L’illimitatezza: un’illusione da superare

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(Articolo estratto da “Ritorno all’Origine” di Luca Madiai)

«Ci comportiamo con infinita avidità come bambini in un supermercato che immaginano, sbagliando, che le aziende che lo riforniscono abbiano scorte illimitate»

Vandana Shiva

L’illusione dell’illimitatezza consiste nel non percepire o nell’ignorare l’esistenza di limiti fisici o intellettuali nella vita umana e nel suo ambiente vitale. Il concetto di limite oggi è comunemente associato all’idea di ostacolo, come se le due parole fossero sinonimi. Nell’immaginario odierno il limite è concepibile solo in funzione del fatto che debba essere valicato, dato che la sua esistenza rappresenta un impedimento alla realizzazione della felicità umana. Perciò la visione culturale del limite è quasi esclusivamente una visione negativa, di qualcosa che blocca il naturale corso della vita; mentre, nei migliori casi, la visione ottimistica ne attribuisce valore positivo in quanto proprio grazie al limite e al suo superamento l’uomo può vivere una vita soddisfacente e in continua crescita.

L’ignoranza dell’esistenza dei limiti e il loro superamento è tra le principali cause dell’attuale triplice crisi. L’uomo supera i limiti fisici esistenti in natura per esprimere la sua capacità di superarli e vincere su qualsiasi avversità; poiché madre natura è sempre vista come una rivale, anziché come sostenitrice di vita. La cultura dominante trasforma tutti i limiti fisici in illusioni: il limite è solo apparente, perché una volta superato svanisce, proprio come le illusioni. Ciò è del tutto vero, se non che il superamento costante dei limiti sta compromettendo la vita stessa dell’uomo e favorendo la degradazione del suo spirito.

I nostri nonni contadini erano consapevoli dell’esistenza dei limiti, perché nella cultura preindustriale non si tentava di superarli ma si viveva in armonia con essi, la sobrietà e la parsimonia erano valori in quanto permettevano di mantenere questa armonia. La cultura occidentale del progresso ha costruito invece nell’ultimo secolo la società dell’abbondanza, dove è l’eccesso che diventa un valore perché agevola il superamento dei limiti, quindi favorisce la loro trasformazione in illusione.

Fa parte della cultura del tempo pensare che non esistano limiti di nessun genere: che possiamo inquinare l’acqua perché ce ne sarà di nuova pulita, che possiamo massacrare animali e piante perché rinasceranno, che possiamo sfruttare il nostro terreno a piacimento perché ne troveremo di nuovo. Magari se non qui e ora, in un futuro più o meno prossimo colonizzeremo altri pianeti.

Sproniamo noi stessi e i nostri figli a essere forti, a fare del loro meglio per superare i loro limiti, per essere vincenti. La rincorsa al limite è incoraggiata in ogni caso, è considerata la molla del cambiamento, del progredire come naturale e spontaneo procedere avanti. Oltre a generare sofferenze e disagi il superamento dei limiti non fa altro che mettere in evidenza l’esistenza stessa dei limiti, esaltandoli e peggiorando le cose.
Il superamento dei limiti è all’ordine del giorno. La nostra alimentazione è ovviamente squilibrata e eccessiva. Il superamento dei limiti nell’alimentazione, facilitata dalla società dell’opulenza e della mancanza di relazioni umane vere, portano alla sofferenza dell’obesità e al peggioramento degli stili di vita e della salute, mettendo in risalto altri limiti come quelli del fisico umano e della nostra mortalità.

L’ignoranza del limite riguarda, infatti, anche il primo di tutti i limiti, quello della nostra vita. La società moderna cerca in tutti i modi di negare l’esistenza del più evidente e inevitabile limite: la morte. Un tema sempre più difficile da affrontare, con il quale non si tenta mai di familiarizzare, che appare così estraneo, così pericoloso, se non altro perché la morte è vista culturalmente come qualcosa da sconfiggere. Da ciò deriva l’attaccamento morboso alla vita, l’accanimento terapeutico e la speranza innegabile di poter un giorno trovar l’elisir di lunga vita che permetta, ai più facoltosi da prima, di estendere a un tempo illimitato la nostra esistenza su questo pianeta. Le chirurgie estatiche che tentano disperatamente di coprire i segni dell’invecchiamento sono proprio un’espressione della cultura dell’illimitatezza.

Anche le concezioni di spazio e tempo sono influenzate dall’illimitatezza. Il tempo è visto come qualcosa da riempiere sempre più, la mancanza di tempo è un limite a cui bisogna cercare di porre rimedio. Più attività e impegni si riescono a mettere in agenda in una giornata e più si raggiunge la “pienezza” della vita. Quindi la tendenza è quella di occupare tempo, meglio prima di tutto se viene occupato dal lavoro, concepito soltanto come attività remunerata, mentre il cosiddetto tempo libero, ovvero il complemento del tempo dedicato alla caccia di profitto monetario, è possibilmente occupato da attività dissipative in termini finanziari, mentre il “far nulla”, l’ozio e la noia non sono assolutamente contemplati se non come devianze che portano alla cosiddetta “perdita di tempo”, come se “il fare” sia sempre e comunque un valore, contro “il non fare” che diventa inutile e da evitare in ogni caso. Per tale motivo la ricerca ossessiva di impegni e l’iperattività, anche se fine a se stessa, sono tra i fenomeni più diffusi nell’occidente, fenomeni che non favoriscono le relazioni e portano spesso all’assunzione di farmaci per aumentare le proprie capacità; magari facendo a meno di qualche ora di sonno o di riposo, inutile, e forzando la propria resa con pasticche per restare svegli, ad esempio studiando la notte per esami che ci permetteranno di far carriera, oppure per stimolare la nostra motivazione e la nostra positività sul lavoro.

Nell’ottica dell’illimitatezza anche lo spazio è visto come un’entità da riempiere il più possibile, lo spazio vuoto non ha valore, perciò la distinzione tra vuoto e pieno discrimina lo spazio e ne fa una risorsa da sfruttare senza limiti. Nella concezione moderna, infatti, è preferibile comunque un posto affollato a un posto deserto, basti notare come la concentrazione nei luoghi pubblici va a ricadere spesso in luoghi ristretti. Le grandi strade sono spesso affollate di persone mentre nei piccoli vicoli non c’è nessuno: tutti tendono ad andare negli stessi posti e negli stessi momenti. Un esempio evidente sono le spiagge d’estate o i centri storici stracolmi solo in certi periodi dell’anno. Così vale per le strade dei centri industriali enormemente trafficate durante la settimana e vuote nei giorni festivi. In un posto dove c’è già molta gente è più facile che altre persone si aggiungano, proprio per la mania inconscia di riempire il più possibile lo spazio. Non è un caso che la densità di popolazione è enormemente aumentata nell’era industriale. Lo stesso sovrappopolamento del mondo oltre i limiti dell’ecosistema terrestre è da attribuirsi alla cultura dell’illimitatezza.

La concezione dello spazio fisico illimitato, favorita dallo sviluppo dei mezzi di trasporto e dall’apparente sovrabbondanza di energia, è oramai parte dell’entroterra culturale di tutti gli “occidentali”. Lo spazio, una volta a misura umana, si è dilatato enormemente, fino ad inglobare tutto il pianeta. La facilità e la leggerezza con cui oggi si può prendere un aereo che ci porti dall’altro capo del mondo è considerata, forse a ragione, una conquista della modernità, senza ovviamente tener conto delle ripercussioni che tale progresso ha sulla nostra condizione di pace e serenità. Pensare che per provare il vasto potenziale umano, in grado di superare ogni limite, siamo persino arrivati a conquistare la luna, un astro che da millenni sostiene la vita dell’uomo e dell’ecosistema, e non mancano i progetti di colonizzazione dello spazio, a partire dalla Luna come stazione base, o come quello di rivestire la faccia della Luna di pannelli fotovoltaici per produrre energia elettrica da trasferire sulla Terra attraverso microonde, o altri ambiziosi progetti. Tali scenari non sono da fantascienza, c’è chi li sta pensando e pianificando da tempo. Sono scenari che seguono il “naturale” processo della crescita eterna e sono ritenuti grandi visioni per il futuro dell’uomo, un futuro di illimitato progresso e distruzione. I visionari sono degli eroi, dei sognatori, i pionieri del futuro.

(Articolo estratto da “Ritorno all’Origine” di Luca Madiai)

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Mi interesso da qualche anno delle tematiche della decrescita e della sostenibilità ambientale, economica e sociale. Sono arrivato alla decrescita dopo il mio percorso di studi di ingegneria nel settore della produzione di energia. Durante gli anni universitari sono stato membro attivo dell’associazione studentesca europea AEGEE ed ex presidente della sede locale di Firenze (AEGEE-Firenze). Ho lavorato a un progetto sull’energia geotermica a Budapest, dove sono vissuto per alcuni mesi nel 2009 e nel 2010 e ho scritto la tesi di laurea specialistica. Ho studiato anche la lingua ungherese. Nell’autunno del 2010 ho scritto il saggio Decrescita Felice e Rivoluzione Umana e aperto l’omonimo blog dove cerco di diffondere le mie idee attorno alla decrescita felice e alla filosofia buddista. Nel 2012 ho contribuito alla rinascita del Circolo Territoriale del Movimento della Decrescita Felice di Firenze (MDF-Firenze), di cui sono parte attiva. Ho lavorato nel settore delle energie rinnovabili, in particolare fotovoltaico ed eolico. Mi diletto nello scrivere poesie “decrescenti” e nello spostarmi quasi sempre in bicicletta. Credo nella sobrietà, nella semplicità e nelle relazioni umane disinteressate come mezzo per migliorare la qualità della vita e cerco ogni giorno di attuarle. Ho scritto due libri sulla decrescita liberamente scaricabili da questo sito: "Decrescita Felice e Rivoluzione Umana" e "Ritorno all'Origine"

3 Commenti

  1. Mi piace questo articolo e mi piace la visione del limite che propone che, mi sembra molto femminile,. Senza offesa alcuna, questo articolo mi sembra la testimonianza che la “decrescita” sta integrando il pensiero-atto dei grandi eroi e il pensiero-atto delle “donnine di casa”, insomma finalmente pensiero femminile e maschile si compenetrano e si diffondono, offrendo al mondo ideali più sani e giusti, di superamento del limite ma anche di accettazione, rispetto e cura.Carino il lapsus “chirurgia estatica”!
    Non sono poi tanto certa però che la ricerca dei luoghi affollati possa essere solo determinata dal bisogno di colmare il “vuoto” in sè, nel senso che credo che troppo spesso il nostro attuale modo di vivere ci abbia recluso in piccoli appartamenti; spesso le condivisioni sono fatte tra piccolissimi nuclei.Mi sembra che non sia ancora la maggioranze della gente ad associarsi e a condividere vite-ideali-speranze; anzi sempre più vedo intorno a me solitudine, soprattutto dipendendo dalle età e scelte di vita. Probabilmente quello che ci manca, quel vuoto che si è creato e che vogliamo inconsciamente colmare e quel condividere primordiale, l’antico stare intorno al fuoco parlando sia con giovani che con anziani, quel conoscere la vita ed i suoi limiti, anche attraverso i piccoli racconti altrui, quello scambio genuino che i centri piccoli a volte ancora facilitano.
    Tutti corriamo e siamo presi dalle nostre cose ed a volte sembra difficile semplicemente fermarsi e raccontarsi davanti ad una tazza di té o ancora sotto un vecchio albero, a volte è difficile farlo persino tra familiari. Grazie per aver condiviso le tue riflessioni. Claudia http://ecoinarte.blogspot.it/

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