Negazionismo politico, democrazia e decrescita

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Alla domanda di un giornalista che gli chiedeva se il cambiamento climatico potesse essere considerato come uno dei maggiori impedimenti per la crescita Joe Hockey, ministro del tesoro australiano, risponde in modo categorico: “No, affatto. Assolutamente no” [1]. La sede la riunione del G20 in Australia. Dichiarazioni come questa, alla luce degli innumerevoli dati scientifici disponibili sulle conseguenze catastrofiche pressoché certe che un’ulteriore crescita del Pil materiale potrebbe avere sul clima e di riflesso sull’equilibrio degli ecosistemi e sulla vita dell’uomo, non si possono che definire deliri. “Guarda la Cina”, ha aggiunto poco dopo, “la Cina ha intenzione di continuare a incrementare le emissioni fino al 2030”. Lo fanno gli altri, quindi è lecito imitarli, evidentemente. Anche se ciò significa condannare il futuro di tutti sull’altare dell’opulenza presente di pochi.
Un ragionamento del genere non è diverso da quello di chi, consapevole di avere in dispensa cibo sufficiente per i successivi 10 anni, decida comunque di cucinare tutto subito e ingozzarsi il più possibile, rischiando la sua stessa salute, per poi buttare gli avanzi fuori dalla finestra e affrontare un futuro d’inedia. Un comportamento piuttosto discutibile a livello individuale, che a livello di uno stato diventa pericoloso e se diffuso su scala globale una vera e propria condanna. Tale comportamento, tuttavia, è a quanto pare assunto a modello di riferimento dalla maggior parte dei leader politici mondiali. Appellarsi a ciò che sta facendo la Cina equivale a dire “guarda! Il vicino di casa continua a ingozzarsi e a buttare i rifiuti sul vialetto comune, quindi non c’è ragione per non fare lo stesso!”. Invece di contrastare comportamenti sbagliati ci si unisce alla festa. Invece di dare l’esempio, si imitano atteggiamenti poco virtuosi e si utilizzano come alibi per l’inazione.
Sarebbe forse opportuno comminare sanzioni economiche e politiche a chi sta condannando il futuro del pianeta e degli ecosistemi, altrettanto diligentemente di quanto sta facendo l’occidente con la Russia di Putin. Il problema è ovviamente che nessuno ha in questo momento le mani sufficientemente “pulite” da potersi permettere di elevarsi a giudice dei comportamenti altrui, e meno che tutti l’occidente. Si tratta di qualcosa che solo la comunità internazionale potrebbe fare.
Detta in modo esplicito: c’è assoluto bisogno di un’austerity ambientale che si affianchi e venga a costituire la ragione principale alla base di quella economica. Occorre non aumentare il lavoro, ma diminuirlo e ridistribuirlo. Non aumentare i consumi, ma ridistribuire le eccedenze. Non favorire la crescita del PIL materiale, ma una sua decrescita. Non agevolare la crescita demografica, ma lavorare per una sua lenta diminuzione. Occorrerebbe poi non solo dire queste cose pubblicamente (il che sarebbe comunque un grande risultato), ma anche applicarle concretamente. A cominciare dalla semplice definizione di sviluppo sostenibile enunciata nel lontano 1987 dalla commissione Brundtland, che tutti retoricamente sottoscrivono ma che nessuno di fatto mette in atto. L’unica maniera di farlo davvero è adottare una combinazione di una o più delle misure sopra elencate. Poi si possono naturalmente sviluppare tecnologie appropriate, si può investire sulle energie alternative, e molto altro ancora. Ma nella consapevolezza che tutte queste cose non sono sufficienti in assenza di un modello economico e politico diverso. L’illusione di una ipotetica crescita smaterializzata infinita dell’economia è nient’altro che questo: un’illusione [2]. Pericolosa da perseguire e quasi impossibile da realizzare. Le soluzioni proposte devono essere soluzioni che consentano una sopravvivenza di lungo periodo, con per orizzonte livelli di benessere equamente distribuiti fra le generazioni, e non l’effimera soddisfazione dei cittadini di un singolo stato o continente in vista delle prossime scadenze elettorali.
Questo ci ricollega a un problema fondamentale, derivante dall’accettazione di tali sfide: si tratta di soluzioni efficaci ma impopolari. E tuttavia la domanda che occorre farsi è: perché lo sono?
Lo sono perché la gente comune preferisce condannare le generazioni future a una vita difficile pur di non rinunciare a cambiare smart phone ogni 6 mesi? O perché piuttosto non è cosciente della cogenza di tale trade-off?
La seconda spiegazione appare assai più probabile. I media, l’istruzione e la politica non fanno che ripetere la litania di quanto la crescita economica sia importante per via dei suoi effetti positivi sull’occupazione, i redditi e il prestigio di un paese. Raramente si accenna alle sue esternalità negative sugli ecosistemi, l’ambiente, il territorio, gli stili di vita e le generazioni future. Come fare perché le persone siano più consapevoli se chi muove le leve della politica crede che ci sia tempo, magari fino al 2030, al 2050 o oltre? Come potrà mai esserci una spinta dal basso verso il cambiamento se la questione ambientale è relegata a un angolo buio, da illuminare in occasione di qualche summit annuale per poi dimenticarsene e tornare a occuparsi delle cose “importanti”. Come combattere la doppia minaccia della procrastinazione e della negazione della realtà?
Anche se col tempo le conseguenze dell’inazione diverranno sempre più lampanti alle masse, danneggiandole direttamente e spingendole infine ad agire, quel giorno sarà probabilmente troppo tardi per invertire la spirale discendente del degrado ambientale. Già oggi è troppo tardi. Il tasso di estinzione delle specie sul pianeta è inquietante e la perdita di biodiversità procede a ritmi senza precedenti, moltissimi ecosistemi sono sull’orlo del collasso e il riscaldamento globale non farà che aggravare una situazione già compromessa. Ma agire ora è comunque meglio che agire fra 50 anni. Agire ora significa salvare il benessere di miliardi di persone non ancora nate.
Non possiamo permetterci di non fare nulla pur sapendo che continuando così la catastrofe non è questione di probabilità, ma di tempo; le genrazioni future non ce lo permetterebbero, se fosse loro permesso esprimersi.
Perché si eviti di procrastinare ulteriormente sono due, semplificando, le soluzioni possibili: creare sufficiente consapevolezza nella popolazione da spingerla ad agire per il proprio futuro rinunciando all’obesità materiale del presente, e creare così una pressione dal basso tale da influenzare la politica e le scelte economiche (oltre a modificare gli stili di vita delle persone stesse), oppure conferire maggiore potere a istituzioni non democratiche in grado di occuparsene. O un insieme delle due cose. Tali istituzioni dovrebbero avere carattere internazionale e possedere un potere coattivo limitato all’adempimento di un obiettivo preciso: prevenire il disastro ecologico su scala globale. Una volta normalizzata la situazione, il loro ruolo potrebbe essere ridimensionato.
Non si tratta di stravolgere i regimi democratici, bensì di creare un’entità a loro esterna e superiore, limitata a tale specifica funzione. I regimi politici non democratici infatti, così come quelli democratici, non possono prescindere dalla volontà delle masse: il partito comunista cinese non potrebbe mantenere a lungo il potere se il paese smettesse di crescere, a meno che non riuscisse a far passare il messaggio che ciò stesse avvenendo per il bene di tutti (ma, realisticamente, anche la raffinata propaganda del PCC ha dei limiti). Trasformare le democrazie in dittature illuminate, quindi, oltre a comportare immensi rischi, sarebbe anche una soluzione poco lungimirante. Molto meglio un’istituzione di controllo super partes non influenzabile dai singoli stati; un’organizzazione sul modello dell’ONU ma senza veti possibili sulle sue decisioni [3], che traghetti l’umanità fuori dal pantano dell’immobilismo, non dirigendo ma vincolando le scelte degli stati, democratici e non, a limiti ambientali dimostrati scientificamente. Utopia? Forse. Ma la realpolitik ci sta trascinando lentamente e col sorriso sulle labbra (quello di molti suoi illustri esponenti) verso una distopia non troppo lontana. E se la prima opzione, quella di una dirompente forza riformista dal basso – che chi scrive ha sempre sostenuto e continua a sostenere –, resta valida, va messo in conto che essa potrebbe essere ancora più incisiva se ponessimo, con un atto di coraggio, il futuro e il benessere di tutti al di sopra della democrazia. Se accettassimo, guardando oltre le retoriche populiste che ci bersagliano a fuoco continuo, che la democrazia assoluta non vale tanto quanto il benessere delle persone. E che, se questa fosse estesa alle generazioni future, di certo le attuali elite politiche non conserverebbero a lungo le proprie poltrone.

Note:

1. http://www.theguardian.com/australia-news/2014/nov/16/joe-hockey-climate-change-speeches-g20-real-work

2. Ho già parlato della questione in un precedente articolo.

3. O in ogni caso non con veti di singoli stati.

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Autore de 'Il Secolo Decisivo: storia futura di un'utopia possibile'. Da anni si interessa di tematiche ambientali, economiche e sociali. In passato ha pubblicato tre paper su temi inerenti alla decrescita: "Degrowth and Sustainable Human Development: in search of a path toward integration" (Paper presentato alla Conferenza Internazionale sulla Decrescita, Venezia 2012), "Sviluppo umano e sostenibilità ambientale: in cerca di una strada verso l’integrazione" (Vincitore della prima edizione del "Giorgio Rota Best Paper Award", Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”, 2013) e "From growth to degrowth to a steady-state economy: a (more) liberal path is possible" (disponibile su ASR e online, 2019). È laureato in Scienze Politiche, in Sociologia e in Linguistica Applicata. Attualmente vive a Barcellona.

5 Commenti

  1. Sai Federico, quando si risolve un’espressione matematica, parti prima facendo i calcoli nelle parentesi tonde, poi nelle quadre e infine nelle graffe. I metodi ‘mondiali’ per il contenimento del degrado ambientale mi sembrano invece il tentativo di partire dalle graffe: ovviamente è una fatica immane.
    I problemi di sovrappopolazione, impronta ecologica ed emissioni a livello locale possono essere risolvibili. A livello nazionale e continentale, il grado di complessità è immane.
    Una volta Turiel, un ricercatore spagnolo che si occupa di sostenibilità che non parla mai di politica, messo alle strette da gente che chiedeva qualche soluzione pratica propose un sistema decisionale ‘invertito’, cioé con in primo piano le unità locali e poi istituzioni interconesse dal basso verso l’alto. Mi ha molto colpito perché, senza saperlo, stava proponendo l’idea bioregionale.
    Quanto alla democrazia, mi chiedo Federico di cosa tu stia parlando, perché detta così sembra che siano i cittadini a tenere con le mani legate governi smaniosi di combattere il degrado ambientale. Non mi sembra che sia così: mi sembra anche che i movimenti contro le gradi opere inutili abbiano una base popolare, così come sono stati dei referendum a mettere fine alle esperienze atomiche.
    Questo sistema politico basato su forze politiche del pensiero unico (che si cerca di ridurre a due) che vanno crociettate su di una scheda elettorale richiedenti un dispotismo quinquennale mi sembrano tutto tranne che ‘democrazia assoluta’.

    • Ho la febbre quindi perdonami la sintassi e l’eventuale confusione in questa mia risposta. Mi verrebbe subito da dire che i problemi di una società non sono espressioni matematiche, e che l’analogia non regge. Ma a parte questo, non volevo affatto sostenere che tutto sia risolvibile solo su scala globale (nemmeno solo su quella locale, però, per lo meno non finché le due saranno così interconnesse come sono ora). Infatti ho anche specificato che la soluzione migliore sarebbe “entrambe le soluzioni”. Naturalmente siamo tutti d’accordo, per quanto riguarda l’adozione di vincoli internazionali all’azione degli stati, che si tratterebbe di una soluzione estrema, e molto difficilmente realizzabile (non sono un ingenuo). Tuttavia tali vincoli in parte già esistono, ed esiste un diritto internazionale (per quanto la sua applicazione dipenda spesso dai rapporti di forza fra chi lo viola e le vittime). L’articolo era più che altro una provocazione, ma anche un monito a non identificare in modo retorico la democrazia come l’unica soluzione possibile. Non senza prendere perlomeno in considerazione altre possibilità.
      Ti cito:
      “Quanto alla democrazia, mi chiedo Federico di cosa tu stia parlando, perché detta così sembra che siano i cittadini a tenere con le mani legate governi smaniosi di combattere il degrado ambientale”. Missà che mi hai frainteso allora. In ogni caso l’espressione “negazionismo politico” (della crisi ambientale) mi pare chiarisca già ogni possibile equivoco. Per quanto riguarda l’attenzione all’ambiente da parte dei cittadini, non mi pare per ora affatto sufficiente. E d’altra parte chi li ha votati i politici? Io sono assolutamente pro-democrazia, per chiarire, ma non la pongo al di sopra di ogni altra cosa. Non al di sopra della preservazione di un ambiente salubre e della tutela degli ecosistemi, ad esempio. O dei diritti sociali delle persone.
      Poi:
      “Questo sistema politico basato su forze politiche del pensiero unico (che si cerca di ridurre a due) che vanno crociettate su di una scheda elettorale richiedenti un dispotismo quinquennale mi sembrano tutto tranne che ‘democrazia assoluta’.”
      Anche a me sembra tutto fuorché democrazia assoluta. Lungi da me sostenere il contrario. Io mi riferivo all’ideale della democrazia assoluta declinato nell’idea che la scelta della maggioranza debba essere per definizione lecita, o addirittura necessariamente la migliore (un ideale sbandierato con sempre maggior vigore dai più svariati populismi): la visione della democrazia come panacea di tutti i mali, il mito della maggioranza intrinsecamente saggia e giusta. Vorrei che il dibattito si aprisse ad altre possibilità, e la mia proposta non mi pare affatto fuori luogo, mi dispiace. Ovviamente sarebbe possibile ottenere lo stesso risultato a livello di un singolo paese, sostituendo al ruolo dell’istituzione internazionale super partes una costituzione che tuteli veramente l’ambiente. Naturalmente la democrazia potrebbe poi sempre modificarla, la costituzione, come una maggioranza più o meno qualificata dovrebbe poter modificare l’istituzione super partes. Se è lecito mettere il pareggio di bilancio in costituzione, a maggior ragione lo sarebbe inserirvi il pareggio di bilancio ambientale (passami il termine ed evitami i mille distinguo che sarebbe necessario fare a tal proposito). Tuttavia la soluzione in un solo paese innanzitutto non è una vera soluzione (anche se può fornire un esempio da imitare), e poi è persino di più difficile applicazione nello scenario attuale (non che l’altra idea sia particolarmente realistica, naturalmente). Ah, poi può anche darsi che io mi sia espresso male, e forse è davvero così. In tal caso valuterò se modificare il testo dell’articolo per renderlo meno ambiguo.

      • Penso Federico che il problema sta nell’idea di democrazia che abbiamo: per me non è una conta delle mani alzate, ma un processo decisionale includente. Tra poco arriverà la seconda parte dell’articolo sull’alienazione, la decostruzione del libro di Simonetti ha un po’ scombussolato i miei piani originari.
        Lì sostengo che i meccanismi istituzionali influenzano molto il carattere della gente: se sono alienanti, produranno gente alienata. Domani per dire vado a votare nella mia regione essenzialmente per evitare che il primo partito con 3 voti su 4 e 4000000000000 astenuti possa proclamare di aver il 75% dei consensi, vedi tu se non mi sentirò alienato.
        Poi ci sono istituzioni che invece liberano risorse inaspettate. Il fatto è che dopo il Leviatano politico, il Leviatano economico, non voglio anche il Leviatano ambientale. Un’istituzione come l’osservatorio NO TAV, ad esempio, che chiama esperti di logistica per decidersi della validità di costruire una linea ad alta velocità, è un esempio di istituzione insieme militante e imparziale, del tipo che dici tu.
        La teoria dei Commons aiuta in tal senso. Pensa se le aziende fossero state gestite come commons, se nell’Ilva di Taranto ci fossero stati rappresentanti della cittadinanza esterni all’azienda. Decomporre il problema ambientale in vari commons avrebbe molta più possibilità di un direttorio unico. E’ chiaro che le foreste equatoriali non sono una questione legata solo alla ‘sovranità nazionale’, perché sono i polmoni di tutto il pianeta.
        Neanche io penso che la democrazia sia un bene assoluto o la soluzione di tutto, dico solo che il problema climatico non è legato alla democrazia, bensì ad oligarchie spaventose che contrallano la politica e l’economia. Ovviamente che la maggioranza abbia sempre ragione è una sciocchezza, ma anche il pregiudizio liberale del popolo come ‘grande bestia’. Non si tratta di creare maggioranze, ma partecipazione. Si’, penso un po’ alla Rousseau che l’interesse generale può (PUO’, possibilità) derivare da un potere diffuso. Non credo nei dispotismi illuminati, penso che la storia fino adesso mi dia ragione.

  2. Non si pensa mai che per strozzare il sistema consumistico basterebbe cambiare i consumi…RIDURLI, RAZIONALIZZARLI E ELIMINARE GLI SPRECHI….
    Se si riuscisse a rendere di moda l’austerità a livello individuale avremmo risolto (anche se in modo poco elegante) gran parte dei nostri problemi…
    dai ragazzi….

    • Bè ma questo è ben chiaro a tutti i redattori del sito, credo. A me certamente. Leggi pure gli altri miei articoli, se non mi credi. Se tutti applicassero quello che dici potremmo anche chiudere il sito e basta. Non ci sarebbe più il problema. Speso sinceramente accada ma realisticamente sembra alquanto improbabile nel breve termine…

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