L’insegnamento di Tikopia

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E’ celebre la triste storia di Rapa Nui-Isola di Pasqua e della catastrofe ecologica provocata dai suoi abitanti che, per costruire i giganteschi moai, causarono il totale disboscamento del loro territorio; Jared Diamond ha raccontato l’intera epopea di questa civiltà nel suo capolavoro Collasso.

Meno nota invece è la sorte totalmente diversa occorsa a Tikopia (anch’essa narrata nell’opera di Diamond), sperduta isola dell’Arcipelago delle Salomone. Abitata dall’uomo fin dalla preistoria, a causa della sua emarginazione geografica aveva altissime probabilità di subire il tragico destino dell’isola di Pasqua, ma i tikopiani si dimostrarono consapevoli dei rischi prendendo adeguate contromisure: invece della pratica agricola basata sul taglio e l’incendio – largamente utilizzata nel Pacifico – svilupparono una sorta di forest gardening integrando coltivazioni e foresta pluviale, sfruttando persino le erbacce come concimazione; la pesca era regolamentata in modo da evitare il sovrasfruttamento delle risorse ittiche; intorno al 1600 i tikopiani decisero di sopprimere tutti i maiali dell’isola, rendendosi conto dell’insostenibilità del loro allevamento. Inoltre, con l’obiettivo dichiarato della crescita demografica zero, i tikopiani praticarono forme collettive di controllo della nascite, attraverso alcuni tabù (ad esempio la proibizione di aver figli dopo che il primogenito aveva raggiunto un’età da matrimonio), semplici metodi di contraccezione ma anche eseguendo aborti e, in alcuni casi, infanticidi (anche le guerre talvolta hanno calmierato la popolazione: non voglio idealizzare l’isola, ma spiegare le ragioni del suo successo e capire se possiamo possiamo imparare qualcosa di utile per la nostra sopravvivenza).

La storia di Tikopia è emblematica perché dimostra, contrariamente a molti luoghi comuni diffusi anche da certi ambientalisti, che i comportamenti insostenibili non sono parte integrante del DNA umano, altrimenti una popolazione primitiva e senza conoscenze scientifiche non sarebbe stata capace di comportamenti ecologicamente virtuosi in un contesto tanto difficile. Che cosa può aver impedito alla popolazione dell’Isola di Pasqua di prendere provvedimenti analoghi, andando quindi incontro alla catastrofe? La puntuale analisi di Diamond su entrambe le civiltà insulari ci permette importanti spunti di riflessione.

La società dell’Isola di Pasqua era fortemente stratificata, in particolare regnava una grande divisione tra un’élite cittadina proprietaria di vere e proprie piantagioni e i piccoli possidenti, che gestivano solo qualche orto; fatto testimoniato dai ritrovamenti archeologici di abitazioni molto differenti per dimensioni e sfarzo. I giganteschi moai avrebbero dovuto catturare i poteri soprannaturali dei capi-clan, permettendo precipitazioni regolari e raccolti abbondanti: il moai e la promessa di prosperità che ne derivava legittimava pertanto le disparità sociali. Per erigere le statue era necessario dispiegare, per usare una nota espressione di Lewis Mumford, una imponente ‘megamacchina umana’ che, alla maniera dell’edificazione delle piramidi, richiedeva una forte autorità centrale capace di mobilitare grandi masse di persone e spropositate quantità di materiali (fino a far estinguere la palma dall’isola). Fondamentalmente, rafforzamento del potere ed erezione di moai si consolidavano a vicenda. Non è un caso che tutte le civiltà caratterizzate da grandi disuguaglianze economiche e politiche abbiano ritenuto prioritaria la costruzione di grandi opere pubbliche, architettoniche, monumentali o tecniche.

A Tikopia invece non troviamo traccia di grandi opere impattanti, anche perché la sua società era organizzata in modo molto differente da Rapa Nui. Malgrado alcune gerarchie claniche, essa presentava un carattere sostanzialmente egualitario; spiega Diamond:

La terra è suddivisa in piccoli appezzamenti di proprietà di varie famiglie patriarcali, e ogni casa possiede terreni in varie parti dell’isola. Se un orto non è coltivato, chiunque lo può utilizzare temporaneamente, senza chiedere il permesso a nessuno. La costa è di tutti, e tutti possono pescare dove vogliono, anche di fronte alle case altrui… Dunque, nonostante le differenze individuali (all’interno del clan), tutti gli abitanti dell’isola si trovano ad affrontare gli stessi problemi e sono tutti alla mercé degli stessi pericoli. Da sempre, le decisioni importanti sono prese in maniera collettiva.

La suggestione per cui la sostenibilità si sposerebbe con l’uguaglianza – e, viceversa, che la disuguaglianza promuoverebbe comportamenti insostenibili – trova diverse conferme. Baudrillard e altri sociologi hanno evidenziato come il consumismo abbia ridimensionato l’importanza del valore d’uso delle merci esaltandone il valore simbolico, in un contesto in cui il gap sociale si compensa attraverso l’acquisizione di particolari status symbol. Da qui si comprende meglio anche l’attaccamento morboso per la crescita economica mostrato dall’establishment; scrive il ricercatore francese ne La società dei consumi:

Tutto ciò impone un’altra visione della crescita. Noi non diremo più come chi ne è entusiasta: “La crescita produce abbondanza, dunque uguaglianza”, non assumeremo
neppure il punto di vista estremo ed opposto: “La crescita è produttrice di disuguaglianza”.
Rovesciando il falso problema: la crescita è fonte di uguaglianza o di disuguaglianza? Noi
diremo che è la crescita stessa ad essere funzione della disuguaglianza. È la necessità
per l’ordine sociale ‘inegualitario’, per la struttura sociale del privilegio, di conservarsi, che
produce e riproduce la crescita come elemento strategico.

Luca Ricolfi in L’enigma della crescita è ancora più esplicito:

…senza la crescita, le tensioni sociali rischiano di diventare drammatiche. Se la torta
del reddito non aumenta, la vita di un sistema sociale diventa un gioco a somma zero: non
si può migliorare la propria condizione senza peggiorare quella di qualcun altro. Il che, in
sostanza, significa che il nucleo dell’azione politica diventa la redistribuzione del reddito:
più arbitrio dei governanti nell’allocazione delle risorse, meno libertà per individui e
imprese. Di qui tensioni sociali, invidia di classe, aumento dei conflitti interni. Nessuna
società moderna, finora, ha ancora imparato a convivere con un ammontare di risorse che
resta constante nel tempo, o addirittura si restringe ogni anno.

Nel recente passato, le politiche socialdemocratiche/keynesiane (e per certi versi anche la pianificazione economica del socialismo reale) hanno ricercato un approccio orientato a favorire la mobilità sociale, mantenendo però invariate le stratificazioni esistenti, producendo di conseguenza una perpetua rincorsa di Achille alla tartaruga dove si è prodotto più redditto ma non si è creata più uguaglianza; anzi, una volta inceppato il motore della crescita, la distanza tra vertice e base si è ampliata a dismisura. Per giustificarla ed evitare le rivendicazioni paventate da Ricolfi, la ricetta verrà come sempre ricercata in uno stordimento collettivo a base di consumi compulsivi e nella creazione di opere tanto grandiose quanto nocive, moderni idoli che hanno sostituito gli antichi moai. L’insegnamento di Tikopia è evidente: l’ecologia richiede la ricerca del bene comune della società, non intesa come il perseguimento del benessere infinito o di presunte utopie tecnologiche (come nel comunismo), peggiorando soltanto le cose, bensì come equa condivisione di potere, opportunità e rischi tra la popolazione, rendendo quindi più facile l’accettazione di eventuali sacrifici. Se non altro perché, anche volendo ragionare cinicamente, mal comune mezzo gaudio.

Immagine in evidenza: foto satellitare dell’isola di Tikopia (fonte: Wikipedia)

 

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