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Non è stato facile trovare una figura-simbolo che potesse in qualche modo servire da faro per elaborare una proposta concreta per la ricerca di un autentico pensiero critico. Dopo lunga riflessione, la mia scelta è ricaduta su Simone Weil, sia perché pochi come lei hanno dimostrato tanta accorata passione per la libertà di pensiero individuale, sia per l’apertura mentale che l’ha portata a compiere un percorso intellettuale originalissimo, sospeso tra anarchismo, marxismo e misticismo cristiano.
Scrive ne La prima radice:
La libertà di opinione e la libertà di associazione sono in genere menzionate insieme. E’ un errore. Eccetto nel caso di gruppi naturali, l’associazione non è un bisogno, ma un espediente della vita pratica.
Invece la libertà d’espressione totale, illimitata, di qualsiasi opinione, senza nessuna restrizione, né riserva, è un bisogno assoluto per l’intelligenza. Quindi è un bisogno dell’anima, perché quando l’intelligenza si trova a disagio l’anima ne soffre…
Nell’essere umano l’intelligenza può esercitarsi in tre modi diversi. Può applicarsi a problemi tecnici, cioé cercare dei mezzi per uno scopo prefissato. Può fornire un chiarimento quando si compie una decisione della volontà nella scelta d’un orientamento. E infine può agire da sola, separata dalle altre facoltà, in una speculazione puramente teorica, dalla quale è stata temporaneamente scartata ogni preoccupazione di azione pratica.
In un’anima sana l’intelligenza si esercita di volta in volta nei tre modi, con differenti gradi di libertà. Nella prima funzione essa è serva. Nella seconda funzione è distruttrice e dev’essere costretta al silenzio non appena incominci a fornire argomenti alla parte dell’anima che, in chiunque non si trovi nello stato di perfezione, prende sempre le parti del male. Ma quando si muove sola e separata, occorre che disponga di una libertà sovrana.
Per chi, come me, è completamente agnostico, potrebbe risultare un po’ complicato comprendere concetti resi tramite riferimenti religiosi quali ‘anima’, ‘stato di perfezione’ e simili; tuttavia, mi sembra di capire esattamente che cosa si intenda, ossia che la libertà di pensiero assoluta è doverosa e reclamabile solo su questioni totalmente avulse dalla vita pratica e che non prevedano di influire sull’opinione altrui.
Onde evitare equivoci è bene chiarire, che, pur condividendo l’analisi della Weil, prendo nettamente le distanze da alcune sue prese di posizione (forse volutamente polemiche ed estremizzate) che, da paladina della libertà individuale, finirebbero per attribuirle intenti abbastanza censori, ad esempio quando ritiene legittima “una repressione contro la stampa, le trasmissioni radiofoniche e simili, non solo se violino i principi della morale pubblicamente riconosciuta, ma per la bassezza del tono e del pensiero, per il cattivo gusto, la volgarità, per la morale sornionamente corruttrice” oppure quando condanna scrittori come André Gide per i contenuti immorali delle opere.
Ciò nonostante, c’è un aspetto che secondo me lei ha colto alla perfezione, sempre al netto delle provocazioni:
Tutti i problemi concernenti la libertà d’espressione si chiariscono, in genere, quando si sia stabilito che quella libertà è un bisogno dell’intelligenza e che l’intelligenza risiede soltanto nell’essere umano, individualmente considerato. L’intelligenza non può essere esercitata collettivamente. Quindi nessun gruppo può legittimamente aspirare alla libertà d’espressione, perché non c’è nessun gruppo che ne abbia il benché minimo bisogno.
Anzi, la protezione della libertà di pensiero esige che l’espressione d’una opinione da parte di un gruppo sia vietata per legge. Perché un gruppo, quando vuol avere opinioni, tende inevitabilmente a imporle ai membri. Presto o tardi gli individui si trovano ad essere, più o meno gravemente, impediti nella espressione di idee opposte a quelle del gruppo su vari problemi più o meno importanti, a meno che non ne escano. Ma la rottura con un gruppo comporta sempre delle sofferenze, o almeno una sofferenza sentimentale.
Per rtale ragione, ritiene leciti i “gruppi di interessi”, come i sindacati, ma non i “gruppi di idee”, ragione che la spinge a condannare l’esistenza dei partiti politici.
La Weil subordina la libertà di espressione individuale all’unico valore che ritiene realmente superiore, ossia la verità, la cui ricerca rappresenta un dovere imprescindibile verso la società soprattutto per chi rivesta un ruolo intellettuale.
Il bisogno di verità è il più sacro di tutti… Ci sono uomini che lavorano otto ore al giorno e che, di sera, compiono l’enorme sforzo di leggere per istruirsi. Non possono concedersi il lusso di effettuare ricerche e verifiche nelle grandi biblioteche.
Nell’era postmoderna della fine delle grandi narrazioni e dei giochi linguistici, dove tutto è considerato soggetto a interpretazione e in cui persino la scienza ha dovuto abdicare alla sua ‘esattezza’, fa uno strano effetto la parola ‘verità’; forse, proprio per questa ragione, la sua ricerca – intesa come sforzo, inevitabilmente limitato, di comprendere una realtà esterna a noi e indipendente dalle nostre opinioni – dovrebbe caratterizzare, oggi più che mai, un autentico spirito critico. La pensa così Anna Maria Lorusso, Professoressa Associata di Filosofia e Teoria dei Linguaggi presso l’Università di Bologna, in riferimento alla situazione creatasi con i media digitali, facendosi portatrice di un concetto di verità inserito una visione laica, spiegando come esso non sia affatto in contraddizione con l’accettazione del relativismo e il riconoscimento di limiti alla conoscenza:
A me pare che questo regime confusivo sia cosa molto seria su cui riflettere, poco tematizzata e sostanzialmente evasa da qualunque intervento di fact-checking, presunto antidoto verso le patologie della nostra epoca di post-verità. La post-verità non richiede correzioni e svelamenti; richiede discriminazioni e distinzioni. È cosa diversa.
Se il primo programma ha a che fare con un’idea del vero ancora corrispondentista (il vero corrisponde a uno stato del mondo), il secondo programma assume una posizione radicalmente discorsiva: seguendo Foucault, si pone il problema in termini di regimi di verità: ciò che è vero è tale dentro certi universi e secondo certi presupposti, non è tale per sempre. Non ci sono verità universali, e non ci sono verità oggettive da svelare, rispetto a cui offrire discorsi corrispondenti, perché le verità non si misurano nella corrispondenza 1:1 con la realtà, ma si danno in una catena di mediazioni, concettualizzazioni, traduzioni inevitabili per ricondurre ed esprimere il dato di dura realtà dentro un certo universo di cultura.
Le notizie che leggiamo pesano la realtà, quel mondo dei fatti che certamente da qualche parte si dà (come ogni realista – debole o forte che sia – rivendicherebbe giustamente) ma che i nostri strumenti non restituiscono tale e quale è, ma devono in qualche modo tradurre.
L’informazione è traduzione: organizzazione, racconto, definizione, delimitazione del reale. Si tratta di dare peso alle cose. E a volte si inganna intenzionalmente, e per qualche ragione e interesse si danno pesi sbagliati, altre volte si danno pesi diversi alle cose semplicemente perché si hanno valori, parametri, riferimenti diversi.
Per queste ragioni, una prudente ecologia della conoscenza e della responsabilità dovrebbe spingerci ai confronti, alle tare, alle ponderazioni, e non certo per accettare tutto come equivalente, ma per capire qual è il valore più affidabile, più accurato appunto. Spesso si confonde il relativismo concettuale con un annullamento della categoria di verità: il famoso post-moderno everything goes: tutto appiattito su uno stesso piano di equivalenza. Ponderare, viceversa, significa proprio cercare di gerarchizzare e fare distinzioni, pur senza adottare criteri che pretendono all’universalità…
Più che di fact-checking, insomma, dovremmo preoccuparci di un critical thinking e di un’educazione all’accuratezza di cui ahimè invece non si sente affatto parlare. L’accuratezza non è questione di buon senso, non illudiamoci (se no tutti ce l’avremmo a portata di mano), ma è l’esito di un lavoro critico di formazione e di un’attitudine da acquisire negli anni con l’esercizio. Dovremmo tutti abituarci all’idea che, come si viene formati alla letteratura, alla storia, alla fisica, alla matematica, si dovrebbe essere formati alla informazione, alla comunicazione, ai media, perché non sono – i media – sfere del sapere più semplici di altre.
Ma questa coscienza sembra ancora di là da venire. Preferiamo tutti pensare che i media siano facili, che i media ci intrattengano, che i media possano salvarci con la loro promessa democratica di disponibilità di tutto per tutti. E continuiamo così a confondere le possibilità tecniche con le possibilità epistemiche.
Giunti alla fine di questo viaggio in cinque puntate che ci ha portato a indagare sulla rivoluzione cognitiva provocata dalla diffusione di massa di Internet, su pregi e limiti del debunking e dell’informazione alternativa al mainstream, sul ‘fenomeno Burioni’ e in cui abbiamo approcciato il pensiero di Simon Weil e alcune suggestioni su come non rimanere fagocitati dalle perversioni della Rete, cerchiamo in qualche modo di tirare le somme. Invece di un discorso sistematico su come pensare criticamente, mi limito ad alcuni consigli sparsi per il lettore, nella speranza che qualcuno magari riuscirà ad approfondirli e a svilupparli ulteriormente.
- Il pensiero critico è tendenzialmente individuale e rifugge dalle logiche di fazione. Sentirsi integrati in un gruppo è importante, ma attenzione a non indulgere nel conformismo della propria nicchia.
- Diffidiamo da tutte le dispute che presentano un carattere perentoriamente ‘pro o contro’, ‘noi vs loro’ e simili: potrebbe trattarsi di scontri tra bande camuffati da dilemmi concettuali.
- Riserviamo l’orgogliosa espressione “penso con la mia testa” solo alle questioni puramente teoriche e astratte; mostriamo un atteggiamento molto più umile in tutte le altre. Non usiamola mai come scusa facile per evitare il confronto.
- Di fronte a un’argomentazione che suscita in noi reazioni particolarmente sdegnate e rabbiose, fermiamoci a riflettere sui motivi che ci spingono a provare tali sentimenti: spesso alla base c’è semplicemente la frustrazione di non saperla confutare efficacemente.
- La realtà non si capisce limitandosi a sbugiardare menzogne.
- Se un’analisi conduce a conclusioni divergenti dal nostro punto di vista, non limitiamoci a trovare qualche altro documento che lo convalidi, prassi molto semplice oggigiorno con Internet. Cerchiamo piuttosto di comprenderla e di decostruirne i ragionamenti su cui si basa, se ne siamo capaci, in caso contrario prendiamone serenamente atto.
- Nutriamo una sana diffidenza per i contenuti che assumono connotazioni sloganistiche e semplicistiche, specialmente quando vengono troppo incontro alle nostre visioni.
- Soppesiamo con estrema cautela gli appelli all’unità e l’adesione a linee condivise.
- Evitiamo sistematicamente le logiche dialettiche di branco e, nei limiti della ragionevolezza, proviamo sempre a differenziare la nostra posizione da quella del gruppo di riferimento.
- Non caratterizziamo esclusivamente il nostro pensiero come ‘anti-qualcosa’, finiremmo solamente per scimmiottare ciò che odiamo.
- Non sacrifichiamo la causa della ricerca verità in nome di nessun’altra. La menzogna non giustifica alcun fine, mai.