Movimento per la Decrescita Felice (MDF) ha diffuso sul suo sito Web la diffida climatica nei confronti del governo italiano riguardo al progetto TAP, sostenuta da 18 associazioni e mille cittadini. Sulla scorta dell’ultimo rapporto ONU-IPCC Global Warming of 1.5°C, se ne conclude che:
– non c’è più tempo per nuove opere fossili climalteranti come nuovi gasdotti;
– il metano non è affatto una fonte di transizione, perché dannoso quanto il petrolio e persino di più;
– l’unica via di uscita per non arrivare al c.d. “punto di non ritorno” – ossia non riuscire più a controllare i cambiamenti climatici – è quello di avviare grandi investimenti e infrastrutture diverse da quelle fossili;
– abbiamo solo dodici anni per prendere queste decisioni coraggiose.
Alcuni utenti del gruppo Facebook di MDF hanno contestato il documento e, a parte genialoidi che hanno partorito commenti del tipo ‘che cazzata’ o ‘fesserie a gogò’, qualcuno ha provato ad argomentare in maniera più sensata. E’ interessante esaminare tali considerazioni perché utili a demolire molta della mitologia che circola intorno al gas, oltre che al TAP.
Centralità del gas per l’Italia
Chi esalta il valore strategico del gas lascia intendere che i consumi italiani siano in crescita o comunque costanti nel tempo. In realtà, l’impiego del metano e la relativa importazione hanno raggiunto un picco intorno al 2005 per poi crollare sui valori di inizio anni Novanta.
Fonte: ASPO
In tale contesto, il nostro paese riesce più che sufficientemente a mantenersi con l’attuale approvigionamento senza ricorrere a importazioni dell’Azerbaigian (paese da cui origina il TAP), limitando al 12% il contributo del gas naturale liquido (GNL) e rendendo quindi difficilmente credibile l’ipotesi del complotto della Exxon per sobillare le popolazione contro i gasdotti (esistono del resto anche agguerriti comitati cittadini contro i rigassificatori, essenziali per sfruttare il GNL. Forse aizzati dai costruttori delle pipeline?).
Incidenza importazioni italiane di gas per nazione (fonte: MISE)
Sicurezza approvvigionamento
“Diversificare le fonti di approvvigionamento contro i rischi di instabilità politica dei paesi esportatori” è uno dei principali slogan a sostegno del TAP. Benché l’Azerbaigian venga frequentemente descritto come una delle nazioni più stabili dell’area caucasica, c’è qualcosa di abbastanza inquietante nella sua solidità politica: la famiglia Aliyev mantiene initerrottamente la presidenza da venticinque anni (nel 2003 il figlio è succeduto al padre), Amnesty International ha più volte denunciato il carattere autoritario del governo, che nel 2017 è stato sospeso dall’iniziativa internazionale di trasparenza su petrolio e gas (sostenuta dalla European Bank for Reconstruction and Development) a causa della repressione esercitata sulla società civile. La divisione dedicata all’analisi dei mercati esteri della Farnesina descrive il classico quadro del paese periferico che vincola il proprio benessere all’esportazione di materie prime grezze, rimanendo così facilmente vittima delle fluttuazioni dei prezzi delle commodity; l’indice di sviluppo umano è inferiore ad altri stati dell’area ex-sovietica (vedi Georgia, Kazakistan, Bielorussia), anche perché quasi la metà del ‘tesoro’ di idrocarburi è destinato all’esportazione (i sovranisti-protezionisti di casa nostra che appoggiano il TAP inneggiando alla ‘sicurezza energetica’ saranno sicuramente felici dell’atteggiamento globalista-liberoscambista dei governanti di Baku). Insomma, per molti versi la situazione azera appare ‘stabile’ quanto quella di una polveriera prima di esplodere.
Riguardo agli aspetti prettamente economici, non si conoscono le ragioni che hanno spinto Matteo Salvini ad affermare con certezza che il TAP permetterà alla famiglie di ridurre del 10% i costi per l’energia, non esistendo alcuna relazione ministeriale in proposito. E’ prevista una portata del gasdotto di 10 miliardi di metri cubi l’anno raddoppiabili tramite opporture opere di potenziamento che, a fronte di riserve metanifere accertate in territorio azero di poco più di 900 miliardi di metri cubi (25° nazione al mondo per disponibilità) sulla carta significherebbero almeno una quarantina d’anni di longevità della pipeline.
Tuttavia, chi conosce anche a livello elementare i meccanismi in gioco nell’estrazione di idrocarburi sa bene che la realtà è ben più complessa di tali calcoli ingenui. Ad esempio, le riserve di petrolio dell’Azerbaigian in confronto sono ancora più abbondanti (20° nazione al mondo), ma la produzione di greggio è decisamente declinata a partire dal 2008-10. Nel medesimo periodo, quella di gas naturale ha bruscamente raggiunto un plateau.
Produzione e consumo gas naturale azero (fonte: BP Statistical Review 2017)
Lo sfruttamento intensivo delle risorse dipende quindi da una dinamica molto più complessa, influenzata da entità della domanda (a sua volta condizionata dalla congiuntura internazionale), prezzi consoni alle esigenze dei produttori e, ultimo ma non ultimo, la quotazione del petrolio, i cui prodotti derivati sono essenziali per il funzionamento dell’intera filiera del metano.
Metano pulito
La reputazione ambientalista del metano rispetto a petrolio e carbone deriva dal fatto che la sua combustione produce meno anidride carbonica dei colleghi fossili (a parità di condizioni, il petrolio ne emette approssimativamente il 40-50% in più e il carbone il doppio); inoltre, non rilascia residui carboniosi, benzene e polveri ultrasottili PM10, a differenza di benzine e gasolio
Ciò nonostante, il metano incombusto è un gas serra con capacità di trattenere il calore circa trenta volte maggiore rispetto all’anidride carbonica. In tutto il ciclo produttivo, dall’estrazione fino all’impiego vero e proprio, quanto ne viene rilasciato in atmosfera?
Il chimico Claudio Della Volpe, in un articolo pubblicato lo scorso anno sul blog La chimica e la società, ha studiato la letteratura scientifica esistente sulle emissioni di gas incombusto, stimandone l’impatto in modo da proporre un quadro più realistico delle virtù ecologiche del metano. Vista la complessità dell’argomento, posso solamente rimandare a un’attenta lettura del contributo; mi limito qui a riportarne le conclusioni:
…dare per scontato il vantaggio del metano ed investire sul metano potrebbe costituire una strategia sbagliata; nell’immediato i dati mondiali sono tali da concludere che la sostituzione è nei primi 20 anni certamente peggiorativa rispetto al petrolio e potrebbe risultare utile solo rispetto al carbone sul lungo periodo. Sul lungo periodo, nel quale le cose migliorerebbero da qua a cento anni, dovremo comunque essere passsati ad altre fonti e la conclusione è che il metano non ci da una mano, anzi è peggiorativo rispetto al passaggio diretto all’elettrico.
La strategia in corso nel mondo è il passaggio alle rinnovabili; la strategia da attuare per tener fede all’impegno di Parigi 2015 è passare alle rinnovabili; non ci sono alternativi o trucchi fossili di alcun tipo. Occorre con rapidità stimare le perdite di metano in Europa e porvi rimedio se possibile per sostituire il metano al carbone in alcune delle centrali elettriche, ma in tutti i casi in cui il confronto è metano-petrolio questo è un falso problema e la scelta di una nuova sorgente sarà per l’elettrico non per il gas naturale.
A integrazione delle riflessioni di Della Volpe, ricordiamo che anche la produzione e il consumo di elettricità in Italia hanno raggiunto il picco intorno al 2005 e che da allora l’unica fonte in ascesa sono le rinnovabili.
Fatto ancora più importante, l’allarmante ultimo rapporto dell’IPCC, che lascia solamente dodici anni di tempo per iniziative radicali al fine di contenere la minaccia climatica, ridimensiona ulteriormente le credenziali ambientaliste del metano, forse valide ancora venti o trent’anni fa, prima che il problema delle emissioni degenerasse. Di conseguenza, l’apporto del gas naturale ha senso solo all’interno di una strategia che preveda di accantonare il carbone e ridurre complessivamente il fabbisogno energetico – compresa la quota già occupata dal metano – rendendo preponderanti le rinnovabili. Una semplice politica ‘di sostituzione’ delle altre fossili che elevi il gas naturale a protagonista indiscusso, come quella vagheggiata dalla Strategia Energetica Nazionale, non è assolutamente idonea a fronteggiare il global warming.
Nel caso specifico dell’Italia, il rapporto EU and the Paris climate agreement: Taking stock of progress at Katowice Cop fa notare come il nostro paese rischi di non ottemperare totalmente agli obiettivi al 2030 intrapresi per aderire all’intesa del Protocollo di Parigi, traguardo da cui tuttavia non siamo troppo distanti, fatto che dovrebbe incentivare scelte coraggiose e non inutili retromarce sul sentiero delle fossili.
Onestà intellettuale, salvaci tu
In un recente articolo su DFSN, ho espresso tutta la mia preoccupazione per il clima fazioso pro o contro l’attuale maggioranza di governo che sembra aver preso piede anche tra i sostenitori della decrescita. Da questo punto di vista, personalmente mi sento con la coscienza a posto: per quanto abbia sempre osteggiato la componente leghista dell’esecutivo (e in particolare il suo focoso leader Salvini), ho denunciato il tentativo di Mattarella di abusare delle prerogative presidenziali mettendo i bastoni tra le ruote all’intesa M5S-Lega con il caso Savona e nel precedente articolo pubblicato su questo blog ho avallato la decisione di ignorare la bocciatura del documento di di economia e finanza (DEF) da parte della Commissione Europea (anche se non per la bontà della manovra in sé).
Alla luce di ciò, ora non mi pongo alcun problema a criticare la linea governativa sulla questione TAP, ossia la decisione di proseguire la costruzione dell’opera adducendo ipotetiche penali da pagare. Mostrando la medesima fermezza opposta alle possibili sanzioni della UE per il rifiuto a modificare il DEF, bisognava reclamare il diritto a bloccare il gasdotto enfatizzando l’importanza di combattere concretamente la piaga del cambiamento climatico, le cui conseguenze costeranno molto più di 20 miliardi di Euro (si stima che solo i danni da maltempo ogni anno ammontino a 7 miliardi a causa dell’intensificarsi delle precipitazioni). Il governo sedicente nemico delle lobby ha perso un’occasione fondamentale per anteporre le esigenze di popolazione e ambiente a quelle dell’economia – mai come questa volta “prima gli italiani” sarebbe stato un motto azzeccato – una posizione che poteva appellarsi non solo alle preoccupazioni dell’ONU ma anche alle recenti decisioni della Corte distrettuale dell’Aia, la quale (come ricordato nel documento diffuso da MDF) nel 2014 ha riconosciuto che il mancato impegno di uno stato nell’attuare efficaci misure contro il global warming è da intendersi quale violazione dei diritti umani dei propri cittadini. Ovviamente, occorreva uscire dall’orizzonte limitato della polemica TAP-uliveti pugliesi, delle sentenze del TAR e delle valutazioni di impatto ambientale, inserendo la questione del gasdotto in un contesto più ampio comprendente interventi a tutto campo e profonde ridefinizioni delle politiche energetiche, attuando una vera e propria rivoluzione copernicana del settore di cui il M5S delle origini si era fatto portatore (non a caso il programma sull’energia era stato affidato a Maurizio Pallante), certo molto improbabile quando il tuo alleato di governo organizza iniziative pubbliche per propagandare il negazionismo climatico.
In definitiva, anche se oggettivamente parlando il TAP rappresenta una goccia nel mare del degrado ecologico planetario, l’atteggiamento rinunciatario con cui è stata affrontata la questione e, soprattutto, il tradimento delle aspettative di un popolo che si era genuinamente organizzato a difesa di un territorio rivendicando a livello locale istanze assolutamente valide sul piano globale, rischiano di produrre conseguenze molto più gravi e durature. La delusione è incline facilmente a corrompersi in nichilismo e, come insegnano i successi elettorali di Trump e Bolsonaro, il sonno della speranza genera mostri.
Immagine in evidenza: tratto albanese del gasdotto TAP (fonte: Wikipedia).