Per un’ecologia integrale

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Edwin Carpenter, nel suo saggio “Civilization: Its cause and cure”, pubblicato nel 1889, scrisse in modo provocatorio che la civiltà è una specie di malattia attraverso cui la nostra specie deve passare, come i bambini passano per il morbillo o la pertosse, per raggiungere poi una condizione più sana.
Riferendo la parola malattia all’intero organismo sociale, l’attivista e scrittore inglese sosteneva che l’unica cura possibile era quella di superare l’idea di civiltà che ci siamo fatti, per muoversi in direzione di un ritorno alla natura e alla comunione della vita umana. Da parte sua, Henry David Thoreau non mancò di definire come essere umano “embrionale”, colui che accetta acriticamente quanto gli viene proposto dalla cultura dominante e che si adatta a vivere conformemente a quanto la sua condizione sociale prevede senza mai svilupparsi in modo compiuto. In “Walden”, uscito nel 1854, sul tema dei complicati rapporti tra gli esseri umani e della sostanziale insoddisfazione provocata dalla civilizzazione che ha imposto un progressivo allontanamento dal contatto con la natura, scrisse: “Non ci può essere nessuna oscura malinconia per chi vive in mezzo alla natura e ai suoi sensi sereni. Non ci fu mai tempesta, per quanto violenta, che non fosse musica eolia a un orecchio sano e innocente.”
Nel 1864, a proposito della tendenza della nostra specie alla distruzione, nel suo “Man and Nature”, il geografo George P. Marsh affermò quanto segue: “Ovunque egli posi il piede, le armonie della natura si cangiano in discordia. Le proporzioni ed i compensi che assicuravano la stabilità delle disposizioni esistenti vengono rovesciate. I vegetali e gli animali indigeni vengono estirpati e sostituiti da altri di origine straniera, la produzione spontanea è impedita o limitata e la faccia della terra è interamente spogliata, o coperta di una nuova e forzata vegetazione e di estranee razze di animali… le disposizioni naturali, una volta disturbate dall’uomo, non vengono restaurate finché egli non abbandoni il terreno e lasci libero campo alle forze riparatrici… le devastazioni commesse dall’uomo sovvertono le relazioni e distruggono l’equilibrio che la natura aveva posto fra le sue creazioni organiche e inorganiche… la ridurrà a un tale stato di produttività impoverita, di superficie
sconquassata, di eccessi di climi, da far temere la depravazione, la barbarie, e forse
anche la distruzione della specie.”
Le osservazioni e la lungimiranza di questi autori, che indipendentemente l’uno dall’altro sono appartenuti al fluire del nuovo pensiero liberale e libertario che è sorto nella seconda metà del XIX secolo e che solo più tardi si è diffuso oltre i paesi di lingua inglese, rappresentano ancora oggi una solida base scientifica e filosofica, per chi vuole addentrarsi nella comprensione di che cosa debba intendersi per Ecologia Radicale o, come qui la definirò, Ecologia Integrale. Se da un punto di vista storico-enciclopedico, l’Ecologia Integrale accoglie i contributi offerti dall’Ecologia Profonda, dall’Ecologia Sociale, dal Bioregionalismo, dall’Ecofemminismo, dal Panteismo, ecc., risulta complicato e perfino superfluo, affermare se e in che misura si possa considerare più affine all’uno o all’altro sistema di pensiero.

Di certo, a strutturarne l’ossatura concettuale concorrono diverse e fondamentali idee, teorizzazioni e impostazioni gnoseologiche.
Tra queste, ad esempio, l’idea centrale che Aldo Leopold ha espresso nella sua Etica della Terra ricordando che se l’individuo è membro di una comunità costituita da parti interdipendenti va da sè che i confini di questa comunità necessariamente si estendono per includere il suolo, le acque, le piante e gli animali, ovvero la Terra nel suo insieme. Una visione che Arne Naess ha ulteriormente sviluppato insistendo sul processo di identificazione tra l’essere umano, le altre specie viventi e l’ambiente abiotico naturale, che è indirizzata a comprendere la realtà dell’intreccio relazionale in cui l’altro diventa parte di me mentre io divento parte inscindibile dell’altro, all’interno di un mondo in cui divengono mobili e sempre più ampi i confini di ciò che realmente siamo. Questa idea forte di continuità, di non dualità, di non frammentazione, si contrappone in modo essenziale a quanto il dogmatismo della fede meccanicista e antropocentrica è riuscito ad imporre fino ad oggi attraverso l’imposizione del “dominio egoistico”, del “mercato prima di tutto” e con
l’affermazione di una organizzazione sociale che in larga parte è stata capace di assorbire e di attenuare anche i principali moti per la difesa dell’ambiente.
Muovendo dai presupposti della centralità del rapporto relazionale e dell’indentificazione con la manifestazioni della natura, ciò che connota il pensiero dell’Ecologia Integrale è l’idea che il cosiddetto ambientalismo “riformatore” con le sue ipotesi di sostenibilità comunque associate alla crescita economica infinita che si regge sulle regole e sulle priorità del sistema neolibersista, sia da rigettare in toto.
Non c’è niente di sostenibile, nel senso pieno del termine, in una società che fa girare per strada auto elettriche ma continua a provocare ferite mortali alle foreste, agli oceani, agli esseri umani che vivono in condizione di sofferenza e marginalità. Come ha ben scritto Guido Dalla Casa, l’unico tipo di sistema che possiamo definire sostenibile è quello che può durare per un tempo indefinito senza alterare in modo apprezzabile l’evoluzione del sistema più grande di cui fa parte. Sistema, di cui fa parte la specie umana.
Questa effettiva coincidenza tra “ecologia superficiale” come l’ha definita Naess e “ambientalismo capitalista” nella versione di Bookchin, pone in evidenza come non vi sia futuro dentro una logica che non pone veramente in discussione le origini della crisi che stiamo vivendo.

Il “male” che colpisce indistintamente natura e umanità (nella sua componente più debole), ha dunque un volto e un nome e se l’impostazione dualistica e antropocentrica dello pseudo-pensiero prevalente ne costituisce la fonte, il mercantilismo e la sua deleteria riduzione della vita a puro “effetto materiale” ne rappresentano l’epifania. E’ importante comprendere che il punto di vista dell’Ecologia Integrale ribalta completamente le normali modalità con cuiapprocciamo l’esistenza quotidiana e in sostanza interpreta ogni tipo di relazione in termini non gerarchici per il semplice fatto che non si possono comprendere le dinamiche naturali utilizzando una logica gerarchica. Qui parliamo di circolarità, di rete, di scambio, non di piramidi e di vertici.
Ma l’attuale vitalità dell’Ecologia Integrale, oltre al suo robusto impianto concettuale trova sostegno concreto e una forte spinta innovativa nei comportamenti che oggi connotano una/un ecologista integrale (d’ora in poi EI). Con la premessa che ogni definizione è sempre limitante e quindi mai esauriente, dirò comunque che la visione e la pratica di chi si riconosce nei principi dell’EI, si fonda sulla elaborazione razionale, sulla percezione intuitiva e sul sentimento, che il distacco tra l’essere umano e la natura è da considerarsi la causa prima del malessere esistenziale che si manifesta a livello individuale e collettivo. Questo speciale tipo di sofferenza, intesa come imposizione, ingiustizia, insoddisfazione, distruttività, che ha raggiunto il suo apice nel corso degli ultimi due secoli, è in primo luogo un fatto culturale. Se in effetti ogni cultura umana è anche definibile e in qualche modo “misurabile”, per l’intensità e per le modalità con cui ha generato “il malessere esistenziale” di chi ne ha fatto parte, appare evidente come l’assoluta specificità e l’alto grado di violenza che caratterizza il tempo presente sia direttamente collegabile al potere fornito dalla tecnologia.
Il distacco dalla natura, l’attività perturbante delle macchine e il senso di straniamento che ne derivano, negli ultimi decenni è stato drammaticamente rinforzato da una straordinaria concentrazione del potere politico-economico-finanziario, che, come mai in precedenza, ha realizzato a carico dei singoli e tra le masse, le condizioni di una sudditanza generalizzata e apparentemente “senza via d’uscita”. Il tema, già noto ai movimenti di contestazione sociale degli anni ’60 e ’70 del XX secolo e in qualche modo “decaduto” nei decenni successivi, si è ripresentato con forza all’inizio del nuovo millennio sotto forma di nuove riflessioni, idealità ed esperienze comunitarie. È in questo nuovo scenario, internazionale come il totalizzante processo di globalizzazione a cui si oppone, che si muovono le/gli EI.
È in questo solco che germina la convinzione che prendere posizione contro una “civilizzazione” che nella sostanza privilegia esclusivamente la sfera economica, la gerarchia ed il bruto materialismo, non solo sia utile ma possibile e necessario.
Al di là delle suggestioni ispirate dall’idea di un primitivismo che suggerisce un ritorno totalizzante alla natura e che può pur sempre essere una scelta e una risposta individuale, oggi, la pratica di un ER si sostanzia soprattutto in azioni che hanno lo scopo di contrastare il sistema dominante, di sganciarsi da esso, di non collaborare con l’orrido principio del “business as usual” sperimentando modalità intelligenti per stare in equilibrio con sé stessi rispettando l’equilibrio della vita sul pianeta.
Adottando uno stile di vita eco-centrico, votato alla semplicità volontaria, comunitario ed egualitario, ed essendo consapevole che le proprie scelte hanno un effetto disgregante nei confronti del modello utilitarista che si è affermato pressochè ovunque, l’EI dimostra di avere ben chiaro il contenuto di violenza presente nell’idea stessa di merce prodotta per il mercato globale.
La questione, come posta da E. F. Schumacher e più recentemente da Giorgio Nebbia, è quella se il progresso umano sia da considerarsi necessariamente legato al possesso di merci e di beni materiali che di necessario non hanno niente e che sono concepiti per consumi artificiosi, come sostituti di appagamenti psicologici o sessuali e che recano le “stimmate” del loro impatto ambientale e dello sfruttamento del lavoro.

Se si condivide l’idea che questa “violenza materialistica delle merci” rappresenta il cuore del problema, ecco che per l’EI le scelte in campo alimentare, energetico, economico e sociale, diventano azioni dapprima personali e poi collettive, frutto di un’etica e di una visione ben precisa. Tali scelte, indicano il maturare di un percorso di consapevolezza circa la propria effettiva posizione nel mondo e dichiarano la volontà di opporsi concretamente al modello dominante.
In quest’ottica, il vegetarianesimo, il veganesimo, l’abbandono dell’uso dei combustibili fossili, l’autoproduzione e la produzione locale e condivisa, il rifiuto di un lavoro ad alto impatto ambientale e sociale come ad esempio quello in una fabbrica di pesticidi piuttosto che in una d’armi, il ricorso alla cooperazione e all’autorganizzazione, affermano per l’EI la volontà di uscire dalla logica produttivistica e dalla abitudine a utilizzare le persone, le risorse e i beni naturali con finalità unicamente speculative.
Nel fare ciò, ovvero nella sperimentazione di un’esistenza “Low living, high thinking” come avrebbe detto H. D. Thoreau, l’EI agisce direttamente tramite le proprie azioni quotidiane e mediante campagne di denuncia, di controinformazione o di boicottaggio.
Ma chi pensa che l’EI promuova o sia indulgente con l’uso della violenza è in errore. L’EI si oppone ma non cerca lo scontro, non ha niente a che fare con chi scende su questo piano e con chi asseconda/giustifica l’azione violenta. Al contrario, l’EI persegue una logica inclusiva pronta a dare accoglienza a chi chiede di capire, a chi si affaccia con attenzione ad un percorso di vita ancora poco frequentato che è fatto di coerenza profonda, di senso di responsabilità universale.
Ciò a cui aspira l’EI è l’integrazione tra le proprie pratiche e le proprie convinzioni, una realizzazione del sè che si identifica con il tentativo, ed il piacere, di vivere in armonia con la natura in un ottica di non separazione ma secondo un costante senso di unità. Ecco ciò che giustifica l’appellativo “integrale”.
Va da sè, che per l’EI un punto di riferimento pragmatico è l’idea del Satyagraha concepita da Mohandas Karamchand Gandhi come azione per “l’insistenza della verità o forza della verità” secondo il principio dell’Ahimsa in quanto forza distinta e contrapposta alla violenza, che si esplica mediante una pratica e una lotta priva di danneggiamento e con la prassi della disobbedienza civile in cui vi è identità tra fine e mezzo. In effetti, se vi è qualcosa di rivoluzionario in un EI è proprio questo, l’identità tra fine e mezzo.
E’ infatti troppo semplice maledire un simbolo e scagliarsi con violenza verso qualcosa o qualcuno e subito dopo tornare ad una esistenza che non osa, nel concreto, mettere veramente in discussione le fondamenta di un sistema che giorno dopo giorno si regge sullo sfruttamento di un gran numero di esseri umani e di altri animali, sulla predazione delle risorsi naturali e che demolisce le basi biologiche della vita su questo pianeta.
Il gesto iconoclasta che per qualcuno può avere un rilievo comunicativo, maschera in realtà una incapacità funzionale, quella di guardarsi dentro senza finzioni e di trovare il coraggio non per il gesto fine a sè stesso ma per organizzarsi secondo un modello di vita strutturalmente diverso.

Quello di cui stò parlando è un percorso che non si compie in breve tempo, che è pure incerto ma che non necessariamente coincide con una sorta di rinuncia monastica perché l’EI ha interesse verso la convivialità. Piuttosto, ciò che definisce il sentiero del cambiamento è la capacità di saziarsi nella semplicità, nel contatto costante con la natura, nella trasparenza dei rapporti, provando a sentirsi soddisfatto cercando di costruire buone relazioni, sapendo che il cambiamento passa attraverso la creazione di una nuova e forte identità culturale e quindi attraverso il rinnovamento della comunità.
In questo senso, l’EI rifiuta il mercantilismo non i beni essenziali, prende le distanze dall’antropocentrismo ma non dall’umanesimo, non rinnega ciò che costituisce diritto ad una esistenza dignitosa ma allarga il concetto di diritto e la pratica della compassione agli animali e all’ambiente naturale nella sua totalità e si mette alla ricerca di un convivenza con la “Pacha Mama”.
Esiste infatti un’antica e densa tradizione al femminile, talvolta poco codificata ma straordinariamente ricca, che lungo linee matricentriche ha da sempre posto una primaria attenzione al rapporto con la “terra madre”: così nelle culture ancestrali, nelle ritualità secolarizzate, nelle pratiche familiari e in storie come quelle di Julia Hill, assunta alle cronache per aver dimorato 738 giorni sopra una sequoia gigante in segno di protesta contro il taglio di una antica foresta o come l’esperienza di Vandana Shiva, attiva in molte associazioni e comunità impegnate nella conservazione della diversità biologica, nell’educazione ambientale, nella evoluzione dal basso di processi partecipativi, nell’organizzazione e nel coordinamento di gruppi per la difesa della terra.
Nel raccontare il perché ha fondato l’Università della Terra, Vandana Shiva spiega che questa si basa sull’unione e sulla compassione e che è ispirata al grande poeta Rabindranath Tagore. “La foresta” scrive, “ci insegna la logica della sufficienza in quanto principio di equità, ci indica come gioire dei doni della natura senza sfruttamento né accumulo… la fine del consumismo e del desiderio di accumulare darà inizio alla gioia di vivere. Il conflitto tra l’avidità e la compassione, tra la conquista e la collaborazione, tra la violenza e l’armonia, di cui scrisse Tagore, continua ancora oggi. Ed è la foresta che può indicarci la strada per superarlo.” Storicamente, laddove esiste una innata sensibilità verso la sacralità della natura e una pratica ecologica di base, questa è al femminile.

Nel suo incedere, l’Ecologia Integrale esprime dunque un radicalismo che può ben rappresentare la solida base di un pensiero decisamente moderno che è anche frutto dell’assorbimento e dell’elaborazione di idee e di tradizioni secolari, laiche e spirituali.
Non è casuale infatti che alcuni tra i più importanti leader religiosi pongano in evidenza l’urgenza di una “riconciliazione” con la natura che passa necessariamente attraverso una modificazione dei rapporti sociali tra gli esseri umani. Non è un caso, se il termine “conversione ecologica” coniato da Alex Langer per significare sia l’esigenza del cambiamento individuale, sia quella di una modificazione strutturale della produzione per eliminare l’aggressione alle risorse naturali e lo sfruttamento di donne e uomini per ricondurre l’attività e la convivenza umana entro i limiti della sostenibilità sociale e ambientale, sia stato ripreso e sottoscritto nell’enciclica “Laudato sì” di Jorge Mario Bergoglio. Un documento (accolto assai tiepidamente) che coglie pienamente la gravità e al tempo stesso l’opportunità offerta da questo momento storico e che inquadra molto chiaramente il fatto che “non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socioambientale.“
Sono numerose le tradizioni spirituali e religiose delle culture native e in specie tra quelle orientali che pongono le loro basi sul rapporto essere umano-natura, sull’anima individuale e su quella universale.
In particolare, anche grazie alla sua capacità di parlare alla contemporaneità, è di straordinario supporto all’EI, la visione Buddhista che a partire dalla rinuncia alla differenza tra soggetto e oggetto inquadra chiaramente su che cosa si fonda il nostro rapporto con il mondo circostante. Il Sūtra del Diamante è il testo più antico in cui si tratta del rispetto dovuto a tutte le forme di vita animali e vegetali e perfino ai minerali (in quanto parte della natura abiotica) e che attribuisce un valore in sé all’oggetto e alla relazione che abbiamo con esso. Nel Sūtra, dimora il concetto di “umano” come qualcosa che non è in grado di
sopravvivere per conto proprio ma solo attraverso la sopravvivenza delle altre specie, o meglio, di quella che oggi chiamiamo la biosfera. Ne discende che prenderci cura di ciò che non siamo, dell’acqua che beviamo, dell’aria che respiriamo, della terra della quale mangiamo i frutti, è l’unico modo per prenderci cura di noi stessi, è accettare la responsabilità di una ricerca della felicità che si sostanzia in una vita semplice ma piena e che si esprime nella virtù morale della compassione, ovvero in un generale atteggiamento di spontaneo interesse, attenzione e rispetto per il grande mistero della vita.
Oggi, in un mondo in cui la complessità sostituisce le teorie lineari e le scienze isolate, considerate non più sufficienti a spiegare la realtà, l’attribuzione del “valore in sé” a un soggetto/oggetto, ovvero ciò che Immanuel Kant ha definito come Noumeno e che Baruch Spinoza ha indagato nella sua Etica, diventa la chiave di volta per affrontare in modo decisivo gli effetti dello sciagurato impianto concettuale su cui si fonda la tragica inadeguatezza del mondo in cui viviamo.

Se al di fuori della relazione (di qualsiasi relazione) semplicemente non siamo, non esistiamo, ben si comprende come un’esistenza fondata sulla dominanza del nostro ego e sull’assenza di valore che invece è necessario riconoscere nelle dinamiche e negli equilibri naturali, non può che può condurci verso la sofferenza, la violenza, la malattia, la distruzione.
In sintesi, l’Ecologia Integrale si presenta come saggezza non come dottrina, né come disciplina, ma come un insieme di concettualizzazioni, di prospettive, di azioni pratiche che sono riassumibili in un’Etica Naturale, in una visione profonda che può essere ampiamente condivisa pur partendo da presupposti differenti e che ispirando un percorso di liberazione individuale e collettivo, pone al centro l’idea che è fondamentale assumere un mutamento di prospettiva in cui la nostra specie non è sovrana su questo pianeta ma che semplicemente partecipa ad un concorso degli eventi. Non avendo alcuna investitura, sacra o profana, l’essere umano non è altro che una tessera del mosaico e non può dunque sconvolgere l’equilibrio del mondo che peraltro garantisce la sua stessa sopravvivenza.

Lo so, si tratta di un mutamento totale del modo in cui normalmente siamo abituati a pensare e in cui l’io/il noi, è comunque sempre al centro delle argomentazioni che ci portano a fare una scelta piuttosto che un’altra. Distaccarsi da questa abitudine appare ai più come impossibile esattamente come appare pare scontato rassegnarsi ai tempi e alle modalità proposte/imposte dal sistema dominante.
Tuttavia, è necessario avere la consapevolezza che abbiamo a che fare con un modello mentale deviante e un modello sociale fallimentare che per ragioni fisiche e chimiche (cambiamento climatico, distruzione degli ecosistemi, minore disponibilità di energia, ecc.), è già ampiamente in fase di declino.
Un passo straordinariamente rilevante per comprendere l’illusorietà del mondo in cui viviamo è fermarsi ad osservarlo. Ecco, quello che fa un EI è fermarsi ad osservare e cogliere questa intima verità. Nel silenzio dello studio e della meditazione su come sia intrinsecamente assurda l’idea della nostra superiorità di specie e quindi di singoli, si rivela il nostro “passaggio a nord-ovest”, il percorso, seppure ad ostacoli, che possiamo seguire per uscire dalla mediocrità di una esistenza intrisa di malintesi, di autoreferenzialità, di insoddisfazione, per collocarci in una dimensione diversa, fatta di sobrietà, di tempo dedicato alle relazioni, al gioco, all’amore.
Personalmente trovo stimolante la possibilità che ci è data da un tale tipo di “conversione” e allo stesso tempo mi rendo conto di quanto sia difficile che ciò diventi “desiderabile” per un numero elevato di persone. L’abitudine a quello che chiamiamo “comfort”, l’inerzia e quindi la tendenza a conservare quel poco che si crede di possedere, anche rassegnandosi a vivere con compromessi a dir poco infernali, il più delle volte incolla gli individui sul proprio scoglio, attaccati, parafrasando Giovanni Verga, alle poche certezze che si crede di avere. Ma, è pur vero, che tutto è in continuo divenire, è impermanente, ed è esattamente qui che si colloca la prospettiva dell’Ecologia Integrale, nello spazio, seppur piccolo, in cui si apre al singolo la possibilità di uscire dalla propria nicchia per assaporare qualcosa di profondamente diverso.

In conclusione si può affermare che l’Ecologia Integrale, scevra da ogni richiamo ideologico, si muove almeno su tre piani strettamente correlati fra loro.
– Quello personale, inteso come percorso di autorealizzazione umana, di abbandono degli stereotipi e dei comportamenti indotti per ritrovare unione con la natura, pienezza, realizzazione di sé, spirito di condivisione.

– Quello sociale, finalizzato ad un risveglio culturale e alla costruzione di una nuova organizzazione comunitaria, resiliente e su base locale.
– Quello politico, in senso non gerarchico, egualitario, cooperativo, non produttivista, orientato alla conservazione dei beni naturali comuni e al rispetto dei diritti fondamentali.

In ogni caso l’Ecologia integrale riguarda corpo, mente, comunità, presente e avvenire. Riguarda il singolo ed il gruppo. E’ sobria, pratica, solidale, è costituita da un pensiero e da un’azione che, stante l’elevata conflittualità umana e il rapido declino delle condizioni di salute del pianeta, offrono una alternativa concreta alla brutalità dell’attuale e -se non ci saranno mutamenti profondi- al disastroso scenario che ci attende.
Si tratta di un percorso articolato, non esente da ostacoli, critiche, insuccessi, ma nei
fatti, rappresenta oggi una prospettiva personale, sociale e politica non più eludibile.

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