Ho molto rispetto dell’ecologia profonda, filosofia apprezzata da tanti decrescenti, così come di tutti i movimenti e le correnti di pensiero realmente incentrati sulla salvaguardia del pianeta. Se volessi criticare con faziosità, sicuramente accennerei a certe degenerazioni misticheggianti fino alla misantropia – qualcuno ha addirittura presentato l’AIDS o le carestie come meccanismi di autoregolazione naturali – ma sarebbe appunto un comportamento in malafede, perché esse tradiscono lo spirito originario del suo ideatore, il filosofo norvegese Arne Naess.
Il nucleo centrale dell’Ecologia profonda si basa su queste otto proposizioni fondamentali:
1.Il benessere e il fiorire della Terra vivente e delle sue innumerevoli parti organiche/inorganiche hanno un valore in sé.
2.La ricchezza e la diversità degli ecosistemi della Terra, come pure delle forme organiche che alimentano e sostengono, contribuiscono alla realizzazione di questi valori e sono anche valori in sé.
3.Gli umani non hanno alcun diritto di ridurre la diversità degli ecosistemi della Terra ed i loro costituenti vitali, organici ed inorganici.
4.Il fiorire della vita e della cultura umane è compatibile con una sostanziale riduzione della popolazione umana. Il fiorire creativo della Terra e delle sue innumerevoli parti richiede come necessaria tale diminuzione.
5.L’attuale interferenza umana con il mondo non-umano è eccessiva e la situazione sta peggiorando rapidamente.
6.Si devono cambiare le politiche attuali. Tale cambiamento riguarda i fondamenti dell’economia e le strutture tecnologiche e ideologiche.
7. Il cambiamento ideologico è principalmente quello di apprezzare la qualità della vita piuttosto che aderire all’illusione di un tenore di vita sempre più alto.
8.Coloro che sottoscrivono i punti sopra elencati prendono l’impegno di partecipare ai tentativi di implementare le necessarie modifiche.
Istintivamente, condivido tutti e otto i principi, fatta eccezione per l’eccessiva generalità con cui viene affrontato il punto relativo alla sovrappopolazione (ne ho trattato in diverse occasioni su DFSN). Provo però una perplessità di fondo.
Personalmente credo nel valore etico di una humanitas universale, tuttavia, non so quanto sia utile in riferimento a una faccenda essenzialmente pragmatica come l’inquinamento ambientale, dove le responsabilità al riguardo variano enormemente. Riporto un estratto di un libro di Murray Bookchin (Per una società ecologica), che può aiutare a inquadrare la questione:
“Non c’è bisogno di andare in California per trovare un’accozzaglia di mistici e guru che hanno del problema ecologico e dei suoi fondamenti questa visione asociale e centrata sulla specie. New York va altrettanto bene. Non dimenticherò tanto facilmente la mostra «ambientalista» organizzata negli anni ’70 dal Museo di Storia Naturale di quella città, con una lunga serie di scenografie che mostravano al pubblico esempi di inquinamento e distruzione ecologica. L’ultima di esse, quella che concludeva la mostra, portava l’incredibile titolo «L’animale più pericoloso della Terra», e consisteva unicamente di un grande specchio che rifletteva l’immagine del visitatore che si fosse trovato a sostare di fronte ad esso. Ho ancora in mente l’immagine di un bambinetto nero che guardava lo specchio, mentre il suo maestro bianco cercava di spiegargli il messaggio che l’arrogante scenografia tentava di comunicare. Non c’erano scenografie rappresentanti gli staff dirigenziali delle industrie che decidono di disboscare montagne intere o funzionari governativi che agiscono in collusione con essi. Il messaggio della rappresentazione era uno solo, fondamentalmente antiumano: sono gli individui come tali, non la società rapace e coloro che ne beneficiano, ad essere responsabili degli squilibri ecologici, i ceti poveri tanto quanto quelli ricchi, la gente di colore non meno dei bianchi privilegiati, le donne non meno degli uomini, gli oppressi non meno degli oppressori. Una mitica «specie umana» rimpiazza così le classi, gli individui rimpiazzano le gerarchie, i gusti personali (molti dei quali sono modellati dai media) rimpiazzano i rapporti sociali, e i diseredati che vivono magre ed isolate esistenze rimpiazzano le multinazionali, le burocrazie aggressive e le manifestazioni violente dello Stato” (Murray Bookchin, Per una società ecologica)
Intendiamoci: non sostengo che la situazione descritta da Bookchin sia una logica conseguenza delle tesi dell’ecologia profonda, bensì che sia molto facile giungervi attraverso un’adesione acritica. Si rischia di far passare l’inquinamento – e quindi tutte le ideologie che lo sottendono, capitalismo in primis – come un peccato originale dell’umanità, mentre la rottura dei vincoli ecologici avvenuta con l’industrialismo è un fatto recente nella storia umana, datato poco più di due secoli; inoltre le comunità sono state spesso costrette con la forza ad abbandonare le consuetudini ecologiche per abbracciare la civiltà industriale, come ben descritto da Marx e Polanyi. Persino il capitalismo consumista ed edonista del boom economico è riuscito a imporsi solo dopo il più grande sforzo produttivo e propagandistico mai profuso, ciononostante ha incontrato forti sacche di resistenza e contestazione negli anni Sessanta del XX secolo. E sto volutamente limitando questa descrizione al mondo occidentale e non ad altre zone del globo dove le opposizioni sono state e sono tuttora molto più forti.
L’ecologia profonda non tiene conto di tutte le variabili indicate da Bookchin, della dominazione dell’uomo sull’uomo e delle istituzioni che cercano effettivamente di provocare un mutamento antropologico in direzione dell’homo consumens; invita soltanto ‘a cambiare le politiche’. Presentare l’umanità come un’entità unica e omogenea è un’ottima idea sul piano filosofico e spirituale, ma in termini pratici significa legittimare la disuguaglianza degli uguali, un fatto profondamente ingiusto.
C’è un’altra obiezione di Bookchin che merita attenzione. È fuor di dubbio che “l’attuale interferenza umana con il mondo non-umano è eccessiva”, ma bisogna prendere le distanze dalla mitologia della wildness, la natura selvaggia intaccata ignominiosamente dall’uomo. La nostra specie ha ricevuto dalla natura la possibilità di modificare l’ecosistema in cui vive:
“E’ un luogo comune che ogni impresa umana ‘interferisce’ necessariamente con la natura ‘pura’, ‘vergine’. Questo concetto, che suggerisce l’ipotesi che gli esseri umani e il loro operare siano intrinsecamente ‘innaturali’ e in un certo senso antitetici alla ‘purezza’ e alla ‘verginità’ della natura, offende sia l’umanità sia la natura… Dobbiamo attentamente domandarci se la società umana deve essere considerata ‘innaturale’ in quanto coltiva il suo cibo, alleva animali, taglia alberi… in breve, in quanto ‘manomette’ un ecosistema… Ma tutti questi atti di apparente ‘contaminazione’ possono benissimo potenziare la fecondità della natura anziché ridurla…Rendere la natura più feconda, variata, intera e integrata può essere lo scopo nascosto dell’evoluzione naturale. Che gli esseri umani diventino soggetti razionali attivi di questa tendenza espansiva naturale (di cui essi stessi beneficiano, ad esempio, sotto forma di maggiori e maggiormente variate quantità di cibo), non è una ‘contaminazione’ della natura, come non lo è il cervo che, nutrendosi della corteccia degli alberelli, limita la crescita della foresta e protegge i prati” (Murray Bookchin, L’ecologia della libertà)
Auguro all’ecologia profonda, nelle sue varianti ragionevoli e più umanistiche, una diffusione sempre maggiore. Spero però che i suoi adepti siano sempre capaci di distinguere tra il tono generale delle aspirazioni filosofiche e la complessità e la particolarità che contraddistinguono il mondo reale e le sue necessità sul piano politico.
Immagine in evidenza: Arne Naess, in una foto del 2003 (fonte: Wikipedia)
vis medicatrix naturae o, per meglio aderire alla lettera di quanto affermato da Ippocrate νονσων φνσεις ιητροι.
Evidentemente questo pensiero può avere credito in un sistema equilibrato, dove gli agenti negativi possono essere corretti da quelli positivi.
Dove, in sostanza, la somma algebrica dei “-” e dei “+” è quasi sempre positiva.
Ma, dalla Rivoluzione Industriale in poi, di tutto si può parlare, tranne che di “equilibrio”.
Per estendere il ragionamento sull’ Ecologia Profonda è necessario, a mio avviso, scomodare due concetti ugualmente importanti:
1) l’idea di “comunità”
2) la differenza tra antropocentrismo e biocentrismo.
Secondo Marc Dufrene e Pierre Legendre una comunità ecologica è in equilibrio “quando il rapporto numerario tra le specie che occupano un medesimo areale è equiprobabile”.
In realtà tale equilibrio è solo teorico; in quanto varia continuamente al variare dei fattori che interagiscono e condizionano il suolo, e, conseguentemente, l’abbondanza/penuria di cibo.
Ma, se escludiamo le grandi calamità naturali, ciò che ha portato squilibrio negli ecosistemi è l’Uomo.
Le “cause efficaci” che l’Uomo ha introdotto nei cicli naturali sono tali da alterare la possibilità di una rigenerazione, per effetto del vis medicatrix naturae.
Possiamo dare tutti i giudizi che vogliamo sul sovrappopolamento e i suoi effetti.
Rimane il fatto oggettivo che, dalla metà del XVIII secolo in poi, la popolazione mondiale è cresciuta dai circa 500 milioni (attorno al 1650) agli attuali 7 miliardi: quattordici volte tanto.
E’ vero, come hai sostenuto tu, Igor, in un altro articolo, che il problema è il footprint piu’ che il sovrannumero.
Non di meno, in termini di Ecologia Profonda, la crescita esponenziale della popolazione ha sconvolto, e non poco, gli ecosistemi.
Ogni anno sono centinaia le specie che si estinguono. In parte ciò è sempre avvenuto; ma, in maggioranza, ciò dipende proprio dai mutamenti dell’ecosistema.
Alla domanda: “la specie umana è innaturale?” Per molti versi la risposta è : “si”.
Lo è proprio perchè l’antropocentrismo è cosa diversa dal biocentrismo e l’Uomo non si sente parte del “tutto” ma depositario della rendita biblica; cioè del fatto di essere signore e padrone delle altre specie.
Nel migliore dei casi, l’antropocentrismo “intelligente” ammette la necessità di “tutelare” le specie: in un’ottica museale, conservativa; come, per esempio, limitando il “prelievo” di cinghiali.
Ma mai ammetterà che se la popolazione di cinghiali cresce a dismisura è perchè sono diminuiti i suoi nemici naturali; perchè sono stati sconvolti gli habitats, introdotte specie non autoctone, piu’ prolifiche.
All’antropocentrismo “intelligente” possiamo ascrivere anche certo ambientalismo, le idee della “green economy”; quando tutto questo corrisponde all’ottica di regolare, attutire, l’impatto antropico piuttosto che riconoscerlo come la ragione fondante delle compromissioni degli ecosistemi.
E’ vero che l’umanità non è un’entità omogenea e che esistono brutali differenze tra nord e sud del mondo.
Non di meno i danni arrecati col disboscamento delle foreste, le monocolture, la caccia indiscriminata a molte specie per trarne lucro ,come lo sterminio degli elefanti per ottenere avorio dalle zanne, non sono fatti marginali, se ragioniamo di ecosistemi.
Come ho ribadito nell’articolo, penso che l”innaturalità’ della specie umana, se così la possiamo chiamare, è il fatto che oramai esistono così tanti gruppi umani distinti per pressione sulla biosfera che parlare di ‘genere umano’ in senso unitario ha senso solo sul piano filosofico (la dignità dell’uomo, i diritti dell’uomo ecc) e ben poco su quello pratico. Perché come ricorda Bookchin le discrepanze non sono solamente nord-sud del pianeta, ma anche all’interno delle singole società.
Sento anche una forte puzza di occidente-centrismo in questo Uomo ‘signore e padrone delle altre specie”, definizione che potrà riguardare si è no un miliardo e mezzo di individui, mentre un numero almeno pari non è padrone neppure di se stesso.
Ben venga quindi la filosofia, specialmente se – è nel caso dell’ecologia profonda non ho dubbi – si tratta di buona filosofia. Ma non confondiamola con la politica e con le responsabilità correllate alla crisi ambientale. Altrimenti tutti colpevoli=nessun colpevole.
L’altro giorno mi recavo in moto attraverso un campus universitario, apparentemente un luogo di non molto traffico e ciononostante mi sono fermato per raccogliere uno scoiattolo morto in mezzo alla strada.
La tristezza che ho provato mi ha fatto pensare.
Ci fosse stato un incidente con morto umano, o eventualmente un cane o un gatto investiti (come accade molto spesso purtroppo) non sarei stato altrettanto triste, perche`?
Lo scoiattolo non partecipa alla nostra societa` come fanno cani, gatti, piccioni, ecc… che in un modo o nell’altro hanno convenienza nel vivere tra di noi ed imparano a farlo. Lo scoiattolo e` felice di mangiare cio` che trova sugli alberi, che noi a volte lasciamo ancora esistere nelle citta`, quindi e` una vittima innocente del nostro cemento, del nostro “progresso”; lo scoiattolo non e` tenuto a sapere che non si attraversano le strade asfaltate.
In questo senso, sono perfettamente d’accordo con lo specchio che mostra l’uomo, qualunque esso sia, come responsabile della distruzione del mondo.
Che poi la distruzione della natura sia… una cosa naturale, e` una ovvia tautologia.
L’umanita` e` responsabile delle desertificazioni da millenni, la curva distruttiva esponenziale e` cominciata decine di migliaia d’anni fa. Ma chi capisce la matematica si rende conto che una curva esponenziale ci mette tantissimo tempo (quasi infinito) a farsi sentire, ma quando comincia a crescere lo fa rapidissimamente ed in modo inesorabile.
L’esponenziale cresce in proporzione alla sua stessa velocita` di crescita (una elegante proprieta` matematica) ed ha cominciato a farsi sentire con la rivoluzione industriale.
Che poi il “sud” del mondo non sia responsabile e` una utopia. L’oriente (3 miliardi di persone) vuole crescere anche piu` dell’occidente, la gente fa il mutuo per comprarsi l’i-phone perche` non ne puo` fare a meno e dell’ecologia non importa nulla a nessuno (salvo irrilevanti minoranze), anzi, la cultura cinese e` completamente volta al dominio sulla natura.
Insomma, qualitativamente siamo certamente tutti colpevoli.
Una volta accettato tale concetto possiamo anche fare delicati distinguo tra il capitano di industria che avvelena ed ammazza consapevolmente decine di migliaia di concittadini ed il poveraccio che getta a terra il mozziccone di sigaretta…
Non sono d’accordo Giulio, non si tratta di ‘delicati distinguo’. Io in questo momento potrei desiderare di sterminare tutta Ravenna, ma nella mia vita non ho mai fatto del male a nessuno e non posso essere incriminato per omicidio. Il bambino del Biafra vorrà diventare Bill Gates ma sta morendo di fame. Chi fa un mutuo per l’i-phone spreca dei suoi soldi e della sua vita, non è come fare miliardi devastando l’Amazzonia. Se mi dici che queste situazioni meritano solo ‘delicati distinguo’ vuol dire essere diventati nichilisti senza più alcun concetto di etica e morale.
Caro Igor,
certamente ne tu ne io possiamo essere incriminati di omicidio secondo le leggi della giurisprudenza e dell’etica comunemente accettate.
Pero` ogni volta che io faccio il pieno di benzina o compro cose che vengono dall’altro capo del mondo mi sento perlomeno complice del sistema che ci sta portando sul baratro.
Quasi sempre non abbiamo la consapevolezza del danno che la nostra esistenza sta creando e quello specchio serve a darci tale consapevolezza.
L’espressione «L’animale più pericoloso della Terra» intende dirci, che come appartenenti alla razza umana, siamo gli animali che stanno per distruggere il pianeta; chi piu` e chi meno, ed anche il bimbo nero o bianco che sia di New York che visita il museo di cui parla Bookchin fa la sua parte ad esempio quando mangia l’hamburger di McDonald mentre guarda il campionato di basket sponsorizzato dalla pubblicita` in televisione, elettrodomestico e cibo fatti con materiali ed energia spesi in eccesso rispetto a quanto la Terra ci puo` dare. Magari non ne e` consapevole, non si rende conto che il suo stile di vita danneggia il pianeta; per questo ci serve quello specchio…
Ok, allora Giulio usciamo dalla filosofia e cerchiamo di mettere la questione in termini pratici (non avrei mai pensato che IO avrei detto una cosa simile a TE!!!! 🙂 ). Qual è la morale di tutta la vicenda: che siamo tutti colpevoli e corresponsabili, chi più e chi meno del disastro ambientale. Che facciamo parte degli ‘animali che stanno per distruggere il pianeta’; che anche chi non riesce a partecipare attivamente alla distruzione del pianeta lo vorrebbe fare, quindi ha la coscienza sporca. Qual è la conseguenza pratica di tutto ciò? NON FARE NULLA. Se anche il ragazzino del ghetto favorisce la distruzione della terra, chi può dire qualcosa ai grandi inquinatori? Se facciamo parte della specie che desertifica da millenni che senso ha dire qualcosa all’umanità oggi? E via discorrendo.
Ai tempi delle lotte contro la globalizzazione post-Seattle, ho sentito con le mie orecchie manager e industriali fare questo tipo di discorsi, credo non sapessero un’acca di cosa fosse l’ecologia profonda, ma penso che si troverebbero molto a loro agio in una visione (interpretata in modo distorto, si intende) secondo cui alla fine della fiera ‘facciamo tutti schifo’. Dove al massimo tra il CEO e il ragazzo del ghetto si opera qualche ‘delicato distinguo’.
L’autoperfezionamento individuale è indispensabile, ma quella è un fatto appunto individuale, filosofico. Serve per correggere i miei comportamenti. Non voglio assolutamente che i miei rimorsi personali e le mie mete di miglioramento diventino alibi per qualcuno che ci fa i miliardi sulla distruzione ambientale.
I sistemi complessi adattativi ci insegnano quanto sia difficile comprendere cosa avviene dentro ai processi; incluso quelli che riguardano gli esseri umani, come parte del “tutto”.
Un sistema complesso funziona perchè le innumerevoli variabili e fattori che interagiscono tra loro riescono ad adattarsi e integrarsi vicendevolmente.
Mi pare che Giulio abbia colto nel segno: anche le reazioni umane fanno parte dei sistemi adattativi.
Difficile perciò dire cosa sia “buono” o “cattivo”, classificando in modo dicotomico ciò che va assolto con indulgenza e cosa va condannato.
Il sistema capitalistico ha funzionato per due secoli abbondanti perchè, complice il bisogno, ha potuto “arruolare” schiere enormi di proletari disposti a vendere la propria forza lavoro.
Le mine antiuomo le fabbrica il capitalista che possiede l’azienda ma ciò non sarebbe possibile se non vi fossero tutte le funzioni aziendali disposte a collaborare all’impresa.
Un noto salumificio ha prodotti, anni fa, salami allo sterco: partite imballate, fatturate, caricate sulle navi e gettate in mare; in modo da produrre reddito extracontabile.
Bene: quei salami non li confezionavano dei robot ma donne e uomini che sapevono e tacevano.
L’Amazzonia la fanno disboscare i latifondisti e le multinazionali interessate a impiantare lucrative monocolture.
Al vertice decidono ma le ruspe le guidano gli operai; così come sono gente modesta che campa di salario coloro che usano le motoseghe.
La coca in Colombia non la piantano i narcos ma poveri disperati, per pochi soldi .
Un “sistema” non può funzionare se non c’è adesione al progetto e alla sua gestione.
Tutti colpevoli nessun colpevole? Non penso.
E’ evidente che ci siano diversi gradi di responsabilità. Non di meno se un cittadino americano consuma venti volte un uomo della Sierra Leone non si può dire che, oggettivamente, il cittadino americano non sia complice di un sistema malato.
Ciò rimanda alla madre di tutte le questioni e cioè al fatto che i cambiamenti del mondo sono possibili solo se esiste una classe dirigente, degna di questo nome, in grado di guidare il cambiamento.
Il popolo esiste solo per i populisti. Il popolo, in realtà, non esiste o, nel migliore dei casi, è solo un aggregato di milioni di unità statistiche pluridirezionate: foglie al vento d’autunno.
Ciò che crea “mode”, leverage è sempre la “causa efficace” ( so di ripetermi ma non vedo altra spiegazione che questa); la quale, di volta in volta, costruisce aggregazioni attorno a un pensiero, un’idea o, molto piu’ spesso, a un prodotto da consumare ( basti pensare alle code interminabili per accaparrarsi l’ultimo giocattolo tecnologico che viene messo in commercio).
Quindi mi sa, Igor, che un pò schifo lo facciamo davvero tutti, nel momento in cui, coerentemente, non sappiamo essere uomini “contro” e farci classe dirigente per un mondo diverso.
Il percorso virtuoso da seguire non è tanto l’autoperfezionamento individuale, quanto il perfezionamento collettivo e questo non può che derivare dall’esempio di una classe dirigente, in grado di costruire una idea-forza per cui valga la pena di battersi.
Naturalmente è piu’ facile a dirsi che a farsi.
Il potere condizionatorio ha sempre usato strumenti molto efficaci che i decrescisti di sicuro non possono offrire.
Noi non abbiamo indulgenze da vendere, paradisi da promettere e nemmeno cieli sempre azzurri.
Un vecchio proverbio russo dice: “quando un intero popolo sospira si alza un forte vento”.
Ecco: serve questo sospiro ma, arriverà mai senza una classe dirigente che sappia rendere desiderabile una visione diversa del mondo; magari a partire dall’Ecologia Profonda?
Non so se anche questa sia una conseguenza ‘logica’ dell’applicazione pratica dell’ecologia profonda, fatto sta che sono 100% opposto a questa visione. Dopo il (non)popolo-bue la classe dirigente messianica (spuntata non si capisce bene da dove) che dovrebbe illuminare l’umanità… non riesco proprio a credere a queste cose.
Personalmente io aderisco all’ecologia sociale, una visione che riconduce i problemi tra uomo e natura a quella tra uomo e uomo. Le classi dirigenti sono solamente stupide, miopi e avide per la loro condotta ecologicamente dissennata? Oppure ciò ha a che fare anche con forme di governo basate sull’alienazione di sovranità (sempre di più anche nelle democrazie rappresentative) e la centralizzazione dei processi decisionali? Ne ho scritto diffusamente in Democrazia radicale. Ho sempre pensato che la crescita economica sia una forma di legittimazione di queste forme di potere, dove l’alienazione economica-politica va compensata in qualche modo (altre alternative non sono meno deleterie: ideologie fanatiche o ossessioni securitarie, ad esempio).
In Cina basta leggere i documenti interni del PCC per capire che sanno benissimo i rischi che corrono, non a caso la Cina è il paese nel mondo che investe di più in energie rinnovabili, riforestazione e protezione della fauna. Ma l’unica forma di legittimazione di questa dittatura è la crescita vertiginosa e l’occidentalizzazione dei consumi.
In generale, non credo che i paternalismi siano il modo migliore per rendere le persone adulte, andrebbero trattate come tali a tal fine, ma per fare ciò occorre concedere autonomia. Non penso che un potere diffuso sarebbe la soluzione magica per il bene comune, ma penso che una soluzione PUO’ venire solo da lì.
Ovviamente siamo nel campo dell’opinabile. Penso però di poter portare alcuni fatti concreti a sostegno della mia idea. Nello nostra scalcinata Italia, la popolazione si è opposta 2 su 2 all’energia nucleare, e ha impedito la privatizzazione dell’acqua. Sono segmenti della popolazione a condurre la battaglia contro le grandi opere. E’ stata la cittadinanza di Istanbul a difendere Gezi Park, l’ultimo polmone verde della città, contro la speculazione edilizia. Sono stati ampi settori del popolo brasiliano a protestare contro la distruzione dell’Amazzonia e lo sviluppo selvaggio, non fermandosi neppure di fronte alla religione del calcio. Potrei andare avanti con molti altri esempi.
Certi mi si può dire, ‘sono solo minoranze che non sono riuscite a ottenere risultati concreti e sono state state risucchiate dal sistema ecc ecc ecc” ma sono l’unico sforzo concreto che ho mai visto. Dalle classi dirigenti (e già il fatto che siano diventate ‘classi’ mi fa riflettere) non ho visto praticamente nulla. Non è che stiamo chiedendo l’impossibile a determinate istituzioni? Perché abbiamo i ‘comuni virtuosi’ e non gli ‘stati virtuosi’? Solo colpa di lobbysmo, corruzione e incapacità?
Non ho alcuna verità in tasca ovviamente, butto sul terreno alcune situazioni che mi sembrano degne di discussione. Ma almeno cerco di farlo. La logica dell’ecologia profonda tende ad appiattire tutto e a non far emergere questo tipo di riflessione.
Gli esempi che cita Daniele sono infiniti, ne aggiungo solamente uno: girate per la casa e contate sulle etichette dei vari prodotti di igene ed alimentari quanti usano l’olio di palma: una delle prime cause della distruzione delle foreste equatoriali.
E non capisco perche` il riconoscere il fatto che siamo tutti piu` o meno complici e servi di un manipolo di criminali (per crimini contro l’ambiente e l’umanita`) ci dovrebbe dare una giustificazione a non far nulla.
Anzi.
Potrebbe anche darsi che, se veramente capissimo fino in fondo cio` che stiamo facendo, ci potremmo tutti ribellare e ammutinarci, smettere di comprare creme e cremine, gelati e merendine, ecc… no ?
Detto cio`, concordo con Igor e non credo ad una classe dirigente illuminata che possa guidare il cambiamento, ma piuttosto credo in una semi-sgangherata sollevazione spontanea (e pacifica) guidata da vari “capi naturali” che si prendano la briga di spingere la ciurma all’azione, come in ogni ammutinamento che si rispetti…
Bene, abbiamo un’idea differente di cosa sia il popolo; naturalmente parlando fuori da ogni retorica piu’ o meno interessata.
In modo banale potremmo definire il popolo come somma di individui.
Il popolo italiano conta sessantamilioni di individui.
Nel popolo c’è tutto e il contrario di tutto: bravi, cattivi, belli, brutti, intelligenti, mediocri, alti, bassi.
E poi ci sono i sessi: maschi, femmine e anche di sensibilità personali che vanno oltre la classificazione di genere.
Mi piace immaginare il popolo come tanti vettori che si muovono in uno spazio k-dimensionale.
Ciascuno di essi ha una direzione e un verso e tange nello spazio euclideo creando nodi e reti.
Gli individui sono catalogabili in classi di modalità.
Il termine “classe” è un po’ lontano dalla definizione marxiana: va immaginato, semplicemente come necessità di catalogare e ordinare le unità statistiche per omogeneità di caratteri.
Un problema non di poco conto riguarda le scale con le quali si misurano le modalità.
Può sembrare un problema irrilevante ma non lo è.
Noi passiamo la vita a misurare noi stessi, le nostre azioni e gli altri, secondo un nostro personalissimo “metro di giudizio”.
Quando il “metro” diventa oggettivo nasce il metodo di misurazione e questo metodo è riconducibile alle scale di modalità.
La “classe dirigente” non è una casta sacerdotale o una elìte col dottorato in tasca.
E’ un aggregato di persone che , per studio, convinzione, spirito di servizio, passione, si uniscono attorno ad una idea.
Noi, nel nostro piccolo, perchè no? Siamo classe dirigente con in testa un disegno “altro” rispetto a questo modello di sviluppo.
Eppure non siamo “casta”, non chiediamo privilegi e neppure benemerenze.
Non c’è un solo caso nella storia, e penso che Igor me lo possa insegnare, in cui motu proprio, il popolo sia andato oltre il ribellismo, forme di brigantaggio o “moti del pane” di manzoniana memoria.
Da Spartaco, passando per la Gironda per arrivare ai bolscevichi e ai sandinisti, ogni rivoluzione ha avuto una classe dirigente che l’ha guidata.
Sarebbe bello che non fosse così che vi fosse autocoscienza diffusa e ciascuno sapesse cosa “fare”.
Insomma: l’esercito di capitani di cui parla Gramsci.
Ma ciò cozza con la realtà.
Milito in un GAS e nel DES di Parma.
Dunque ho a che fare con una realtà molto sensibile, come affiora dalla bella indagine statistica condotta da Francesca Forno dell’Università di Bergamo.
Non di meno, anche tra questa classe modale esistono difficoltà enormi a salire dal “primo gradino” degli acquisti comuni a filiera corta e chilometro zero a quello del “consumo critico” che sappia mettere in discussione il consumismo come ragione di sopravvivenza del modello capitalistico.
Ma ritornando al popolo, ciò che orienta questi “vettori” nello spazio euclideo è la causa efficace.
Ciò che ha cambiato il mondo è stato il cambio di economia, con l’introduzione del capitale finanziario, ai tempi della Rivoluzione Industriale.
“cause efficaci” sono state il treno, la radio, la televisione, il cellulare.
La società semplicemente si riadatta, il nodi e le reti nello spazio cambiano inclinazione e vengono spiegate da ellissi in rotazione che ora si allungano ed ora si accorciano, quale risultante della interazione di piu’ vettori.
Il mondo cambia, a prescindere dall’esistenza o meno di gruppi dirigenti .
E’ un fatto però che, negli ultimi due secoli, siano avvenuti piu’ cambiamenti di quanti ne siano avvenuti nei duemila anni di storia, dai tempi di Cristo.
Ciò non è certo casuale bensì CAUSALE.
Le classi dirigenti devono per forza essere paternalistiche, protettive o, peggio, privilegiate?
Non penso.
Il paternalismo è lo strumento demagogico per tenere il popolo in soggezione. Una classe dirigente seria punta invece alla crescita, alla lievitazione della consapevolezza intorno a un progetto è altra cosa. All’esercito di capitani, insomma.
Mi si rimprovererà una visione elitaria.
Chi però mi muove questa accusa dovrebbe anche prospettare un’alternativa.
Probabilmente per un mio limite personale, di alternative non ne vedo.
Concordo con la precisazione di Daniele.
Se intendiamo come “classe” un gruppo di individui con delle caratteristiche in comune, noi siamo certamente una classe… cosi` come i dirigenti di industrie petrolifere sono una classe, i politici corrotti sono un’altra classe e il popolo ignorante che si abbevera di telenovelas e partite di pallone e` un’altra classe ancora.
Certamente quindi ci sara` prima o poi una classe non molto numerosa di persone che riusciranno a mettere in piedi un cambiamento per trascinare le atre classi molto numerose, dense e quindi con tanta inerzia. Speriamo che tale classe “dirigente” nel senso di “indicatrice di direzione” sia capace di andare nella direzione che auspichiamo.
Tornando alla questione iniziale, continuo a pensare che solo chi abbia sbagliato e si sia reso conto dello sbaglio possa veramente correggere la direzione… quindi uno specchio che mostri a tutti la nostra complicita` nel problema da risolvere ha sempre una funzione essenziale.
Tantissima carne al fuoco… ovvero materiale per il prossimo articolo! Ci rivediamo a presto lì!
Ho letto tutto (articolo e commenti) con molto interesse.
Veramente ci sarebbe di che riflettere.
Io ho una mia modesta opinione, la chiamo “il paradosso del cervello”.
Il cervello, quello che secondo noi ci ha reso superiori (?) rispetto agli altri esseri viventi, sarà la causa che porterà alla nostra estinzione (spero!)
Che voglio dire….è vero quando dite che siamo anche noi responsabili quando mettiamo benzina, quando portiamo i nostri figli al Mc Donald, quando pensiamo che non possiamo vivere senza l’iphone, ecc. Certo qualcuno di noi è meno responsabile perchè un po’ più consapevole…come chi frequenta questo sito, almeno ci prova. Ma noi siamo pochi e saremo sempre di meno. E’ qui il paradosso:
chi dovrebbe fare una carrettata di figli in grado di crescere persone consapevoli ne fa pochi o per nulla; chi dovrebbe suicidarsi a causa della sua imbecillità (sto estremizzando) ne fa molti, troppi e crescerà persone consumatrici ed imbecilli a loro volta che avranno il sopravvento sui pochi consapevoli.
Perchè il cervello ci spinge a fare pochi figli?
non so se ho reso l’idea…a volte mi chiedo se la mia non sia una forma di razzismo verso l’imbecille…
?
Cara Leda, un’altra freccia nel centro del bersaglio !
La mia personale posizione, essendo “colpevole” di non aver “fatto” figli, e` di trasmettere il mio pensiero innanzitutto a quelli che vedo potenziali ricettori delle nostre idee. Infatti sono molti che possono capire cio` di cui parliamo, ma non essendovi esposti rischiano di continuare ad… andare al McDonald.
In tal modo cresco a modo mio dei “figli” del nostro pensiero e ne posso crescere molti di piu` di quelli che potrei generare biologicamente, senza contare che i figli biologici non sono necessariamente buoni ricettori degli insegnamenti paterni o materni e, secondo le casualita` del processo di mescolamento genetico, i figli delle persone “intelligenti” sono spesso degli emeriti imbecilli… e viceversa.
Quindi, l’educazione e` secondo me l’unico modo di evitare il disastro incombente.
Continuamo ed espandiamo il discorso caro Igor !
Vorrei intervenire sugli interrogativi di Leda, perché il nuovo articolo vorrei destinarlo ad altri. Non darei la colpa al ‘cervello’, ma sicuramente a certi tipi di intelligenza strumentale. Il razionalismo è razionalità fine a se stessa, quindi tendenzialmente irragionevole. Una bomba a idrogeno è prova di altissima razionalità (‘una fisica sopraffina’, come disse Einstein pur condannandola) ma è l’esaltazione dell’irragionevolezza.
Quanto, al discorso intelligenti-stupidi, mi sembra sempre che si ragioni come se vivessimo nel mondo delle idee, della pari libertà e opportunità per tutti, al di fuori di qualsiasi struttura sociale. Ma di questo voglio trattare più diffusamente nel prossimo articolo.
Caro Giulio io purtroppo mi sono limitata ad un solo ragazzo… 🙁
Apparentemente sembra che vada in una sua direzione ma di questo non sono certa.
Ovvero io sono quello che sono perchè ho avuto la mia mamma ed il mio papà che erano fatti in un certo modo… (per farvi un esempio: fino a quando ho avuto 6 anni la TV in casa mia non c’era e poi c’era un regolamento ferreo che se non veniva rispettato la TV spariva per 15 giorni). Io da quando è nato mio figlio (16 anni fa) ho tolto la TV da casa.
Comunque condivido quello che dici: il nostro compito è quello di educare e sensibilizzare tanti più giovani possibili. E le mia azioni come cittadino attivo vogliono andare in quella direzione.
Un passo alla volta.
Dovreste (voi che avete le competenze) organizzare dei seminari itineranti rivolti agli adolescenti.
Io sono pronta ad ospitarvi nella sede del nostro comitato di quartiere! da qualche parte si deve pur partire!
Cara Leda,
grazie per il commento, ho trovato il tuo sito e ti ho scritto un’email per parlare dei seminari.
Giulio