Perché serve la crescita (e tu servi a lei)

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2001

L’enigma della crescita, scritto dal sociologo Luca Ricolfi, non rientra tra i libri che consiglierei per comprendere le reali dinamiche che influenzano la società, rappresenta però un ottimo manifesto dei capisaldi ideologici dominanti, quindi, se letto nella maniera opportuna, può rivelarsi a suo modo significativo. Emblematicamente nell’opera, dopo più di cento pagine illustranti i meccanismi che favorirebbero o meno la crescita economica, al capitolo ‘Che fare?’ Ricolfi sente la necessità di chiarire per quali ragioni essa dovrebbe essere ancora auspicabile, rendendosi forse conto della piega autoreferenziale che stava prendendo tutto il discorso nei capitoli precedenti (specialmente dove si lamenta del freno opposto dal benessere crescente, quasi fosse meglio impoverire la società per consentire a tutti i costi l’aumento esponenziale del PIL). Il sociologo riporta quattro motivazioni, che riporto e commento.

Il primo, ovvio, argomento pro-crescita è che molte società avanzate sono ancora lontane dagli standard di vita delle società arrivate, che guidano la classifica dei paesi OCSE: giusto per dare un’idea, nel 2013 il reddito dei tre paesi OCSE meno ricchi, ossia Messico, Turchia e Cile, era circa 1 / 4 di quello della Norvegia, il paese più ricco dopo il Lussemburgo.

Argomentazione etica apparentemente banale e inattaccabile per le sue ‘alte’ finalità morali. Tuttavia, leggendo tra le righe si può cogliere il rifiuto di mettere in discussione “gli standard di vita delle società arrivate” (invece che ‘alzarsi’ Messico, Turchia e Cile non potrebbero ‘abbassarsi’ Norvegia e Lussemburgo?) e per farlo bisogna ovviamente coprirsi entrambi gli occhi riguardo ai limiti fisici del pianeta.

Il secondo argomento è che alcuni paesi, in particolare i PIGS mediterranei, sono costretti a crescere semplicemente per evitare il fallimento. Se non vogliono fallire e precipitare nella povertà, devono pagare i loro debiti, ma l’unico modo per pagarli è tornare a crescere.

Dopo le petizioni di principio pseudo-idealistiche, ecco una motivazione pragmatica, la quale, come gran parte delle asserzioni ideologiche, si sforza di presentarsi asettica e oggettiva. Infatti, si dà per scontato 1) che non ci sia da discutere sulla legittimità della situazione debitoria di PIGS e altri paesi a rischio insolvenza 2) che con la crescita sia possibile ripagare il debito. Rimando a un interessante contributo di Andrea Fumagalli per quanto concerne il punto 1) e a un articolo di Aldo Giannuli per il 2)

Il terzo argomento è che anche nelle società più ricche esistono sacche di povertà e altri gravi problemi sociali che si potrebbero affrontare assai meglio se il reddito nazionale crescesse ancora.

“Assai meglio” per chi? Lo scopriremo tra poco.

Il quarto e ultimo argomento è che, senza crescita, le tensioni sociali rischiano di diventare drammatiche. Se la torta del reddito nazionale non aumenta, la vita di un sistema sociale diventa un gioco a somma zero: non si può migliorare la propria condizione senza peggiorare quella di qualcun altro. Il che, in sostanza, significa che il nucleo dell’azione politica diventa la redistribuzione del reddito: più arbitrio dei governanti nell’allocazione delle risorse, meno libertà per individui e imprese. Di qui tensioni sociali, invidia di classe, aumento dei conflitti interni. Nessuna società moderna, finora, ha ancora imparato a convivere con un ammontare di risorse che resta costante nel tempo, o addirittura si restringe ogni anno.

A suo modo, questo paragrafo è un capolavoro dialettico, a partire dalla rutilante chiosa finale: il pianeta Terra per definizione dispone di un ammontare di risorse limitato, effettivamente però tutte le società moderne hanno ragionato come se fossero infinite, un po’ come se avessero creduto alle favole. Inoltre, Ricolfi ammette implicamente l’esistenza di un problema – la disuguaglianza – ma si preoccupa di presentare a tinte fosche gli interventi per porvi rimedio (“più arbitrio, meno libertà”); il concetto di fondo è la necessità della crescita per rendere più accettabili i dislivelli sociali e, conseguentemente, mantenerli il più possibile inalterati. In presenza di alti tassi di crescita, la massa dei ricavi consente guadagni ingenti anche in presenza di saggi di profitto tendenzialmente decrescenti, permettendo una redistribuzione del reddito nazionale utile per tamponare i peggiori gironi infernali del capitalismo, coniugando idealismo e praticità: basti confrontare la differenza tra i livelli di disuguaglianza dei tempi del boom economico postbellico con quelli delle vacche magre attuali, dove si urla alla fine della recessione per un +0,2%.

 

Indice Gini Italia nel tempo (1=massima disuguaglianza; 0=massima uguaglianza)

 

Ne La società dei consumi, Baudrillard aveva di fatto riproposto la medesima visione di Ricolfi svelandone però l’essenza di strumento di dominio:

Tutto ciò impone un’altra visione della crescita. Noi non diremo più come chi ne è entusiasta: “La crescita produce abbondanza, dunque uguaglianza”, non assumeremo neppure il punto di vista estremo ed opposto: “La crescita è produttrice di disuguaglianza”. Rovesciando il falso problema: la crescita è fonte di uguaglianza o di disuguaglianza? Noi diremo che è la crescita stessa ad essere funzione della disuguaglianza. È la necessità per l’ordine sociale ‘inegualitario’, per la struttura sociale del privilegio, di conservarsi, che produce e riproduce la crescita come elemento strategico.

Le riflessioni degli apologeti della crescita possono aprire importanti orizzonti intellettuali ai decrescenti, per molti versi non inferiori ai concetti di un Latouche o un Pallante (molti dei quali, si direbbe, nascono spontaneamente dalla decostruzione del pensiero imperante). Indicano infatti che, alla centralità della tematica ecologica, si accompagna la questione della lotta alla disuguaglianza (in stile Robin Hood, però, non della macroeconomia keynesiana – rimando il lettore a un’ottima analisi di Jacopo Simonetta) e della sostenibilità del debito, tematiche spesso ingiustamente sottovalutate o, all’opposto, eccessivamente enfatizzate (il ‘vero problema’), talvolta addirittura usate per svilire l’urgenza dell’allarme ambientale. Se siamo capaci di elaborare una ragionevole gerarchia di priorità, si prospettano nuove sinergie e alleanze.

Fonte immagine in evidenza:The Conversation

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