Passato, presente e futuro sull’appennino

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altoappenninoreggianoVorrei prendere in considerazione un aspetto che mi tocca da vicino: lo spopolamento della montagna, così come si è manifestato negli anni e le possibili soluzioni per un ripopolamento “sostenibile”.
E’ inesatto dire che la gente dalla montagna è sempre fuggita. Ci sono stati anni in cui, per molti motivi, i suoli montani hanno rappresentato un rifugio sicuro: dalle pestilenze, dalle scorribande degli eserciti che hanno imperversato in lungo e in largo sul nostro territorio.
Essere lontani dalle piu’ importanti vie di comunicazione ha avuto anche i suoi lati positivi.
I problemi iniziano, a mio avviso, con le leggi napoleoniche del 1814.
Con quei provvedimenti viene stabilito che nella successione “mortis causa” la terra e i beni del de cuius dovessero essere suddivisi in parti uguali.
La giurisprudenza, a differenza di quanto prevede quella altoatesina , a proposito del “Maso Chiuso” , pone, tutt’ora, attenzione al diritto delle persone, anzichè alla tutela del suolo e della suo uso-conservazione.
Nel consigliare un approfondimento su questi aspetti, osservo che il continuo frazionamento della terra, anzichè suddividere la ricchezza ha moltiplicato la povertà.
In piu’ riprese, il Parlamento ha tentato di legiferare stabilendo una “soglia minima” di terreno in proprietà,necessaria e sufficiente per consentire la vita di un nucleo famigliare di cinque persone.
Tale soglia, benchè individuata, non ha mai avuto riscontro pratico; per cui, nelle successioni, si è continuato a fare “spezzatino” delle proprietà.
La naturale conseguenza è stata l’emigrazione.

Qualcuno afferma che lo spopolamento della montagna sia dipeso anche da
altre ragioni:
– la peste del 1630
– il disagio climatico ( in particolare la “piccola glaciazione” deglianni a ridosso della pestilenza )

– la morfologia del suolo nei suoi aspetti geologici ( frane e calate)
– la produzione di derrate per lo piu’ per autoconsumo.

In realtà queste ragioni sono marginali e non determinanti per l’abbandono.
I grandi movimenti migratori si sono avuti negli anni ’30 del novecento e nella fase del “miracolo”, quando centinaia di migliaia di braccianti e piccoli contadini, mezzadri, di pianura come di montagna, sono stati costretti all’abbandono dalla massiccia meccanizzazione del lavoro dei campi e dall’attrattiva esercitata dal triangolo industriale del nord.

Tutto questo, ormai, è storia.
C’è un brutto vizio nazionale: quello di cercare le soluzioni per l’oggi guardando solo al presente; senza la minima analisi delle ragioni storico-politiche-economiche che hanno condotto alla realtà attuale.
Se non si colgono gli errori è difficile anche porvi rimedio.
Ora, se si vogliono innestare progetti virtuosi per il ritorno alla terra, è necessario rimuovere le ragioni ostative.
Dunque, in qualche modo, serve riaggregare ciò che nel tempo è stato disperso.
Non si tratta di rimettere in discussione la legittimità del frazionamento delle proprietà.
Si tratta di trovare nuove e possibili fruizioni.
Per esempio, le Comunalie, i Consorzi Forestali costituiti dai proprietari dei fondi, possono e debbono adottare misure comuni per la gestione unitaria dei fondi stessi.
Per esempio i piani di coltivazione per il taglio del legname da ardere.
Tagliare in modo episodico significa lavorare male, con scarsi risultati, con bassa professionalità.
Significa predare piuttosto che agire in modo rispettoso, intelligente, con azioni contestualmente di taglio e rimboschimento.
Gestire in modo unitario il territorio significa svolgere lavoro sinergico: dal taglio al rimboschimento, alla raccolta del materiale di risulta per il confezionamento di cippato, di pellet.
Significa pulire i boschi, gli alvei dei ruscelli, ripristinare i sentieri.
In questo modo si contribuisce alla sicurezza del territorio, al mantenimento della sua bellezza e fruibilità anche dal punto di vista turistico e degli sport campestri ( tracking, mountain bicke, orienteearing, safari naturalistici….).

Ci sono decine, centinaia di progetti, di leggi, di finanziamenti ( per lo piu’ “a pioggia”) per la montagna.
Quasi tutti, si sono rivelati privi di efficacia.
A mio parere la ragione è perchè non esiste un piano organico.
Come spesso accade i progetti elaborati dicono tutto e il contrario di tutto: sono pensati per mettere d’accordo esigenze diverse.
Per cui c’è il “contentino” ai cacciatori, agli ecologisti, agli imprenditori che vogliono costruire su suoli incontaminati fabbriche di piastrelle e, come contrappeso, qualche oasi del WWF o centri della LIPU.
In realtà questi progetti sono votati al fallimento perchè non affrontano in modo radicale il problema della gestione unitaria secondo una coerenza “filosofica”.

Nella realtà in cui mi trovo ( Bardi, appennino parmense), con alcuni amici stiamo elaborando un progetto che preveda:
– autosufficienza, per quanto possibile, della valle; valorizzando le produzioni e il consumo di prossimità ( chilometro zero),
– rafforzamento dei GAS per il consumo solidale e critico,
– gestione unitaria del territorio con l’introduzione di attività economiche non invasive e biocompatibili,
– valorizzazione delle bellezze naturali e artistiche,
– valorizzazione della storia, delle tradizioni ( Principato dei Landi, Ducato dei Farnese e Granducato di Parma e Piacenza),
– valorizzazione della Via Francigena e della sua variante “Via degli Abati”,
– studio della Biodiversità ( In collaborazione con ISPRA) utilizzando i funghi come bioindicatori,
– censimento dei terreni abbandonati o in disuso, al fine di riassegnarli a giovani che si impegnino a tornare al lavoro dei campi,
– assegnazione a prezzi simbolici di vecchi edifici e rustici,
– contributi pubblici per progetti sostenibili, circostanziati, documentati e verificabili nella loro attuazione,
– Fine della logica protezionistica delle “gabbie dorate” per la salvaguardia dei “siti di interesse”.

(questo approccio deve essere sostituito da un radicale cambio di mentalità circa la fruibilità del territorio, l’ uso non invasivo e rispettoso della biodiversità.)

La nostra visione complessiva attutisce, e di molto, l’idea antropocentrica e, soprattutto la visione mercantile per cui tutte le azioni umane debbano trasformarsi in denaro.
Una comunità può vivere anche e soprattutto di sussidiarietà, di scambio, di misure solidali.
La logica deve essere quella del riciclo, dei “rifiuti zero”, dell’autoproduzione di energia sfruttando i piccoli salti d’acqua (energia idroelettrica) , il vento e il sole oltre alle biomasse, assai abbondanti.

Certo, una comunità di piccole dimensioni non può essere autosufficiente in tutto; ma la logica del “bastarsi” riduce sempre piu’ la dipendenza dal denaro.

Il mondo contadino tradizionale è stato distrutto non perchè non funzionasse ma per corrispondere a esigenze di redditività proprie della logica capitalistica.
Io non sono tra coloro che ritengono si stesse “meglio” quando si stava “peggio”.
Fino a inizio novecento sopravvivevano solo tre bambini su cinque oltre il quinto anno di vita.
La speranza di vita era di 43 anni e si moriva di pellagra. Però la soluzione non sta certo in uno sviluppo quantitativamente abbondante ma che peggiorara le qualità organolettiche del cibo ed aumentare i pericoli di contaminazione , per via dell’uso massivo di fertilizzanti e diserbanti.

La decrescita, o meglio la crescita “altra”, può essere davvero una maniera diversa di pensare l’Uomo, i suoi bisogni, i suoi affetti, la sua socialità in un contesto armonico, vivibile, sostenibile e rispettoso della natura.
Ciò vale particolarmente per le comunità isolate della montagna.
Non nascondiamocelo: è dura, molto dura.
I conservatorismi sono forti, a tutti i livelli ma cambiare è possibile.
L’alternativa alla decrescita ( felice) è il declino, cioè l’involversi anarchico di una realtà crepuscolare che, se non guidata verso sbocchi positivi, potrà condurre solo ad una moderna barbarie.

002Daniele Uboldi, classe 1951.
Sono laureato in Scienze Statistiche.
Per due decenni mi sono occupato di Garanzia della Qualità come libero professionista.
Dopo avere trascorso piu’ di quarant’anni a Milano ho deciso di trasferirmi nell’appennino parmense cambiando radicalmente vita.
Nel limite del possibile, la mia famiglia auto produce quello che consuma; anche in una logica di scambio coi rari vicini che con noi condividono la bellezza di questi luoghi a bassissima antropizzazione ( 20 ab. Per kmq.)
Attualmente sono coordinatore del Centro ISPRA per lo studio della biodiversità nell’appennino parmense, utilizzando i funghi come indicatori

 

Fonte foto: http://www.agraria.org/parchi/emiliaromagna/altoappenninoreggiano.htm

3 Commenti

  1. via case battini,9
    selva del bocchetto

    condivido in pieno, visto che vivo in Val Taro anch’io avrei piacere di essere informato se organizzate incontri, oppure se avete bisogno di aiuto io di tempo ne ho da vendere visto che da novembre sono disoccupato (anche se a me piace più definirmi “scollocato”).
    Noi facciamo l’orto sinergico e stiamo pensando di poter produrre un pò anche per ricavare un sostenziamento anche se minimo, mi piacerebbe fare un frutteto in un appezzamento che ore è un boschetto, anche per questo dal 31 maggio al 9 giugno parteciperò al corso di 72 ore dell’Istituto Italiano di Permacultura.
    Aspettando vostre notizie vi saluto,
    Buona Vita.

    Marcello

  2. Il nostro sistema economico e di vita ha insegnato che bisogna lavorare tanto per consumare tanto.
    Bisogna avere tanti soldi per spendere tanti soldi, per comperare una grande quantità di cose, di cui, una gran parte, inutili.

    Abbiamo oramai perduto il senso delle cose semplici: del “buon profumo della legna che arde” .
    Siamo sempre piu’ lontani dalla natura , dalle sue manifestazioni, al punto da non riconoscerne piu’ valori e significati.

    La gente , da sempre vissuta in città ha convissuto con lo stress ed il tram tram cittadino , di cui si lamentano ma non vogliono abbandonare
    E’ questa è anche la gente che non riesce ad apprezzare la campagna, non sa “decodificare” i segnali che giungono ai suoi sensi: i versi degli animali, lo stormire degli alberi al vento, i rumori della foresta…..tutto la impaurisce e la mette a disagio.
    Persino sentire nel cuore della notte un gufo, col suo insistente “u-uuuuuuu, u-uuuuuuuuuu” che dovrebbe essere motivo di gioia, di senso di “appartenenza”: vengo dalla terra , invece no , per molti sono solo versi che tolgono il sonno.
    Non sanno ascoltare le voci del bosco, l’alito lieve del vento , il verso cupo e grave della civetta.
    Non sanno riconoscere le tracce dei cinghiali, o come girano le nuvole quando sta per piovere e, piu’ di ogni altra cosa, non sanno ammirare il volo degli uccelli che, liberi e leggeri , accompagnano il nostro viaggio nella vita.

    Preferiscono a tutto questo la “Jungla” fatta di automobili, luci delle vetrine. La fiera della vanità e del nulla.

    E’ ,lontana e dimenticata da molti la storia degli Indiani D’America del loro essersi sempre sentiti appartenenti alla loro terra, di essere uno dei tanti elementi di Gea, senza avere pretese egemoniche.

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