il giorno dei saluti in ufficio e non è stato facile lasciare le persone – loro, sopra ogni cosa – con cui ho diviso la quotidianità.
Come scrivevo rispondendo a Igor, il percorso di decrescita è stato fondamentale per diradare le nebbie della mia vita. Oggi più che mai.
E difatti, torno a casa, accendo il pc e trovo i vostri incoraggiamenti: dirti che cosa significano per me in queste ore è del tutto impossibile.
Ti abbraccio. E forte forte.
Miriam,
Ho pianto leggendo il tuo articolo. Sembra stessi decrivendo la mia storia, nelle dinamiche, nei sentimenti, nell’età. È un intero mondo che crolla del quale- molto spesso- non ne vedi una versione alternativa, per abitudine, mancanza di tempo, dovere.
Poi la frustata a freddo che ti lascia senza fiato e pian piano il bisogno di riprendere in mano la tua vita e la tua dignità; ti guardi indietro e sembra tutto così vano, superfluo. Hai corso per anni dietro un bisogno che ha generato altri bisogni.
Tornare alle origini nel mio caso lo definirei “tornare a riflettere”, capire chi sei e di cos’hai davvero bisogno, cosa di ciò che avevi è davvero necessario e vitale; la lista si riduce in pochissime voci, quelle vere.
Si riparte da li, con una consapevolezza diversa di noi stessi e di ciò che abbiamo intorno, con valori che avevamo sopito per esigenza; allora si che si inizia a vivere davvero! Ti accorgi che le stagioni cambiano, impari che le zucchine non nascono davvero tutto l’anno, scopri il piacere di farti il pane in casa e che ha tutto un altro sapore, rivaluti l’importanza della comunità e del vero lavoro di gruppo.
È una descrizione molto intelligente la tua, soprattutto un’alternativa mentale che fa riflettere, perché la soluzione alla “catastrofe” c’è, con un po’ di autoanalisi e di coraggio. Magari poi quando raccoglierai i tuoi pomodori, quelli che sanno di pomodoro vero, ti accorgi che ciò che definivi come la fine è soltanto l’inizio di qualcosa di molto più sno ed appagante. Grazie.
Cara Barbara,
siamo in tanti ad aver dovuto cambiare vita: mi fa piacere che tu abbia sentito l’esigenza di scrivermi e di condividere con me la tua esperienza. Ne ho bisogno.
Ad analizzare il mio percorso, l’unica cosa vera che è venuta fuori è che la bicicletta cammina solo se pedaliamo. E così, mi sto rimboccando le maniche.
Sono anche molto fortunata però, perchè ho tante persone che mi stanno accanto e un pezzo di terra solida che sorreggerà i mie passi.
E grazie davvero per essere stata anche tu insieme a me: ti ho sentita vicina.
non ho risposte da darti , tu sei forte ritroverai la tua vita più forte di prima , le tue parole sono troppo emozionanti le lacrime scendono , non vedo neanche ciò che scrivo , ma sono orgogliosa di te , sai che ti voglio bene quando vuoi io sono qui se solo potessi dare un senso alla tua vita , ti regalerei la mia, un abbraccio grande
Sei troppo dolce!!!! Ci vediamo presto!!!
La Sardegna mi manca da star male.
Vita significa trasformazione, la si puo’ vivere aggrappati tutta la vita allo stesso scoglio filtrando l’acqua che passa oppure ci si puo’ far trasportare dalle correnti godendo della vista di cio’ che ci viene presentato davanti oppure si puo’ nuotare con le proprie pinne, volare con le proprie ali e decidere su quale terreno fermarsi a coltivare se stessi in totale liberta’.
A pochi capita la fortuna di doversi staccare dallo scoglio.
Ancora meno sono quelli che decidono di non seguire le correnti, ma quelli che lo fanno sono i piu’ soddisfatti perche’ trovano se stessi.
Caro Giulio, “doversi” staccare dallo scoglio una fortuna? Decisamente si, almeno nel mio caso.
Tra mille preoccupazioni, non avrei mai lasciato il certo per l’incerto se non vi fossi stata costretta.
Adesso che sento la vita scorrermi tra le mani, proverò a fare come dici tu…a non seguire le correnti e a fare solo cose “buone”.
Grazie mille, ho apprezzato moltissimo -davvero – il tuo commento.
Ti auguro tanta fortuna nel tuo nuovo camino,mi ha fatto emozionare la tua forza,le mamme sono cosi per amore diventano roccie!Un grande abbraccio .Dolores,Istria
Grazie Dolores!
E’ vero, le mamme sanno sempre trovare il coraggio. Ti abbraccio anch’io!
Miriam, bellissimo il coraggio , la forza che emana dalle tue parole non è eco vuota.
Hai capito che l’essenziale del vivere è fatto da poche cose irrinunciabili:
una è vivere in libertà, libri dentro intendo, vivere al di fuori delle gabbie in cui ci abituano o ci obbligano a stare pena la cancellazione di noi individuo
l’altra è la riscoperta della tua terra , delle radici, che come già immagini daranno frutti veri, sudatoi ma veri.
Cosa importa se conquistati con fatica se lo spirito e la mente sono ” liberi”?
Sono con te Miriam in questa avventura che si apre per un avvenimento apparentemente negativo: licenziamento. Ma forse ti ha aperto gli occhi e dato il coraggio di fare quella anilis troppo rinviata.
In bocca al lupo e facci sentire come vanno bene le cose nella tua terra, con le tue braccia, col tuo cuore generoso e vero.
Silvana
errata corrige:
libri= liberi
sudatoi= sudati
analis=analisi
Silvana…grazie, di cuore.
Credo che la libertà non sia una conquista propria dei tempi brevi, ma un esercizio lento e difficile. Ho avuto 4 mesi, quelli delle trattative sindacali, per assorbire il colpo del licenziamento – è comunque, come si può immaginare, anche una difficoltà economica da affrontare – e 2 anni per “coltivare” la decrescita.
Se adesso considero la perdita del lavoro come un’opportunità, lo devo al lento cambiamento che mi sono consentita di avere e a cui ha contribuito anche ciascuno di voi. Quindi i tuoi auguri mi sono molto cari. Grazie di nuovo!