Sul sito Web di FioriGialli, Massimo Marino analizza i risultati delle ultime elezioni europee, chiudendo con questo auspicio:
Da domani forse serve altro: proporre al centro della scena, ma proprio al centro, fuori dagli incubi delle destre e delle sinistre, una larga alleanza popolare, ecologista, sognatrice e radicale, che sollevi lo sguardo dal proprio ombelico, che non sia ossessionata solo dalle elezioni, che guardi il futuro, aspiri ad essere maggioranza sociale e non gruppuscolo e proponga con realismo una rivoluzione per vivere felici. Non chiedetemi come, so che è difficile ma non c’è altro di più realistico.
La speranza è assolutamente condivisibile, persino l’anarchico più incallito dovrebbe ammettere che è meglio rapportarsi con un potere anche solo vagamente interessato alla questione ambientale anziché con l’intransigente difesa del business as usual (pertanto, non mi sorprende che Noam Chomsky si sia espresso in favore della proposta di Green New Deal).
Al pari di Marino, neppure io dispongo della sfera di cristallo per capire ‘come’ realizzare tale importante progetto, in compenso però ho alcune idee sul ‘perché’ sia difficile implementarlo. Infatti, esistono quattro scogli fondamentali che impediscono la coesione tra le diverse anime ambientaliste, fomentando anzi svariate divisioni:
- riconoscimento della fine della crescita economica e della necessità di ridurre l’entità di consumi e popolazione: tale argomento non solo esclude automaticamente tutte le corrente dello ‘sviluppo sostenibile’ (non dovrebbe sorprendere più di tanto), ma anche coloro che prendono sul serio il paradosso di Latouche dei dodici miliardi di burkiné o chi, al contrario, ostinandosi a difendere il modello di vita occidentale, ciarla senza costrutto di un’umanità ridotta a un quinto, un decimo, ecc. di quella attuale;
- riconoscimento della necessità di rilocalizzare non solo la produzione ma anche (e soprattutto) la politica, ben al di là della consueta polemica ‘globalismo vs sovranismo’; infatti, tale rilocalizzazione inizialmente assumerebbe i contorni di un ‘ritorno allo stato-nazione’, ma poi dovrebbe evolvere in forme preconizzate dal bioregionalismo che farebbero storcere il naso a molti (per qualche idea al riguardo, rimando a un articolo di qualche anno fa di Antonio Turiel, sempre attualissimo);
- riconoscimento del carattere globale del problema ecologico, che richiede un approccio sovrannazionale che ovviamente non può consistere nella distopia neoliberista ma neppure nel ‘padroni a casa propria’, dal momento che gli inquinanti non conoscono frontiere;
- messa in discussione del sistema economico mondiale centro-periferia, attraverso una seria riflessione su flussi migratori e di materie prime (ugualmente al primo punto, a seconda dell’ottica ‘salviniana’ o ‘boldriniana’ si tende di solito a esaminare solo un aspetto della questione).
Come si evince chiaramente, il problema fondamentale è che la ‘soluzione’ auspicabile raggruppa precetti appartenenti a svariate visioni politiche e filosofiche (etichettabili, a seconda dei casi, come sovraniste, cosmopolite, di destra o sinistra) senza riconoscersi perfettamente in nessuna di esse (cosa che invece tende a fare la maggioranza della gente, accettandole dogmaticamente come religioni).
Ovviamente, ciascuna istanza è generatrice di altre problematiche che potrebbero causare discordia (ad esempio, se l’economia non può più crescere bisogna ristrutturare il debito, operare una ridistribuzione di ricchezza capillare dall’alto verso il basso, ripensare completamente i concetti di assistenza sociale e previdenza, ecc.); senza poi contare la profonda frattura ideale tra le anime libertarie e quelle, spesso decisamente reazionarie, più legate al comunitarismo.
La questione è complessa e pensare di avere trovato la quadratura del circolo sembrerebbe davvero supponente. Tuttavia, sono convinto che una intuizione nella giusta direzione sia stata fornita dall’anarco-socialista Dwight Macdonald nel suo celebre articolo ‘La radice è l’uomo’, pubblicato nel 1953 su Politics. Condannando il feticismo delle masse tipicamente marxista, l’intellettuale statunitense riteneva che la base per un’autentica rivoluzione potesse provenire da coloro che “lanciano un immediato appello ai cittadini, l’appello dell’individuo che è abbastanza coraggioso e serio per opporsi”.
E’ un dato di fatto che, all’iniziativa personale di Greta Thunberg successivamente scaturita nella formazione del Fridays for future e nello sciopero del clima, hanno fatto seguito le azioni di Extinction Rebellion, formazione su posizioni più radicali, e pare che altri sforzi stiano per vedere la luce; un atto individuale è servito da moltiplicatore anche per approcci differenti da quelli propugnati, con buona pace di chi vede in Greta un burattino pro-sistema manovrato da Soros, Rockfeller e i rettiliani. Eventi analoghi sono successi frequentemente in passato, si pensi agli USA ai tempi della lotta alla segregazione, con la disobbedienza civile di Rosa Parks che ha aperto un variegato vaso di Pandora (Luther King, Malcolm X, Mussulmani Neri, Pantere nere, ecc.).
Insomma, nell’eterna diatriba tra chi sostiene il valore dell’azione individuale e chi la sminuisce perorando la necessità di rivoluzioni sistemiche (senza accorgersi che i due concetti sono lati differenti della medesima medaglia), non vorrei che, traviati dalle recenti elezioni, il desiderio di ‘fare numero’ sviasse da una componente non unica ma sicuramente imprescindibile per un concreto cambiamento culturale e politico. Anche perché, paradossalmente, trovare dentro se stessi impegno e coraggio per azioni esemplari è allo stesso tempo complicato quanto dannatamente a portata di mano – sicuramente più di elaborare complessi piani strategici per la conquista di ipotetici palazzi di Inverno.