(Premessa)
IL LATO OSCURO DEGLI EXPLOIT PRODUTTIVI
Perché scegliere il transgenico?
Le prime puntate della disamina sugli OGM si concentreranno inevitabilmente sugli USA, patria delle biotecnologie. A partire dagli anni Novanta, svariate colture sono state oggetto di manipolazione genetica, sul mercato si sono imposte mais, cotone e soia:
La sigla HT sta per ‘high tolerance’, ossia alta tollerenza agli erbicidi; BT invece è l’acronimo di bacillus thuringiensis, una tossina incorporata nel DNA della pianta allo scopo di combatterne le parassitosi.
Ma perché gli agricoltori statunitensi si sono convertiti in massa alle sementi high tech? Da una serie di interviste condotte dall’USDA, ha nettamente prevalso il desiderio di rese superiori.
Un pragmatismo giustificabile, in quanto la soia HT e il mais transgenico non solo costano di più dei corrispettivi convenzionali, ma dal 2001 a oggi la differenza di prezzo tra le due varietà si è accentuata.
I risultati hanno ripagato le attese? Tentiamo di scoprirlo attraverso un’analisi che non si limiti alla banale lettura dei dati produttivi.
USA vs Francia
E’ problematico paragonare i riscontri produttivi di nazioni diverse, essendo influenzati da molteplici variabili: posizione geografica e peculiarità del territorio, tecnologie impiegate, fertilità naturale dei terreni, calamità naturali, senza dimenticare vicissitudini politiche capaci di sconvolgere l’andamento naturale dei raccolti (conflitti militari e guerre civili, ad esempio).
Premesso ciò, confrontiamo USA e Francia, probabilmente le due agricolture più sviluppate al mondo, che hanno però assunto posizioni antitetiche riguardo agli OGM. Le narrazioni dei mass media tendono a focalizzarsi soltanto sulle rese per ettaro, relativamente al 2000-14 si ottengono i seguenti valori per mais e soia:
Verdetto finale: America batte Europa. Se però vogliamo scavare oltre la superficie, indici produttivi opportunamente formulati consentono raffronti migliori delle cifre assolute. Quelli dei prossimi grafici sono stati così elaborati: per ognuna delle due nazioni, è stata calcolata separatamente la media tra i riscontri ottenuti nel 2004-2006 per ciascuna voce (mais, tutti i cereali, soia), attribuendole un valore 100 e rapportando le singole annate a questo parametro (fonte: elaborazione dati FAOSTAT). (1)
Le elaborazioni descrivono il carattere sempre più intensivo assunto dall’agricoltura statunitense (tradizionalmente estensiva) a partire dal 1996, anno di introduzione degli OGM, che hanno sicuramente ricoperto un ruolo di primo piano nel processo; un cambiamento di paradigma testimoniato anche dal consistente aumento dei consumi energetici agricoli tra il 1995 e il 2013 (+38%), di gran lunga superiore a quello transalpino (+15%) (fonte: IEA). Per inciso, ha senso parlare di ‘boom’ relativamente al 1996-2004, dopodiché le rese si sono stabilizzate attestandosi su andamenti simili a quelli della Francia, la cui agricoltura è prettamente intensiva già da decenni.
Basterebbero queste brevi constatazioni per tornare con i piedi per terra e ridimensionare certe leggende metropolitane; tuttavia, c’è un aspetto ancora più importante e per lo più sconosciuto al grande pubblico, riguardante i trend divergenti dei consumi di fertilizzanti nei due paesi.
Fonti: ourworldindata.org (dati XX secolo), Banca Mondiale (dati XXI secolo)
Consumo di fertilizzanti in tonnellate*1000 (fonte: IFADATA)
Indice di consumo fertilizzanti, anno 1980=100 (Fonte: rielaborazione dati IFADATA)
Produzione cereali/consumo complessivo fertilizzanti (Fonti: FAOSTAT e IFADATA) (2)
Ora possiamo tirare le somme e trarre alcune importanti conclusioni:
- l’agricoltura francese, al pari di quella americana, è stato oggetto di pesanti interventi strutturali, non deducibili dai dati sulle rese. Gravi problematiche ambientali e rigide regolamentazioni comunitarie hanno obbligato dagli anni Ottannta a ridurre drasticamente l’uso di input, favorendo la ricerca di nuove modalità per preservare la produzione cerealicola lasciando sostanzialmente inalterata la quota complessiva di terreni destinati all’agricoltura;
- dopo il 2005-06 i trend di oltreoceano si sono allineati sostanzialmente a quelli francesi;
- entrambe le nazioni hanno fatto tesoro delle tecniche miranti ad aumentare le rese per ettaro diminuendo contestualmente l’assunzione di input, ma con finalità diametralmente opposte, una orientata al risparmio, l’altra mirante all’aumento produttivo, un aspetto che salta subito all’occhio paragonando i valori del 1980 – quando in America si usava lo stesso quantitativo odierno di fertilizzanti – con gli attuali:
CONFRONTO 1980-0GGI
Il miglioramento di efficienza è avvenuto parallelamente in entrambi i contesti considerati, a prescindere dalle sementi impiegate.
Per quanto concerne le proiezione future sul consumo di input, il World fertilizer trends and outlook to 2018 della FAO prevede da qui al 2018 una situazione stazionaria per l’Europa ma un incremento dello 0,4% annuo in Nord America, nonostante il nutrient pollution (inquinamento da nutrienti, dovuto all’eccessivo rilascio di azoto e fosforo nei terreni), sia giunto a livelli di guardia allarmanti. Nulla di nuovo per il vecchio continente, duramente provato dal fenomeno negli anni Ottanta (si pensi alla mucillagine nelle acque dell’Adriatico), a cui si è provveduto riducendo l’impiego di fertilizzanti fosfatici, i quali oggi costituiscono il 15% dell’ammontare complessivo di input, contro il 20% statunitense (fonte: Assessment of Fertilizer Use by Crop at the Global Level 2010-2010/11), una decisione che probabilmente si è ripercossa negativamente sulla produttività.
La forza trascurata del biologico
“Incapace di nutrire il pianeta”, “troppo costosa”, “fenomeno elitario buono per ricchi e radical chic’… l’agricoltura biologica subisce ogni sorta di improperi. Sono realmente meritati? Analizziamo il principale ‘marchio di infamia’, ossia la minor produttività, riferita al contesto statunitense:
Le colture biologiche presentano effettivamente rese inferiori del 25-35%, ma per molti versi si tratta di un risultato sorprendente in positivo. Infatti, statististiche FAO alla mano, sono riscontri paragonabili a quelli dell’agricoltura convenzionale tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, ottenuti però con ampio ricorso ai prodotti chimici di sintesi, concimi e fitofarmaci. (3) Senza dimenticare che, a livello di ricerca, l’agroecologia riceve sicuramente meno finanziamenti dei progetti destinati all’agricoltura convenzionale e alla manipolazione genetica.
Conclusioni
Senza alcuna pretesa di esaustività, spero di aver demolito la mitologia decantante l’eden americano della modificazione genetica, sempre pronta a bacchettare i ‘pavidi’ contadini europei, rei di non convertirsi entusiasticamente al nuovo credo agronomico.
Come ho ampiamente spiegato nella premessa, bisogna spostare la critica dalla componente OGM al modello in cui ne viene proposto l’utilizzo; in questo caso, il nuovo corso dell’agricoltura americana – iniziato negli anni Novanta, frutto di investimenti miliardari in ricerca e sviluppo, di cui le sementi transgeniche rappresentano il principale fiore all’occhiello – provvede a smussare (senza risolverla minimamente) una delle principali criticità dell’attuale paradigma agroindustriale (ossia la dipendenza da fertilizzanti di sintesi estratti da risorse non rinnovabili), tuttavia la Francia dimostra che si può agire ottimamente in tal senso con le sementi convenzionali. Anzi, ricercando la massima produttività possibile si rischia di replicare in agricoltura il fenomeno già occorso nel settore energetico e noto come ‘paradosso di Jevons‘, dove il minor consumo di una risorsa per unità di prodotto finisce per aumentarne l’impiego complessivo, ma con una differenza sostanziale: mentre è pensabile la sostituzione delle fonti fossili con le rinnovabili, i nutrienti dei vegetali saranno sempre azoto, fosforo e potassio e per l’industria chimica non esistono alternative all’estrazione da idrocarburi e giacimenti minerari. Il fatto che l’agricoltura statunitense oggi somministri gli stessi input di trentacinque anni fa, contravvenendo a un trend del mondo sviluppato dove si è registrato un calo del 30% (fonte: IFADATA), è un’ulteriore conferma dell’insostenibilità dell’approccio scelto.
Finiamo da dove avevamo iniziato, ossia dagli agricoltori statunitensi e dalle loro speranze di ottenere consistenti ritorni economici dagli OGM. Oggi sementi e fertilizzanti incidono quasi per il 40% sui costi di produzione del mais:
Il divario di prezzo tra sementi transgeniche e convenzionali è gradualmente aumentato, il basso costo del greggio ha calmierato quello dei fertilizzanti ma è destinato inevitabilmente ad aumentare, altrimenti l’ondata deflattiva creerà uno tsunami di fallimenti a catena in tutta la filiera delle materie prime. A quel punto, il conto da pagare per aver sposato la nuova agricoltura transgenica potrebbe rivelarsi molto salato.
Nella prossima puntata affronteremo una delle problematiche più dibattute, la resistenza ai fitofarmaci.
(1) Ogni volta che comparirà il termine ‘cereali’ esso indicherà un dato aggregato per tutte le colture che rientrano nella categoria, mais incluso, corrispondente alla voce ‘total cereals’ del database FAOSTAT.
(2) I cereali sono la coltura ideale per confrontare Francia e USA, non solo perché la produzione francese di soia è minoritaria ma anche perché si tratta di una semente dalle limitate richieste nutrizionali. I dati del rapporto Assessment of Fertilizer Use by Crop at the Global Level 2010-2010/11 redatto dall’IFA indicano che i cereali statunitensi assorbono il 64% dell’intero apporto di fertilizzanti, contro il 53,2% di quelli coltivati nella UE, a causa del prevalere oltreoceano del mais, coltura particolarmente onerosa di input. Non essendo disponibile il dato scorporato per i singoli membri dell’Unione, si è deciso in entrambi i contesti di fare riferimento al consumo complessivo per tutte le colture.
(3) Con tutta l’enfasi concentrata sulle rese produttive, si è persa di vista la vera criticità ambientale dell’agricoltura biologica (almeno di quella statunitense), ossia il maggior impiego di carburante, poiché il mancato ricorso alla chimica richiede più operazioni da svolgere nei campi. Per approfondire l’argomento rimando alla lettura di un interessante articolo pubblicato sul sito dell’USDA.