Le trasformazioni nel mondo agricolo dagli anni ’60

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Per comprendere quanto è avvenuto nel mondo agricolo, negli ultimi 50 anni, serve comprendere quanto è andato consolidandosi nei tre secoli precedenti, sotto il profilo economico e le conseguenti ricadute sociali.

Le trasformazioni nell’Italia pre-unitaria sono state molto piu’ lente che altrove, sia pure con ritmi diversi, nei vari Stati Regionali. In genere, tutti i paesi della Controriforma, risultano piu’ arretrati rispetto a quelli della Riforma: fenomeno già ben visibile nel XVII secolo e che dura tutt’oggi.

Nella Germania di Lutero, nonostante le pesanti repressioni contro i contadini in rivolta, l’ammodernamento delle campagne, in senso capitalistico, va avanti; mentre, in Italia, nello stesso periodo, sopravvivono ancora forme estese di allodio, i diritti ecclesiali di Manomorta, contratti di enfiteusi; soppiantati solo a seguito delle leggi napoleoniche, per mezzo delle quali vengono soppressi molti monasteri e secolarizzati molti dei beni ecclesiastici.

La Rivoluzione Francese porta grandi novità anche in Italia. I fittavoli diventano nuova classe dirigente nelle campagne, sostituendosi ai nobili. Iniziano così le profonde trasformazioni in agricoltura. Viene introdotta la rotazione novennale dei terreni, i sistemi irrigui, le marcite: tutti provvedimenti tesi ad aumentare la redditività dei suoli.

A tutto ciò corrisponde un non risolto problema di relazione con le masse di braccianti che, a differenza di mezzadri e coloni, vivono di salario. L’avere procrastinato i Patti Agrari per lungo tempo (almeno fino a Crispi e Quintino Sella) provoca grandi tensioni sociali, a volte sfociate in veri e propri moti di rivolta (si pensi ai Fasci Siciliani) e, nel contempo, all’incapacità di competere sul mercato coi paesi ad agricoltura avanzata.

Se in Italia c’è la piu’ grande emigrazione del continente, che in modo massiccio e a piu’ “ondate” caratterizza il XIX e XX secolo, ciò è dovuto al fatto che difetta, in modo assai grave, della regolazione dei rapporti tra le classi sociali.

Il fenomeno riguarda soprattutto il sud d’Italia ma anche buona parte del centro-nord (Veneto, Emilia, le valli del bergamasco, la Valtellina,il cremonese e mantovano, le aree risicole della Lomellina e vercellese). Se la pianura, caratterizzata dal latifondo, langue, divorata dai contrasti tra agrari e contadini, nelle aree montane la situazione va meglio, almeno fino agli inizi dell’industrializzazione.

La montagna è connotata dalla piccola proprietà contadina. Le produzioni locali sono per lo piu’ per autoconsumo. I contadini sono poveri ma, tutto sommato, autosufficienti. Il fatto che le aree montane sono lontane dalle più importanti vie di comunicazione, consente una certa tranquillità alle popolazioni, al riparo dalle scorrerie degli eserciti di passaggio o dalle grandi epidemie, come la peste del 1629; come pure, con le dovute eccezioni,  nell’appennino parmense.

Ma queste condizioni di equilibrio cessano, a mio avviso, per un aspetto molto presente e poco indagato dagli storici: il sistema di ereditarietà delle terre, mortis causa (partage égal), definito dal Code Napolèon. Lo spezzatino delle proprietà tra eredi, a differenza delle misure previste in Alto Adige col “Maso Chiuso”, determinano una insufficiente disponibilità colturale, sotto il minimo necessario, anche per una agricoltura di sostentamento.

Inizia così quell’esodo dalla montagna, prima solo stagionale (per lo piu’ locale, verso la pianura), poi definitivo: soprattutto verso le americhe, l’Australia, il Belgio, l’Inghilterra, la Germania (prima ondata); poi verso il triangolo industriale del nord (a ridosso degli  anni sessanta)

Ho fatto questi brevissimi cenni storici per delineare, seppure in modo assolutamente sommario, il quadro che l’ISTAT, tramite il Censimento Generale della Popolazione, dell’Agricoltura e dell’Industria rileva, al primo anno di ciascun decennio.

Dai dati pubblicatii è possibile valutare il significato delle serie storiche.

La tabella che segue è ricca di informazioni:

superf_coltivata

I dati riportati si riferiscono al numero di aziende agricole, suddivise per numero di addetti e le superfici coltivate. Il periodo di riferimento è compreso nell’intervallo di tempo tra il 1961 e il 2000.

Ciò che balza all’occhio è la progressiva espulsione dei piccoli produttori e il consolidamento delle aziende di medio-grande dimensione. Negli anni è sempre piu’ forte l’abbandono di chi non ha mezzi di produzione e non è in grado di sostituire alla propria forza-lavoro costosi mezzi meccanici.

Per molti è impossibile reggere la concorrenza, per cui, fuori dal mercato, essendo in surplus come braccianti, uomini e donne (soprattutto del sud) fanno la valigia per cercare migliore fortuna nelle fabbriche del nord. Ciò che ci hanno raccontato le pellicole del neorealismo lo possiamo rintracciare anche nei numeri dell’ISTAT.

Dal 1961 al 2000, le aziende agricole passano da 4.293.924 a 2.593.090; con un calo del 39%. Ma il dato che piu’ colpisce riguarda il calo delle piccolissime aziende, che passano da 14.830 a 2.416, (- 83,7%) Anche guardando i dati riferiti alla superficie coltivata si nota un evidente decremento.

Gli ettari a coltivo passano da 26.571.665 a 19.607.093 ( -26,2%) Se ci fermassimo ai dati di questa tabella, verrebbe da dire: meno addetti, piu’ concentrazione specialistica in poche aziende medio-grandi, meno terra coltivata, meno produzione. In realtà non è così: la produzione agricola è aumentata significativamente nei saldi, pure cambiando la composizione numerica delle specie coltivate e delle loro quantità.

Questi numeri sono anche il risultato degli interventi Comunitari e il riflesso di scelte ondivaghe e contradditorie in campo agricolo. Ma come può essere successo che, su superfici ridotte si sia prodotto di più?

La risposta sta, soprattutto, nell’impiego massiccio di ammendanti che hanno potenziato al massimo la redditività dei suoli. Che si tratti di questo è riscontrabile ancora nei dati forniti dall’ISTAT.

Si guardi la seguente tabella ( ns. elaborazione su dati ISTAT):

ISTAT_miner

Il dataset riporta le seguenti voci: anno, tipi di fertilizzanti (binari e ternari), superficie coltivata [ogni decennio assume i valori uguali per tutto il periodo], periodo (suddivisione in decenni). Senza fare troppi calcoli si può notare come vi sia un incremento progressivo dell’uso di ammendanti che raggiunge il massimo nel periodo 1981-1990, per poi diminuire.

Tale diminuizione è dovuta, probabilmente, a piu’ fattori:

a) una  maggiore consapevolezza dei danni che l’uso massivo degli ammendanti può recare all’equilibrio biochimico del suolo;

b) ad una piu’ elevata sensibilità ecologica della popolazione;

c) alla constatazione , de facto, dell’inaridimento dei suoli;

d) all’abbassamento delle soglie di tollerabilità dei residui, contenute nei decreti legislativi.

Se poi passiamo all’esame dei dati, tramite l’analisi fattoriale (Principal Components Analysis), abbiamo la conferma di quanto possiamo intuire col semplice buon senso.

La tabella che segue mostra gli eigenvalues della PCA:

eigenvalues

La prima e la seconda dimensione spiegano, rispettivamente, il 51,72% e il 38,11% della varianza (compessivamente sui due assi 89,83% della varianza totale)

E’ evidente la correlazione negativa tra aumento dell’uso degli ammendanti fosfato-potassici e azotato-potassici, da una parte(0.936,0.958) e diminuizione d’uso del suolo, dall’altra (-0.929).

Gli stessi dati, in forma grafica, evidenziano il fenomeno:

sup_colt_PCA

A questo punto non resta che risolvere un rebus, e trarre alcune conclusioni.

Il rebus è il seguente: cosa ci si potrà inventare di nuovo per fare in modo che i terreni continuino ad avere una resa elevata, garantendo il medesimo rendimento e, nello stesso tempo, la salute dei consumatori?

Che l’uso massiccio di prodotti chimici comporti inaridimento del suolo, distruzione della fauna edafica, riduzione conseguente della porzione humica e, alla lunga, desertificazione, è provato e documentato da fonti ufficiali, quali l’ISPRA; sul cui sito sono bene in evidenza i risultati dei rilievi compiuti negli ultimi decenni.

Non manca, dunque, che trarre le conclusioni.

1) Le politiche di capitalizzazione dell’agricoltura hanno visto, dagli anni ’50 in poi, una progressiva espulsione di manodopera dalle campagne ed una corrispondente concentrazione della produzione nelle mani di un ridotto numero di aziende di medio-grandi dimensioni; tramite l’impiego massiccio di mezzi meccanizzati e altrettanto massiccio impiego di ammendanti chimici.

2) Progressivamente, negli anni, vi è stato un minore utilizzo di suolo, dovuto alla ridotta fertilità dei terreni per via delle ragioni summenzionate.

3) Le politiche Comunitarie, nel medio- lungo periodo, hanno ridotto l’autosufficienza italiana, costringendo il nostro Paese ad approvigionarsi sempre piu’ sul mercato internazionale di prodotti agricoli. E’ il caso del grano duro, del quale l’Italia (si pensi alla Barilla) è il primo importatore e consumatore al mondo.

4) la debacle agricola ha comportato riduzione della base produttiva, progressiva dipendenza dall’estero,  espulsione di manodopera dai cicli di lavoro,  forti crisi aziendali le cui conseguenze portano a grave crisi del settore e a chiusure di molte aziende (sia agricole che zootecniche) .

In estrema sintesi, i processi di questo cinquantennio sono stati all’insegna della concentrazione: pochi addetti, con notevoli mezzi.

Lo scopo doveva essere quello di ridurre drasticamente i costi per unità prodotta e, parimenti, garantire, con minori impieghi, una maggiore produzione di derrate alimentari, sia per consumo umano che animale.

Alla lunga questo modello ha dimostrato tutte le sue fragilità.

Se poi associamo quanto è avvenuto in agricoltura a quanto è avvenuto, in modo speculare, nell’industria, possiamo concludere che il gigantismo capitalista ha fatto grandi danni.

Esaurita la fase espansiva, superata l’ogiva del massimo sviluppo, la curva tende inesorabilmente all’asintoto.

Da un punto di vista demografico-sociale, e siamo ai giorni nostri, possiamo solo notare come vi sia una fortissima concentrazione di popolazione nelle grandi aree urbane; uno svuotamento delle campagne, a partire dalle aree montane dell’arco alpino e appenninico.

La crisi generale: economica, sociale, politica, è l’evidenza oggettiva di scelte sbagliate.

L’oggi è il risultato delle politiche di ieri, dell’accumulo di errori e misure improvvide.

Nelle città si vive male, il lavoro non c’è e quando lo si trova è spesso precario. L’austerità, non come occasione del cambiamento ma come meri provvedimenti restrittivi, spesso imposta dagli organi Comunitari, è lo specchio evidente di qualche cosa che, nei decenni, non ha funzionato ed ha garantito solo uno sviluppo effimero.

Il barile è stato raschiato, le politiche liberiste hanno fallito. In compenso la società vive una crisi sistemica che difficilmente verrà mai superata; se non ripensando profondamente il modello di sviluppo.

Modello che non può non ripartire da un riequilibrio degli attuali scompensi territoriali.

Le idee della decrescita possono rivelarsi le solo praticabili.

 Fonte immagine in evidenza: Wikimedia Commons

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Originario della provincia di Sondrio, ho vissuto per molti anni a Sesto San Giovanni (MI) occupandomi di Garanzia della Qualità, prima come dipendente poi come libero professionista. Da otto anni vivo in una frazione del comune di Compiano (PR). Quando ci siamo tutti siamo in tredici persone. Cerchiamo , mia moglie ed io, di autoprodurre tutto quello che ci serve e di condividere con gli amici del GAS, del quale facciamo parte, acquisti e filosofia di vita. Sono laureato in Scienze Statistiche. Mi occupo di biodiversità come ricercatore. Sono coordinatore del Centro ISPRA dell'Appennino Parmense, per lo studio del suolo e degli effetti dell'impatto antropico.

5 Commenti

  1. Riguardo alle superfici coltivate forse dovrebbero essere prese in considerazione le aree di piccole dimensioni, coltivate direttamente solo in modo nominale da coltivatori diretti, in gran parte pensionati, che in verità si limitano a “tener pulito” il terreno in attesa di destinazioni d’uso più redditizie.
    Credo che sia un fenomeno non trascurabile specialmente nelle zone agricole più vicine alle aree urbane. Queste aree potrebbero ritornare alla produzione molto facilmente ed offrire produzioni, a km0 per le aree urbane, magari fornendo agli agricoltori solo aree coperte comuni con minimi servizi, un tetto e servizi igenici, per vendere giornalmente la loro produzione come ho visto fare in Ecuador per esempio.

  2. Caro Giancarlo,
    concordo con te sul fatto di prestare maggiore attenzione ai terreni marginali: a cominciare da quelli montani in disuso che possono essere recuperati.
    Parimenti è importantissimo il fenomeno di chi ( non solo pensionati) coltiva piccole porzioni per ottenerne prodotti orticoli.
    Di tutto questo desidero scrivere nel prossimo articolo.
    Grazie per le tue osservazioni.
    Daniele

    • Ho dimenticato di farTi i complimenti per l’ottimo lavoro che hai pubblicato sopra: proprio ben fatto e ben scritto.
      Un allevatore marginale.

  3. Ritengo sia ormai ora che da parte degli Enti sovraterritoriali (Regioni, ma anche Ministeri competenti) ci si convinca – e si provveda con concreti atti conseguenti in termini di supporto – che quanto ancora resta dei coltivatori (spesso manutentori) di piccoli appezzamenti di zone d’entroterra ( vedi ad esempio quella ligure in cui risiedo) svolgono un insostituibile ruolo di custodi del territorio, il cui abbandono costringe poi a rincorrere, con tragiche conseguenze, eventi di emergenza ( vedi % Terre, e non solo)

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