Lottare per la giustizia, non per la classe

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Navigando in Rete mi sono imbattuto nel blog di Carmine Tomeo, militante di Rifondazione comunista, e sono rimasto colpito da un post intitolato: “Rivoluzione culturale” della decrescita: impossibile progetto politico (1). Invito alla lettura completa dell’intervento perché mi sembra rappresentativo di una certa critica di sinistra alla decrescita; in questa sede riporto gli stralci più significativi agli scopi delle mie considerazioni:

“Nella teoria della decrescita… si vede l’aspetto culturale come un fatto a se stante. Ma basterebbe guardarsi attorno per notare infiniti gli esempi che mostrano come il sistema capitalista ed il suo armamentario di strumenti che compongono il neoliberismo, fanno cultura… Ma se così è (ed io credo lo sia), allora non si può pretendere di cambiare le cose partendo dall’educazione degli individui come fosse un fatto a se stante, né pertanto dall’individuo che elabora il suo pensiero dentro la società in cui vive, che è questa, capitalista e neoliberista.

Date queste basi, non credo si riuscirà mai a fare della decrescita un progetto politico credibile ed efficace in chiave antisistemica rispetto al capitalismo. Non credo nella possibilità di un cambiamento determinata dalla semplice sommatoria di individui che ad un certo punto decidono, dentro il sistema economico attuale, di percorrere la via «dell’autolimitazione» indicata da Latouche. Un cambiamento invece è possibile quando gli individui si fanno soggetto sociale, non come semplice sommatoria ma in quanto portatori di un interesse generale, collettivo. Insomma, quando diventano una classe sociale coscienti di farne parte.

Quella classe sociale troppo spesso vista come un rimasuglio novecentesco e generalmente proprio da chi ha interesse a raccontare la favola della necessità di collaborazione tra sfruttatori e sfruttati. Invece di fatto la classe è socialmente identificabile anche nei rapporti con altri pezzi sociali ed è storicamente determinata, nel senso che non è fissa nel tempo. Quindi, nessun rimasuglio del passato nel parlare di classe, ma lettura delle condizioni esistenti e dei rapporti sociali che si hanno in un dato momento storico. E da questo punto di vista sono convinto che abbandonare questo concetto fa il gioco del neoliberismo e del capitalismo nel momento che questi cercano di convincerci del fatto che saremmo «tutti sulla stessa barca». E di conseguenza, per questo discorso neoliberista e capitalista, è benzina per camminare anche far riferimento all’individuo in luogo della classe. Non a caso la teoria tutta capitalista cosiddetta marginalista, gioca proprio sul ruolo del singolo soggetto e sul suo grado di soddisfazione in quanto individuo consumatore.

Può trovarmi d’accordo quindi la semplificazione che leggo spesso, anche in questi tempi di crisi, della necessità «dell’autolimitazione» senza riferimenti alle classi sociali che saranno costrette a decrescere, indicando la scarsità di risorse in termini assoluti?”

Si potrebbe semplicemente liquidare tutto dicendo che nessuno nella decrescita ha mai messo in discussione l’esistenza di classi sociali e che anzi come DFSN abbiamo più volte tuonato contro la disuguaglianza, il neoliberismo e il carattere ideologico della crisi (ne hanno trattato in articoli recenti sul sito Silvana Dal Cero, Manuel Castelletti e io); che i neoliberisti ci odiano e non fanno altro che insultarci presentandoci come dei pazzi primitivisti; che il padre putativo della decrescita, Serge Latouche, è stato un militante del movimento contro la globalizzazione capitalistica attraverso l’associazione La ligne d’horizon, che sosteneva il movimento su posizioni critiche rispetto alla ‘ortodossia’ ma ben lontane neoliberismo. E per quanto riguarda il presunto carattere individualistico della decrescita – che daremo per scontato pur essendo molto discutibile – mi viene da pensare che i decrescenti, diversamente da molti gruppuscoli di sinistra, non hanno la presunzione di parlare a nome delle masse.

Tuttavia, credo di aver afferrato il punto della questione avanzata da Tomeo, ed è su questo che voglio soffermarmi. I decrescenti riconoscono sicuramente l’esistenza di stratificazioni sociali e di disuguaglianze insopportabili, ma non credono nella lotta di classe come mezzo per la soluzione dei gravi problemi ecologici e sociali che stanno attanagliando il nostro pianeta. E per vari motivi.

Relatività temporale del concetto di classe

Marx teorizzò la lotta di classe sotto l’influsso dell’evoluzionismo darwiniano, che suggestionò moltissimo le scienze sociali ottocentesche. In questa visione – semplificando moltissimo – lo sviluppo capitalistico crea la classe antagonista alla borghesia, cioé il proletariato operaio, il capitalismo alla lunga entra in crisi per ragioni intrinseche e arriva l’ora della rivoluzione socialista.

Come ben sappiamo, questo schema non si è mai verificato in nessuna parte del mondo, il capitalismo è sopravvissuto grazie al consistente apporto di quelle che Marx chiamava spregiativamente ‘sovrastrutture’, mentre le formazioni politiche comuniste hanno preso il potere in paesi prevalentemente agricoli a basso livello di industrializzazione. La classe operaia, dalla fine della seconda guerra mondiale, ha tenuto un atteggiamento sempre più collaborativo e conciliante con lo Stato e il capitale, e a partire dagli anni Settanta – quando il numero di occupati nel settore industriale è drasticamente diminuito attraverso i processi di automazione e reengineering – i filoni marxisti post-operaisti hanno cercato di individuare un nuovo soggetto antagonista del capitalismo (non essendo gli operai più credibili), ad esempio il ‘lavoratore della conoscenza’, fino a giungere con Hardt e Negri alle ‘moltitudini’ (cioé quasi chiunque non faccia parte delle classi oligarchiche).

Va detto inoltre che, al tempo di Marx, durante il capitalismo ottocentesco, le classi sociali erano nette e ben definite: vestivano in modo differente, frequentavano diversi luoghi di ritrovo, avevano riferimenti culturali diversi… si potevano distinguere con un semplice colpo d’occhio. Lo Stato sociale e la prassi consumistica hanno diluito parecchio tali differenze, se escludiamo le ristrettissime cerchie di super-ricchi. I figli dei ‘proletari’ attualmente spesso vestono abiti firmati, possiedono i-phone, frequentano le stesse scuole e i medesimi locali ricreativi dei figli delle classi benestanti, con i quali intrattengono talvolta rapporti di amicizia anche attraverso spazi virtuali condivisi e spersonalizzati come i social network. Tutto ciò complica moltissimo l’identificazione in una classe.

Scarsa consistenza dell’attaccamento alla classe

Tomeo nel suo contributo mi sembra riprodurre uno stereotipo tipico del socialismo ‘scientifico’, da Marx in poi: bollare le intenzioni altrui come ‘utopistiche’ e presentare quali ‘dati evidenti’ le proprie astrattezze metafisiche.

Storicamente, i nuclei operai più agguerriti sono stati quelli provenienti dalle prime generazioni strappate alle campagne che, abituate ai legami sociali comunitari, trovavano odioso il clima autoritario della fabbrica e l’egoismo della vita cittadina. Le generazioni successive, al contrario, si sono talmente assuefatte da rinunciare a qualsiasi rivendicazione in merito ai processi produttivi, per concentrarsi unicamente su richieste salariali legate alle condizioni di lavoro. Da antagoniste alla borghesia ne sono diventate semplicemente controparte.

Inoltre, i lavoratori hanno sempre mostrato scarso entusiasmo per il materialistico attaccamento di classe, preferendo optare per ‘sovrastrutture’ capaci di stuzzicare altri aspetti della personalità umana. È un dato di fatto che i nazionalismi istigatori della prima guerra mondiale abbiano sepolto le aspirazioni della Seconda Internazionale; che negli anni Venti in Italia e Germania il gran seguito di partiti di sinistra e sindacati non sia riuscito minimamente a scalfire l’avvento del nazifascismo; e oggi in Francia gli elettori del Front National di Marine Le Pen provengono per lo più dalla classe lavoratrice, così come gran parte dei votanti della Lega e di altri partiti simili.

Tale predilezione di gran parte della classe lavoratrice per lo sciovinismo è da intendersi solo come ‘falsa coscienza’? Oppure la tentazione a queste sirene nasconde un malessere più grande, l’insofferenza all’economicismo e la ricerca di qualcosa che l’estrema destra sembra più propensa a offrire?

Lotta di classe ma non al degrado ambientale

In tutto il suo post Tomeo critica la decrescita ma non propone soluzioni alternative al degrado ambientale, evita completamente l’argomento. Non sorprende: i problemi ecologici, al pari di altri (come le questioni di genere), esulano dal conflitto capitale-lavoro. Per portare esempi tristemente noti, le centrali atomiche di Chernobyl e Fukushima – una costruita dalla tecno-scienza del socialismo reale, l’altra da una corporation capitalista – hanno rilasciato radiazioni che hanno causato gravi problemi sanitari a cittadini di tutte le classi sociali, indistintamente.

È questa la caratteristica delle problematiche ambientali, causare problemi tali da trascendere le differenze di classe, dove i più benestanti possono certamente mitigare gli effetti negativi (possono trasferirsi in luoghi più salubri, ricorrere a terapie più adeguate, ecc.) ma non sfuggirvi, specialmente se il surriscaldamento dell’atmosfera rischia di comportare cataclismi su amplissima scala.

L’esperienza sovietica dimostra inoltre che, se si rimane ancorati alla logica del produttivismo, gli effetti negativi permangono sull’ambiente e sui lavoratori anche se al controllo capitalistico-borghese si sostituisce un’altra forma di governo: “certi strumenti sono sempre distruttivi, qualunque sia la mano che li governa: la mafia, i capitalisti, una ditta multinazionale, lo Stato o anche un collettivo di lavoratori” (Ivan Illich).

È molto triste constatare che, quando sono prevalsi ‘interessi di classe’, gruppi consistenti di lavoratori abbiano preferito anteporre questi valori a quelli dell’ambiente e della cittadinanza. I casi della TAV in Val di Susa e dell’ILVA di Taranto – due battaglie a loro modo anticapitaliste, ma fuori dagli schemi tradizionali della sinistra – sono eloquenti: i maggiori sindacati hanno in entrambi i casi spalleggiato il business imprenditoriale, con i partiti della sinistra ‘radicale’ che hanno boicottato la manifestazione del 13 ottobre 2012 contro la CMC di Ravenna (principale ditta appaltatrice dei lavori per la TAV e di altre grandi opere inutili).

Lotta per la la libertà, la giustizia e l’ambiente, non per la classe

L’alternativa all’economicismo della lotta di classe non è “la favola della necessità di collaborazione tra sfruttatori e sfruttati”, come sostiene Tomeo, bensì una visione che abbia al centro l’aspirazione alla libertà, alla giustizia e all’ecologismo – e non la semplice ‘emancipazione dalla necessità’ o l’adesione a presunte leggi storiche, come nel marxismo. Uno degli assunti fondamentali dell’ecologia sociale è che la dominazione dell’uomo sulla natura ha origine da quella dell’uomo sull’uomo (e non viceversa), ragion per cui la ricerca dell’uguaglianza e della giustizia sociale, la soppressione delle gerarchie inutili e la lotta a ogni forma di discriminazione sono elementi essenziali. Già il movimento contro la globalizzazione capitalista si proponeva come movimento per la giustizia globale e non come lotta di classe, e del tutto a ragione: la lotta di classe può comportare miglioramenti sul piano economico e delle condizioni di lavoro, ma gli interessi di classe, anche di quella lavoratrice, possono portare alla subordinazione di altre rivendicazioni. E per quanto riguarda il proletariato, non possiamo che condividere quanto disse a suo tempo Camillo Berneri: esso non deve prendere il potere, ma semplicemente scomparire, sostituito da forme più dignitose di esistenza.

La decrescita come vero progetto anticapitalista

Scrive nel libro Città ribelli un marxista serio e aggiornato come David Harvey: “Per tutta una serie di ragioni, una a crescita a interesse composto è condizione irrinunciabile per la continua accumulazione e riproduzione del capitale. È questa specifica legge, socialmente e storicamente costruita, di un’accumulazione esponenziale del capitale che deve essere messe in discussione e alla fine abolita…. Su questo rapporto di classe si definisce una distribuzione di ricchezza e potere sempre più sbilanciata, oltre alla sindrome di una crescita continua che esercita un enorme impatto distruttivo sulle relazioni sociali e gli ecosistemi sociali”.

Harvey quindi caratterizza la crescita infinita come condicio sine qua non del capitalismo (e lo fa prescindendo da considerazione di carattere ecologico), per cui ne consegue che un progetto anticapitalista deve avere come nucleo essenziale la negazione del principio della crescita per la crescita. Viene un po’ da sorridere quando si ricevono lezioni di anticapitalismo da soggetti che, come la Rifondazione comunista di Tomeo, non solo hanno collaborato attivamente con formazioni politiche che ritengono il capitalismo una condizione naturale della società, ma faticano seriamente a ipotizzare delle alternative.

Le sinistre radicali europee, trascurando il contributo di alcuni socialisti ‘eretici’ come André Gorz (ma anche di altri molto più ‘istituzionali’, come vedremo tra poco), preferiscono limitarsi a una politica elettorale in difesa dello Stato sociale assalito dalle politiche neoliberiste sempre più invasive, una lotta sicuramente nobile ma inevitabilmente di retroguardia.

Per tali ragioni, il messaggio dell’estrema destra è molto più affascinante e credibile: avanza idee assolutamente distorte (quando non proprio criminali) di cittadinanza, ma le propone; consiglia soluzioni fuorvianti, ma che vedono protagonista il cittadino in quanto tale, non come lavoratore o altro.

La sinistra invece si limita a chiedere astrattamente diritti tendendo a disprezzare la comunità reale, vagheggiando ‘il radicamento nei luoghi di lavoro’, che nell’epoca della delocalizzazione e della precarizzazione spesso non sono altro che improvvisati porti di mare dove è quasi impossibile qualsiasi forma di reale socializzazione (da questo punto di vista una vecchia fabbrica fordista era un centro sociale, se paragonata a un call center).

Mi si permetta di chiudere con una citazione lunga ma davvero pregna di significato:

“Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni; che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata…

Una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all’Occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò comporta per l’Occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.
Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base. Una politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso l’indigenza, né deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo – ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento operaio – quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova. Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (e di necessità, per la sua stessa natura) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo così ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un’opera di trasformazione sociale”.

Questa meravigliosa dichiarazione programmatica sulla creazione di senso cittadinanza e sull’autolimitazione (‘austerità’) è di una persona orgogliosamente comunista, Enrico Berlinguer. Dispiace vedere che, a più di trent’anni di distanza, non solo le sinistre siano lontane anni luce dalla profondità di analisi dello storico segretario del PCI, ma che addirittura nei loro programmi spesso non contemplino neppure una vaghissima critica al consumo (vedi anche i 10 punti della Lista Tsipras, dove non appaiono neppure i problemi ecologici). Evidentemente il pensiero di Berlinguer è stato rigettato non solo dai ‘riformisti post-ideologici’ convertiti sulla via di Damasco del capitalismo ma anche dai suoi presunti epigoni radicali.

(1) Inizialmente avevo pensato di decostruire l’articolo nello stile di ‘decrescendo&decostruendo’, tuttavia ho apprezzato il tono rispettoso e per nulla mistificatorio e arrogante di Tomeo, mentre in quella rubrica desidero mettere alla berlina le critiche disinformate, faziose e intellettualmente disoneste. Inoltre il post risale al 2011, ragion per cui Tomeo nel frattempo potrebbe essersi informato meglio e aver scoperto da solo l’infondatezza di alcune sue osservazioni.

Immagine in evidenza: Manifestanti in sciopero a Milano (fonte Wikimedia Commons)

6 Commenti

  1. Nel merito di quanto hai scritto voglio solo farti notare che il povero Marx non c’entra niente né con le errate interpretazioni del concetto di classe né con i disastri storici del socialismo reale. L’analisi economica di Marx definisce una classe in modo scientifico, semplificando al massimo ne fanno parte i soggetti che col loro lavoro sono apportatori di plusvalore a vantaggio del capitalista (ma potremo dire del Capitale tout court). E’ chiaro quindi che abitudini, stili di vita, consumi, apparenze, non dovrebbero essere indici dell’appartenenza o meno a una classe. I ceti sociali, per la cui individuazione queste cose sono invece rilevanti, sono altra cosa dalle classi. Su questa confusione si appoggia tutta la critica al marxismo e tutte le implicazioni che ne decretano il fallimento come teoria socio-economica. Se si rimanesse lucidamente ancorati alla produzione (e allo sfruttamento) del plusvalore prodotto, vedremmo che in qualche modo i lavoratori sottopagati di un call center e gli operai specializzati della Mercedes appartengono alla stessa classe.
    Fatta questa precisazione, moralmente dovuta anche al mio passato di marxista, aggiungo che mi ha fatto davvero piacere la citazione di David Harvey. Sottolineando, come lui fa, che alla base del capitalismo c’è l’esigenza di una crescita esponenziale, alla ricerca della quale ci si macchia di qualunque misfatto, crea un tratto d’unione col movimento della decrescita. Non solo, fa capire che un movimento per la decrescita non può che essere anti-capitalista, come del resto già ben spiegato dallo stesso Latouche.
    Su tutto il resto chehi scritto non posso che essere d’accordo. Massimamente sulla centralità del problema ecologico-ambientale, che riguarda (almeno dovrebbe riguardare) tutto il genere umano senza distinzioni di sorta, tantomeno di classe.
    Rimane il problema di chi e in che modo porterà avanti i temi e le istanze della decrescita. Di questo si occupa il mio articolo ancora in attesa di gentile pubblicazione.

    • Penso che Marx (più di Engels) fosse un pensatore di stampo illuministico animato da sincere propensioni umanitarie, molto più di quanto non faccia trapelare dai suoi scritti principali, che riflettono l’ossessione positivista della sua epoca. Lo rispetto profondamente come colui che ha svelato i meccanismi fondamentali del capitalismo – dopo di lui gli altri hanno aggiunto alla sua analisi, senza correggerla profondamente. Sono sicuro che, se fosse sopravvissuto, avrebbe condannato tutte le storture del socialismo reale, per quanto esse abbiano usato la dialettica storica e l’idea di dittatura del proletariato come alibi.
      Trovo discutibili invece le sue teorie sul socialismo e sulla storia. In particolare, nel tentativo estremo di materialismo, alla fine ha fatto una cosa molto borghese: ha ridotto l’essere umano ai suoi rapporti economici, castrandone parecchio le sue peculiarità. Il marxismo (inteso come esegesi del pensiero di Marx) volendo ha fatto anche peggio: Simone de Beavoir racconta che Sartre la sgridò duramente per aver commesso il grave crimine borghese di aver pianto per la morte della madre… (anchi qui del marxismo salvo comunque del pensiero interessante e originale, come Gramsci, Marcuse e la scuola di Francoforte).
      Insomma: la critica di Marx al classismo e ai modi di produzione capitalistici è sacrosanta, peccato però che pecchi nel senso opposto quando riduce tutto alla lotta di classe.
      Quanto a dire che i precari dei call center licenziabili con uno starnuto e gli operai specializzati della Mercedes con stipendi quadrupli e benefit siano accomunati dalla stessa classe per via del plusvalore…. TECNICAMENTE ci sta come ragionamento, anche se mi sembra molto tirato per i capelli. Ma soprattutto mi piacerebbe che l’operaio Mercedes solidarizzasse con il precario del call center non in nome del plusvalore – cioé di un concetto economico – bensì per la comune appartenenza al genere umano che non può tollerare certe situazioni. E sarebbe bello anche che capisse che produrre Mercedes – aòmeno nei modi attuali – non sarebbe una buona cosa neppure se fosse un soviet a farlo.
      Perché se riduciamo tutto al plusvalore si rischia davvero di fare nuovamente l’errore del socialismo reale: togliere le storture capitaliste, mantenere inalterata la logica produttiva e costruire nuovi tipi di gerarchie di dominio, dicendo di aver fatto il socialismo e la libertà.

      • E’ possibile che Marx fosse animato da sincere propensioni umanitarie, più di quanto traspare dal rigido rigore scientifico delle sue opere principali. Si parla talvolta di un umanesimo marxiano che appare nelle sue opere giovanili, ancora in qualche modo legate all’idealismo hegeliano. La questione è di relativo interesse, oggi. Così come credo che la lucida analisi dei meccanismi del capitale possa far luce anche sui percorsi della decrescita, credo anche che la teoria della lotta di classe come motore (unico?) della storia debba esser messa da parte. Del resto si può essere lungimiranti finché si vuole (e Marx lo è stato un bel po’ !) ma il pensiero è sempre figlio della propria epoca e nel 1800 non si poteva prevedere questa globalizzazione, questa emergenza ambientale, questo sfruttamento intensivo delle risorse materiali del pianeta.
        Esistono altre figure che possono illuminare il percorso della decrescita, a partire da quella di Gesù, la cui vita si può guardare come un modello di frugalità ante-litteram, ma anche come un modello di intransigenza sui valori da perseguire, vedi la cacciata dei mercanti dal tempio.
        O la figura di San Francesco, che mi piace interpretare come il primo degli ambientalisti e degli animalisti !
        Sono due esempi che fatti da me, agnostico convinto, dovrebbero far pensare.
        Ma avvicinandoci ai giorni nostri consiglierei di analizzare anche le figure di Antonio Gramsci, di Enrico Berlinguer (giustamente citato nell’articolo) e del subcomandante Marcos.
        Qual è l’elemento comune a Marx, Gesù, Francesco, Gramsci, Berlinguer, Marcos ? Sicuramente la necessità di una redistribuzione della ricchezza, dell’abbattimento dell’enorme distanza creatasi tra i poveri del mondo (tantissimi, sempre di più) e i ricchi (pochissimi e sempre più ricchi).
        La giustizia sociale deve essere alla base della Decrescita, non credo di poter essere smentito su questo.
        Senza di essa è impossibile pensare a un nuovo modello di convivialità, di solidarietà, di frugalità.
        Quindi guardiamo ai nostri padri ispiratori senza pregiudizi, prendendo da ognuno gli spunti che può dare per rafforzare un movimento che ha appena intrapreso il suo cammino.

  2. Il valore del produttivismo è molto radicato nella cultura di sinistra. E’ un valore che la impregna profondamente. Ha lo stesso significato delle credenze religiose.
    Riporto due passi di un testo, scritto negli anni ’30 da un antropologo francese, Philippe De Fèlice, che tratta di droghe e che si intitola “Le droghe degli Dei – Veleni sacri, estasi divine “ Questi due passi si trovano nella prima parte (che si intitola “Le moderne tossicomanie”) e nel quarto capitolo (che si intitola “Tossicomanie e altri ‘divertimenti’ mistici del nostro tempo”, (ricordo, per fare un paragone, che il secondo capitolo parla di oppio e morfina mentre il terzo di cocaina e coca)
    “Par ailleurs. on a créé une sorte de mystique de la mécanique agricole et du tracteur qui aide à entrettenir le zèle des partisans. On ne saurait imaginer à quel point le tracteur agricole …. a pris une pIace exorbitante dans la pensée soviétique. Il est pressque divinizé …. Foi naive de grands enfants qui découv- rent cette civilization mécanicenne, au sujet de la quelle nous commencons, nous Occidentaux, à etre passablement blasés.”
    Victor Boret: Un mois en Russie soviétique. Le matin. 27 settembre 1932. A questa citazione mi sarà facile aggiungerne delle altre. Un ingegnere, che ha lungamente vissuto in Russia, dice che il fervore con il quale sono costruite le fabbriche ricorda quello dei costruttori di cattedrali. Questo scrittore non esita ad affermare che “les machines ont remplacé les icones de l’ancen régime.”

    Ho riportato questi due passi e ho dato un taglio antropologico al problema perché penso che l’aspetto culturale sia importante: è importante cioè la ricerca di nuovi valori che riempiano la vita!

  3. La decrescita è apolitica, questi di sinistra radicale la smettano di voler utilizzare tutto per i propri fini politici . Tra l’altro, sino all’altro ieri non erano quelli a favore dell’estrema industrializzazione che etichettavano chi parlava di decrescita come ” fascista ” ?
    Per il solo averne parlato, ho ricevuto miliardi di insulti qualche tempo fa, ma ora stanno tutti diventando ( falsamente ) decrescisti ? ..

    Facciano quello che vogliono, ma chi crede veramente nella decrescita sa che è apolitica, non a caso i suoi ideologi sono sia di sinistra, come Latouche o Ilich, sia di destra come De Benoist e Massimo Fini … destra-sinistra tra l’altro sono concetti superati come sappiamo

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