(il Lago Aral ai giorni nostri. Fonte: immagini satellitari della NASA)
In molte sue affermazioni, ribadite anche in questo forum, Luca Simonetti ha sostenuto che “World3” è un modello inadeguato, inadatto a comprendere la complessità della realtà economica e, ancora di più, a predire scenari futuri; sia pure, anche considerando che World3 è stato pubblicato quasi quarant’anni anni fa..
Forse è bene che spendiamo qualche parola sul significato di “modello”.
Un modello matematico-statistico nasce dalla relazione di più variabili. E’ praticamente un’equazione il cui grado di complessità è dato proprio dalle relazioni tra variabili e fattori. Per definizione è SEMPRE predittivo. Non fosse così non varrebbe nemmeno la pena di perdere tempo a costruirlo.
Esso corrisponde a questa logica:
Quanto sia predittivo dipende dal delta che esiste tra teoria ed esperienza empirica.
Viene da sè che, più piccola è la differenza, più il modello è rappresentativo e minore è la mancanza di adattamento.
C’è un altro aspetto da valutare: i modelli sono per lo più statici. Gli eventi che vogliono rappresentare sono, quasi sempre, dinamici. Ne consegue che la predettività varia in continuazione sino al punto in cui il modello supera certi valori critici, per cui non è più affidabile e va ripensato.
Un modello ha bisogno di feedback e continui adeguamenti. In tempi assai ravvicinati vanno valutate le informazioni di ritorno e, in base a queste, messe in atto le azioni correttive. Nel caso di World3 questo è stato fatto nel 1992 (Beyond the Limits) e a trent’anni di distanza dalla prima edizione, nel 2004 (Limits to Growth: The 30-Year Update).
Un altro aspetto che va sottolineato riguarda il metodo di approccio ai problemi.
Una pratica errata ma molto diffusa è quella di considerare le variabili una ad una; dimentichi che esistono molti tipi di relazioni: una-ad-una; una-a-molte; molte-a-molte.
Il modello World3 prende in considerazione cinque variabili:
1) crescita demografica
2) industrializzazione
3) produzione agricola
4) inquinamento
5) prelievo di risorse non rinnovabili.
Che danno luogo a undici scenari possibili.
Uno dei limiti del modello è sicuramente quello di considerare come omogenee aree territoriali che non lo sono affatto.
Così come non sono state prese in considerazione variabili aleatorie come cataclismi naturali, pandemie, eventi bellici rilevanti ecc. (di questi tempi si potrebbe aggiungere la posizione dell’OPEC circa la drastica riduzione del prezzo del petrolio come arma geopolitica).
Aspetti a cui invece Vaclav Smil è molto attento e che, a suo modo di vedere, inducono a previsioni più ottimistiche, in quanto, secondo questo autore, è sempre possibile trovare soluzioni ad ogni problema.
Possiamo dire, senza tema di smentite, che la criticità di un modello economico (e conseguentemente anche sociale) è direttamente proporzionale al suo grado di complessità. Piu’ una macchina è complessa più è probabile che qualche cosa si inceppi.
Le variabili considerate dai Meadows sono tutte di tipo non lineare; dunque afferenti a distribuzioni di tipo gamma. Seguono sicuramente una distribuzione gamma le curve che rappresentano il fabbisogno di terreno arabile, in funzione dell’incremento esponenziale della popolazione.
Il grafico che segue è tratto dal volume The Limits To Growth dei Meadows:
Le curve esponenziali rappresentano, rispettivamente, la crescita della popolazione e la crescita della domanda di cibo. La linea orizzontale superiore, in parte continua e in parte tratteggiata (con caduta attorno al 1945), rappresenta la frazione di terreno arabile, stimato in 3.2 bilioni di ettari. Disponibilità che, dal 1945 in poi, si riduce, sino ad arrivare a un bilione di ettari, attorno al 2060.
Abbiamo a disposizione i dati delle serie storiche (Ramsey, F.L. and Schafer, D.W., 2002) rilevate dal 1880 al 1987, rappresentati dagli scarti dalla media generale dei 108 anni considerati. Il global warming non è l’invenzione di qualche invasato catastrofista ma una realtà dimostrata e dimostrabile. Basta dare un’occhiata al grafico relativo ai dati di cui sopra per rendersene conto.
Uno sviluppo sostanzialmente anarchico, incontrollato e incontrollabile, dove gli interessi particolari sopravvanzano sempre gli interessi generali, non può che creare sempre crescenti criticità, sia in senso qualitativo che quantitativo e generare una sempre maggiore impotenza nel governarle.
I cambiamenti climatici sono l’esempio più evidente. Nessuno, nemmeno India e Cina, nega più che essi costituiscano un grave problema. Tutti concordano sulla diagnosi. Ma, quando si arriva al “dunque” sul da farsi, ciascuno si tira indietro e procrastina il proprio impegno per una effettiva riduzione delle emissioni. Al più, tutto si riduce a documenti scritti in politichese, pieni di buone intenzioni ma di scarsissimi impegni; come è stato, anche pochi giorni fa, alla Conferenza di Lima .
Dunque, e concludiamo su questo aspetto, un modello deve sempre e comunque esistere, quale ambito di riferimento. Il modello sarà tanto più prezioso quante più variabili e fattori prenderà in considerazione. Nel contempo però, più un modello è sofisticato più risulterà “fragile” e soggetto a logoramento, perché sostanzialmente statico. E’ necessario, pertanto, che sia continuamente testato e rimesso “a punto”: un po’ come succede nella garanzia di Qualità con la “ruota di Deming”. Ha poco senso elaborare modelli di tipo univariato, con confronti uno-a-uno, quando in realtà i fenomeni che interagiscono sono molteplici e interdipendenti.
Sarebbe come considerare i delitti contro il patrimonio e la persona fuori dal contesto socio-economico-politico in cui i reati si manifestano. Penso a André-Michel Guerry, anch’egli avvocato (e statistico) ed alla sua “Statistica Morale”. Se si considerassero i delitti fuori dal contesto, si darebbero solo giudizi in astratto, aderenti più al senso comune e al desiderio di vendetta che a ragioni motivate.
Anche quello di Hubbert è un modello. Tutto sommato, le discussioni sul modello di Hubbert, circa il picco del petrolio rischiano di essere capziose e fuorvianti. Ce n’è quanto basta per ipotizzare che l’era del petrolio finirà molto prima che diventi troppo oneroso e sconveniente estrarlo. Pare che, se si considerano anche le sabbie bituminose, potenzialmente di petrolio ce ne sarà ancora per molti decenni. Però non è detto che risulterà remunerativo estrarlo. Anche nel Monte Rosa è provato che c’è l’oro ma non per questo si ritiene conveniente andarlo a prendere.
Seguendo Simonetti nei suoi ragionamenti si potrebbe dire che, finita l’era del petrolio, si possa comunque accedere alle alternative per produrre energia. Le fonti sono note: energia solare fotovoltaica, energia eolica, energia da biocarburanti… Si tratta solo di valutare quanto siano convenienti.
I biocarburanti, a conti fatti, costano molto più di quanto rendano. Per produrre un litro di etanolo servono quattromila litri di acqua: tanto è il prezzo da pagare per portare a maturazione i vegetali da cui si estrae il biocarburante. Oltre all’acqua, costa una deforestazione di 15 mq/litro.
Il fatto è che per “fare spazio” alle nuove produzioni vengono sottratti terreni arabili alle produzioni di alimenti per la nutrizione umana e animale. Si calcola che, nel caso italiano, per produrre bioetanolo necessario alla trazione dei 14 milioni di autoveicoli circolanti, con un consumo medio di mille litri p.c./anno, servano 5,4 milioni di ettari di terreno arabile; a fronte dei circa 13 milioni disponibili.
Tutto ciò sarebbe una contraddizione in termini, nel momento in cui è necessario trovare una quantità esponenziale di superfici coltivabili, vista la crescita esponenziale della popolazione mondiale; anche se ciò non riguarda direttamente un Paese come il nostro, il cui trend demografico è a saldo naturale negativo.
Ai costi meramente economici vanno sempre associati anche i costi indotti: e quelli ambientali sono tra questi. In un mondo complesso è difficile non tenerne conto.
La questione, alla fine, prescindendo dai limiti oggettivi dei modelli teorici, si può ridurre a una semplice domanda: è più forte l’intelligenza umana e la sua capacità di trovare soluzioni alternative nei momenti di criticità, o è più forte l’entropia, dove, oltrepassati certi limiti di “snervamento”, non è più possibile sfruttare la resilienza e si va inesorabilmente verso esiti infausti?
Gli ottimisti – ma vorremmo scrivere ‘gli incoscienti’ o, peggio, le persone in malafede e di pochi scrupoli – potrebbero tentare di convincerci che, in fondo, c’è sempre un rimedio e che, ahimè, con gli “effetti collaterali” bisogna imparare a convivere.
Altri, come noi, che pensano in modo sistemico e non ragionano solo coi break even point, ritengono invece che la valutazione del “tutto” sia sempre prioritaria e mai subordinabile agli interessi particolari.
Che World3 funzioni lo si può vedere anche valutando la quantità di anidride carbonica liberata in atmosfera, prevista dal modello, in confronto con quella effettivamente conteggiata. Anzi, per dirla tutta, il modello addirittura la sottostima: 300 p.p.m/mc, contro le 392 p.p.m./mc riscontrate.
Non di meno è correttissima l’analisi desumibile da World3 circa l’impiego di ammendanti in agricoltura, al fine di aumentare la redditività dei terreni e la progressiva perdita di fertilità, a causa delle arature profonde, della distruzione della fauna edafica, della salinizzazione del suolo.
Ciò che dicono i Meadows e loro coautori è perfettamente rintracciabile e sovrapponibile nelle note dei censimenti generali dell’agricoltura, industria e della popolazione, effettuati dall’ISTAT nel primo anno di ogni decennio.
Dunque, se mettiamo a confronto le previsioni di World3 con i dati ISTAT 1961-2011, abbiamo la conferma di come, su metà superfie coltivata si abbia una quantità quasi doppia di prodotti agricoli.
Il grafico mostra, nelle prime cinque rappresentazioni, l’aumento della produzione di grano duro, di mais, di riso, degli ammendanti chimici. L’ultimo quadro è dedicato al suolo in produzione. Come si può vedere, il trend di quest’ultimo è decisamente inverso rispetto a tutti gli altri.
Le terre arabili continuano a diminuire perché, dopo lo sfruttamento di qualche decennio, l’infertilità dei terreni è tale da ridurre drasticamente la resa; per cui non risulta più conveniente il rapporto ricavi/impieghi.
Allora si ricorre alle importazioni, ma anche i “granai” mondiali subiscono la stessa logica di sfruttamento intensivo; per cui il fenomeno dell’inaridimento diviene planetario.
Tutto questo, a fronte di una richiesta esponenziale di cibo; così come rappresenta dalla FAO nei sui annuari statistici.
(continua)