È incredibile come, parlando di diritti dei migranti, si finisca sempre per impantanarsi in astrazioni e massimi sistemi – pronti presto a degenerare in chiacchiere da bar – mentre la migrazione e i problemi correlati sono qualcosa di estremamente pratico e concreto.
La recente proposta della ministra italo-congolese Kyenge Kashetu di introdurre in Italia il principio della cittadinanza per ius soli ha scatenato uno stuolo di polemiche e opinioni positive, che quasi mai hanno centrato il nodo fondamentale, ma hanno semplicemente diviso l’opinione pubblica tra paladini dell”italianità’ e apologeti dei migranti come fattore di ricchezza nazionale.
Il fenomeno delle migrazioni non nasce genericamente per la povertà, ha la sua radice in trasformazioni sociali profonde e soprattutto molto rapide che non vengono metabolizzate opportunamente dal tessuto sociale. È successo così con le enclosures inglesi e la rivoluzione industriale in Europa e poi con la diffusione dello sviluppo occidentale in tutto il globo dopo la seconda guerra mondiale. Siamo tutti più o meno consapevoli delle guerre foraggiate dalle multinazionali per il controllo delle materie prime, e forse anche dei migranti costretti a fuggire a causa degli effetti del cambiamento climatico, ma come ha lucidamente analizzato Luciano Gallino, la prima fonte di emigrazione sono i progetti di sviluppo, in particolare l’introduzione delle tecniche di agro-business: “I campi vengono accorpati in proprietà di migliaia di ettari, mentre gli aratri tirati dal bue sono sostituiti dai trattori, i semi tradizionali da sementi geneticamente modificate, le falci dalle mietitrebbia. Da un punto di vista strettamente economico, i risultati sono strepitosi: la produttività pro capite, su quegli stessi terreni, può aumentare da 500 a 1.000 volte. Provocando, però, un lieve inconveniente. Se la produttività aumenta di mille volte, vuol dire che per coltivare quella medesima superficie occorrono mille volte di lavoratori in meno. Un piccolo numero dei contadini così privati dei loro mezzi di sostentamento – forse venti, forse cinquanta su mille – potranno trovare occupazione come salariati delle imprese che hanno acquisito i loro campi. Gli altri debbono sbrogliarsela”. Quasi nella totalità dei casi quest’agricoltura è destinata all’esportazione o a usi diversi da quelli alimentari, come la produzione di agrocarburanti.
Insomma, gli esodi dal sud del mondo sono una parte integrante del processo di accumulazione capitalista post-fordista, che ha sfruttato la forza lavoro migrante approfittando della sua debolezza sociale, anche come grimaldello per scardinare le tutele sindacali dell’epoca fordista. Aderire al progetto della globalizzazione neoliberale – che potremmo sinteticamente chiamare l’ideologia della crescita per la crescita – e condannare l’emigrazione è quindi come volere la botte piena e la moglie ubriaca.
Per la verità non sarebbe un’analisi troppo complessa, ma sembra sfuggire persino a illustri cattedratici, che preferiscono brandire la penna rossa senza riflettere accuratamente; ecco cosa ha scritto il morigerato Giovanni Sartori sul Corriere: “La brava Ministra ha anche scoperto che il nostro è un Paese «meticcio». Se lo Stato italiano le dà i soldi si compri un dizionarietto, e scoprirà che meticcio significa persona nata da genitore di razze (etnie) diverse. Per esempio il Brasile è un Paese molto meticcio. Ma l’Italia proprio no. La saggezza contadina insegnava «moglie e buoi dei paesi tuoi». E oggi, da noi, i matrimoni misti sono in genere ferocemente osteggiati proprio dagli islamici. Ma la più bella di tutte è che la nostra presunta esperta di immigrazione dà per scontato che i ragazzini africani e arabi nati in Italia sono eo ipso cittadini «integrati». Questa è da premio Nobel. Mai sentito parlare, signora Ministra, del sultanato di Delhi, che durò dal XIII al XVI secolo, e poi dell’Impero Moghul che controllò quasi tutto il continente Indiano tra il XVI secolo e l’arrivo delle Compagnie occidentali? All’ingrosso, circa un millennio di importante presenza e di dominio islamico. Eppure indù e musulmani non si sono mai integrati. Quando gli inglesi dopo la seconda guerra mondiale se ne andarono dall’India, furono costretti (controvoglia) a creare uno Stato islamico (il Pakistan) e a massicci e sanguinosi trasferimenti di popolazione. E da allora i due Stati sono sul piede di guerra l’uno contro l’altro”
Evidentemente neppure Sartori conosce troppo bene il sultanato di Delhi e i Moghul i quali, a differenza dell’Italia attuale e dell’India post-coloniale, non erano Stati-nazione e il diritto di cittadinanza si acquisiva tramite criteri di partecipazione alla comunità completamente diversi dai burocratismi attuali: non è un caso che la situazione in India e Pakistan sia precipitata proprio quando si è voluto introdurre la forma dello Stato-nazione europeo. E le moderne nazionalità europee a loro modo sono invece un perfetto esempio di meticciato, in quanto amalgama tra popolazioni romane e barbare pienamente riuscito con l’avvento del feudalesimo. Si vede che il contadino predicava di moglie e buoi senza andare molto indietro nell’albero genealogico.
Per altro, è difficile capire cosa passi per la testa a Sartori quando opera un confronto diretto tra gli islamici Moghul – cioé un popolo con una propria unità politica e culturale, penetrato in India con precisi intenti di conquista – e i migranti attuali, provenienti dalle più disparate zone del mondo e giunti in Europa in condizioni precarie, spinti dalla disperazione. Speriamo che lo Stato italiano gli dia qualche soldo per comprarsi un manualetto di storia.
Lo ius soli si presenta quindi come un tentativo di ovviare, almeno parzialmente, alle ingiustizie del sistema di potere planetario, tuttavia non è affatto privo di aspetti oscuri.
In particolare, la giustificazione fondamentale per lo ius soli non riguarda il diritto o considerazioni sulla dignità umana, bensì ragioni grettamente economiche, il fatto che circa il 10% del PIL nazionale si debba a forza lavoro straniera (dati de Il Sole 24 ore); insomma, sarebbe una specie di ricompensa come quella che si elargiva allo schiavo quando veniva affrancato per la fedeltà e la dedizione mostrate verso la famiglia proprietaria.
Se Gandhi fosse ancora vivo probabilmente condannerebbe questa posizione così come condannava la Croce Rossa per il suo umanitarismo neutralista nei conflitti. Invece di sottolineare le cause che creano questa esclusione planetaria e di intervenire su di esse, le si legittima cosicché, mentre i migranti arricchiscono l’Italia, indeboliscono fatalmente i propri paesi di origine. Pertanto, limitarsi allo ius soli equivale a tamponare un’arteria recisa con un semplice cerotto.
La triste realtà è che i problemi di integrazione posti dalle dalle migrazioni attuali non possono trovare una soluzione (che non sia meramente burocratica) all’interno della cornice dello Stato-nazione. Hannah Arendt, in Le Origini del totalitarismo, fece notare che – con buona pace dell’ideologia illuminista – il singolo cittadino, atomizzato dal corpo sociale, non è portatore di alcun diritto (né individuale né tantomeno universale), ma lo diventa grazie all’inserimento in una comunità; da ciò dedusse la tendenza degli Stati totalitari a isolare intere fasce di popolazione cercando di renderle apolidi in patria, cosa che permetteva le peggiori persecuzioni fino all’eliminazione fisica. In effetti i moderni CPT altro non sono che una versione edulcorata dei campi di concentramento, centri di raccolta di ‘vite di scarto’ anonime e incapaci di elevarsi a comunità.
La soluzione può venire solo dalla formazione di nuove comunità, consapevoli del meccanismo di accumulazione e del ruolo che ricoprono – per lo più loro malgrado e a diverso titolo– come ingranaggi della mega-macchina globale. Ma soprattutto coscienti del fatto che questo è l’unico pianeta che abbiamo e che stiamo servendo un sistema che non solo ne opera distruzione, ma semina ingiustizia diffusa, sacrificando una fetta sempre più consistente di persone sull’altare della sua presunta efficienza.
Nulla di facile all’orizzonte, perché diversa è l’entità delle ingiustizie subite e il grado di benessere materiale individuale che ognuno ottiene dal sistema; in più la complessità sociale è tale da favorire più un clima di vittimismo insofferente e quindi di scontro, che di solidarietà generalizzata. La legittima aspirazione comunitaria può degenerare in forme di distorte di revanscismo identitario, dalle gang a base etnica, alle sette integraliste fino alle ronde cittadine e al nazionalismo dell’estrema destra, tutte espressioni dichiaratamente ‘anti-sistema’ e che invece lo rafforzano come una cura omeopatica.
Se la Kyenge e il suo governo puntano a una scelta che giustifichi la disuguaglianza tra eguali, le nuove comunità dovrebbero cercare di mettere da parte il proprio particulare (come lo chiamava Guicciardini) in favore del bene comune, instaurando una vera uguaglianza tra diseguali. E soprattutto auspicando un nuovo umanesimo ecologico al posto di un bieco e ipocrita umanitarismo economicista.
Sono un cittadino italiano nato in Brasile 58 anni fa. Conservo ancora gelosamente il mio passaporto brasiliano con cui viaggiai nel rientro in Italia nel ’61. Sono stato allattato da balie nere che vendevano agli ospedali il loro latte per pochi cruzeiros (all’epoca) poichè mia madre non ebbe la montata lattea. Sarà anche per questi motivi che non riesco a concepire alcuna forma di razzismo o anche soltanto di discriminazione. Ciò che mi ha subito colpito nel suo bell’articolo è la totale assenza della parola “razzismo” . Credo che invece se ne dovrebbe parlare apertamente, perchè ritengo che sia quello il problema, e che le origini economico-politiche dei fenomeni migratori nella storia dell’umanità colgano solo un aspetto del problema. L’umanità è nata nomade ed è divenuta stanziale solo dopo la “scoperta” di agicoltura ed allevamento, il nomadismo (oggi emigrazione) è rimasto endemico in tutte quelle popolazioni che non riescono a produrre da soli progresso e tecnologia, o che non possono stare al passo con le nazioni più evolute. Guerre politiche e religiose (ma c’è differenza?), cambiamenti climatici, pratiche di iper-sfruttamento delle risorse naturali hanno di certo avuto un ruolo devastante nell’accentuare questo fenomeno. Ma che c’entra tutto questo con lo “ius soli”? Qui non si tratta di giustificare un ipocrita umanesimo economicista, come dice Lei, ma semplicemente di dare sacrosanti diritti a chi dovrebbe averli dalla nascita, come me e Lei. Sarebbe solo un riconoscimento formale, perchè l’integrazione di certo non si può obbligare per legge. Ed è qui che il problema diviene culturale, la strada è lunga ma è l’unica da percorrere, con tenacia, perchè il meticciato è l’unica strada maestra verso un umanesimo senza aggettivi, a dispetto – e me ne dolgo- di ciò che incomprensibilmente scrive Sartori.
E’ vero, non ho parlato di razzismo perché la mia polemica era riferita alla Kwenge e a Sartori, che non credo ne soffrano. Ma ovviamente è un problema, anzi IL problema nel momento in cui giustifica disparità tra esseri umani. In questo momento sto rispondendo da un albergo di Coventry, in uno stato come l’Inghilterra sicuramente avanti in fatto di integrazione, ma noto con un certo sconcerto che, più ci si allontana dal managemente per arrivare ai lavori manuali e di pulizia, le tinte della pelle passano gradatamente dal chiaro allo scuro…,
Ho una parte della mia famiglia materna che è emigrata in Argentina, e si tratta di una storia felice molto simile alla sua, ma credo che la differenza fondamentale sia nel fatto che la mia e la sua famiglia sono emigrate non solo in degli stati, ma in delle comunità i cui membri erano integrati prima di tutto tra loro stessi.Oggi invece i migranti giungono in una nazione come l’Italia fatta per lo più di gente atomizzata, dove spesso il proprio vicino di casa è il peggior nemico… quindi resta sola l’integrazione burocratica attraverso lo Stato-nazione, che per sua natura non è particolarmente ricca di risvolti umani. Quindi lo ius soli c’entra perché, ora come ora, è l’unico modo per garantire il rispetto almeno formale dei diritti.
Una cosa su cui invece non sono molto d’accordo è l’equazione immigrazione=nomadismo… la distruzione dei tessuti economici e sociali attraverso i giochi del libero mercato globale ha un’influenza molto più elevata.
Concordo sul punto finale: è una questione culturale, ma aggiungerei anche politica.