Il presente testo costituisce parte integrante di un saggio in corso di stesura. Le restante parti verranno pubblicate su DFSN mano a mano che verranno completate. Alla luce di sviluppi imprevisti e/o dei vostri commenti, le parti precedentemente pubblicate potranno venire in seguito modificate e migliorate.
Parte Prima
Cap. 1 Verso una definizione del problema
Quando si parla di economia, molte delle discussioni e delle incomprensioni hanno origine non da divergenze ideologiche o di prospettiva, bensì dal fatto che i termini che si stanno utilizzando spesso non vengano opportunamente definiti. Concetti quali crescita economica, PIL, produttività del lavoro, debito pubblico e privato e inflazione sono fra i più citati dai media e nelle nostre conversazioni quotidiane, e proprio per questa ragione si tende a dare per scontato che le definizioni siano note e condivise da tutti. Al fine di evitare tale rischio, in questo saggio renderò esplicite le definizioni (così come intese nel contesto in cui verranno utilizzate) dei termini tecnici più importanti ogniqualvolta faranno la loro prima apparizione nel testo; esse compariranno a seconda dei casi direttamente nel corpo principale oppure in nota.
A costo di risultare scontato, desidero iniziare questa prima parte provando a rispondere ad una domanda essenziale: che cosa si intende per “crescita economica”?
Una prima e semplice definizione (che tuttavia è sufficiente per gli scopi che qui ci prefiggiamo) può essere la seguente: la crescita economica è l’incremento della capacità produttiva di un paese (o, a seconda del quadro di riferimento, di una federazione o unione di paesi, o anche del mondo intero) come misurata dalla comparazione fra il PIL di un anno con il PIL dell’anno precedente.
Il prodotto interno lordo (PIL) può essere a sua volta definito come il valore di mercato di tutti i beni e i servizi finali prodotti in un paese in un dato periodo di tempo.
E’ facile immaginare quanti elementi di primo piano nella vita economica di un paese restino esclusi dal computo del PIL. Solo per darne un’idea sommaria, non vengono conteggiati: il mercato dell’usato, la produzione domestica per autoconsumo, l’economia sommersa e la produzione di beni intermedi non ancora trasformati in beni finali.
Inoltre contribuiscono al PIL spese che non apportano nulla alle persone in termini di benessere, ad esempio: i costi derivanti dalla riparazione dei danni apportati dalle esternalità negative delle industrie sull’ambiente, le spese per la ricostruzione a seguito di catastrofi naturali quali terremoti e uragani, l’acquisto di cibi che finiscono poi nella spazzatura perché non consumati [1].
Per finire può essere utile riportare una definizione più analitica del PIL. L’equazione convenzionale che lo identifica è la seguente:
Y = C + I + G + NX
Dove C rappresenta il consumo, I sono gli investimenti, G è la spesa pubblica e NX solo le esportazioni al netto delle importazioni. La somma di queste componenti, calcolate nell’intervallo di tempo di un anno, costituiscono il prodotto interno lordo.
Ora che sappiamo per sommi capi cos’è la crescita economica e che essa si misura utilizzando come criterio di riferimento il PIL, è necessario rispondere ad un’altra domanda: che cosa la rende tanto importante agli occhi di molti?
Possiamo identificare tre motivazioni principali che fanno sì che la crescita economica venga così strenuamente perseguita da governi e istituzioni, al punto da sacrificare per essa la qualità dell’ambiente, da consumare sempre più freneticamente i limitati stock di risorse del pianeta, da mettere alla prova la capacità di resilienza di molte risorse rinnovabili e da indurre i consumatori a consumare ben oltre le proprie necessità, se necessario indebitandosi. Naturalmente sarebbe possibile identificare molteplici altre motivazioni di tipo culturale o sociale alla base del perseguimento di tale obiettivo, ma ciò che mi preme qui evidenziare sono unicamente le motivazioni più strettamente economiche le quali, a parere di chi scrive, sono anche quelle che effettivamente posseggono il maggiore potere coattivo nei confronti di chi detiene le redini del potere. In effetti molte delle motivazioni di stampo sociale e culturale che vengono di volta in volta messe sotto i riflettori dai teorici della decrescita e accusate di essere alla base dell’ideologia della crescita (ad esempio i consumi compulsivi, la pubblicità, l’emulazione di stili di vita delle classi più elevate ecc.) possono essere considerate per molti aspetti di volta in volta quali strumenti utilizzati dai poteri forti per spingere sull’acceleratore della crescita e/o conseguenze delle motivazioni economiche che verranno qui ora trattate.
La prima di queste motivazioni, nonostante sia forse la più insidiosa, è anche quella meno evidente e meno conosciuta.
Si tratta di un processo storico-economico, strettamente legato all’innovazione tecnologica, che ha caratterizzato le nostre economie durante gli ultimi due secoli: il continuo incremento della produttività del lavoro.
Sebbene nei secoli precedenti alcune innovazioni tecniche avessero già condotto ad un aumento della produttività del fattore lavoro, è solo con l’avvento della rivoluzione industriale che quest’ultima ha imboccato il sentiero di una crescita quasi esponenziale (e apparentemente senza fine), rendendo possibile un livello di produzione fino ad allora nemmeno lontanamente immaginabile. A prima vista – e tralasciando le esternalità negative dell’industrializzazione sugli ecosistemi e sugli stock di risorse non rinnovabili – un incremento nella produttività del lavoro potrebbe apparire come un fatto tutt’altro che indesiderabile. Ed in effetti ciò è vero, ma solo a condizione che l’economia continui a crescere [2]. In un’economia stagnante, ove il PIL si mantenga stazionario, un incremento nella produttività del lavoro condurrebbe infatti – ceteris paribus – ad un aumento del tasso di disoccupazione, per la semplice ragione che diverrebbe possibile produrre la stessa quantità di beni con un numero inferiore di ore lavorate, e dunque di lavoratori [3].
Ad un aumento del tasso di disoccupazione farebbe inesorabilmente seguito una contrazione dei risparmi e/o dei consumi aggregati, la recessione economica e una conseguente ed ulteriore contrazione dell’economia e del tasso di occupazione. Un circolo vizioso i cui esiti sarebbero devastanti non solo sotto il profilo economico ma anche e soprattutto sotto quello del benessere della società nel suo complesso.
Al fine di contrastare tale dinamica non vi è apparentemente altra scelta che lasciare che l’economia si espanda, compensando gli aumenti di produttività del lavoro con proporzionali incrementi della produzione aggregata e dei consumi (stimolando entrambi con strumenti fiscali e finanziari [4]). In tal modo – con occupazione e tassi di risparmio stabili e consumi in aumento – il circolo virtuoso [5] della crescita può produrre i suoi frutti [6] che, attraverso opportune politiche orientate all’equità, possono essere in seguito redistribuiti garantendo a tutti un benessere maggiore (per lo meno in termini di utilità economica).
Ma vi sono altre due importanti motivazioni che rendono la crescita economica a tal punto anelata dalla politica e dalle istituzioni economiche e finanziarie.
Sulla prima di queste torneremo meglio nel secondo e terzo capitolo, quando analizzeremo la struttura e alcune importanti caratteristiche dell’attuale sistema economico-finanziario. Qui basti dire che essa riguarda essenzialmente l’efficacia della crescita economica nel contrastare le spinte inflattive generate dall’espansione monetaria: se da una parte infatti un’inflazione moderata sembrerebbe essere connessa a taluni vantaggi derivanti dall’immissione di liquidità nell’economia (li vedremo più avanti), dall’altra un’inflazione eccessiva può essere pericolosa se non tenuta opportunamente a bada attraverso politiche di controllo messe in atto dalle istituzioni finanziarie preposte a tale compito (in primis le banche centrali). La crescita economica costituisce in ogni caso una naturale valvola di sfogo per l’aumento dei prezzi, compensando l’espansione della massa monetaria con una maggiore quantità di prodotti e servizi disponibili sul mercato.
La terza motivazione – peraltro strettamente legata alla precedente – riguarda infine il problema dei debiti pubblici e privati.
Quello dei debiti sovrani è forse percepito (va detto, non del tutto a torto) come il problema per eccellenza, se non altro poiché da quando la crisi finanziaria si è tramutata in recessione economica, i mass media non fanno altro che parlare di quanto la crescita economica sia essenziale, oltre al rigore dei bilanci, per tenere a bada i debiti pubblici degli stati. L’equazione è semplice: più denaro nell’economia, maggiori introiti per lo stato attraverso la tassazione e maggiori possibilità di intaccare il debito o quantomeno contenerne l’espansione. Al contrario la recessione economica non lascia agli stati altra scelta che aumentare l’imposizione fiscale (aggravando ulteriormente la fase recessiva), tagliare la spesa pubblica (intaccando il benessere delle persone) o indebitarsi ulteriormente.
Per quanto riguarda i debiti privati, la situazione non è troppo diversa: si è assistito, negli ultimi 20-30 anni, a un loro aumento costante in tutto il mondo occidentale (anche se molto più negli USA e molto meno in Italia), in parte proprio a causa di politiche finanziarie che hanno fatto del basso costo del denaro uno dei principali mezzi per il mantenimento della crescita. Come vedremo meglio in seguito, tuttavia, si è venuto a creare uno scompenso fra un settore produttivo ipertrofizzato (drogato dal basso costo del denaro) e l’effettiva capacità di assorbimento dell’aumentata produzione da parte di consumatori sempre più poveri. Dunque la soluzione ovvia è stata in un primo momento l’erosione dei risparmi, e successivamente la spirale nefasta dei consumi “a debito”.
Queste tre motivazioni dovrebbero fornire un quadro generale sufficiente a spiegare perché la crescita economica sia propugnata come panacea per ogni male in maniera trasversale da pressoché tutti gli schieramenti politici: ciò che cambia è solo come (e se) distribuirne i frutti.
Abbiamo appena delineato sommariamente le dinamiche che rendono la crescita economica un fattore così centrale all’interno del sistema economico vigente. Per addentrarci ulteriormente nelle problematiche ad essa connesse, e al fine di elaborare una proposta per il loro superamento, è a questo punto opportuno fare un passo indietro e analizzare (a grandi linee e senza entrare eccessivamente nel dettaglio) le relazioni tra crescita economica, sistema finanziario ed economia reale.
Alcune delle questioni che tratteremo nei capitoli 2 e 3 potrebbero apparire scontate o addirittura irrilevanti, altre potrebbero invece scatenare, per la prospettiva da cui le analizzeremo, reazioni di rigetto o di forte disaccordo. E tuttavia adotterò di proposito un’ispirazione teorica (riconducibile alla cosiddetta “scuola austriaca”) piuttosto trascurata dalla gran parte degli economisti, e spesso tacciata – non del tutto a torto – come filo-liberista e filo-capitalista; lo farò al fine di gettare “nuova” luce su alcuni dei principali luoghi comuni inerenti al tema, nella convinzione che una loro analisi da una diversa prospettiva possa agevolare la ricerca di soluzioni efficaci e condivise ai problemi (principalmente socio-culturali e ambientali) generati dalla crescita economica.
Farò particolare riferimento a tale linea teorica anche per un’altra ragione: ritengo che la preponderanza di teorie più o meno esplicitamente neo-keynesiane poste al centro delle prospettive economiche dei movimenti pro-decrescita rischi di limitare da un lato l’ampiezza di visione dei suoi membri, dall’altro la gamma di possibili percorsi di riforma dell’attuale sistema sociopolitico ed economico in direzione di una auspicata società decrescente. Se tuttavia utilizzerò inizialmente le lenti di una particolare teoria, cionondimeno non esiterò a privarmi di tali filtri laddove la visione divenisse sfocata o poco funzionale agli scopi finali del saggio.
Una volta tracciati i confini della realtà su cui intervenire tenterò, nella seconda parte del saggio, di sviluppare le mie proposte rifacendomi a più fonti, mantenendo al tempo stesso, per quanto possibile, una linea propositiva orientata al pragmatismo [7].
Note:
1. Per una critica ai limiti del PIL come indicatore di benessere da una prospettiva vicina a quella della decrescita vedi in particolare “Prosperità senza crescita: economia per il pianeta reale”, Tim Jackson, 2009. Al di fuori di tale prospettiva da circa vent’anni vengono elaborati e proposti da più parti indicatori alternativi al PIL; fra i primi e più importanti vale sicuramente la pena citare lo Human Developmen Index (HDI) nato dalla collaborazione fra gli economisti Amartya Sen e Mahbub-ul-Hac e presentato per la prima volta nel 1990 dallo United Nation Development Program (UNDP) nel contesto del primo Human Development Report (HDR).
2. Si intende qui semplicemente sostenere che, all’interno di un sistema economico/normativo dipendente dalla crescita quale è quello attualmente vigente, un aumento della produttività del lavoro che non sia accompagnato da crescita economica produce effetti nefasti difficilmente eludibili. Con ciò non si intende invece sostenere che l’aumento della produttività del lavoro non possa essere benefico all’interno di un sistema ecomomico/normativo basato sulla decrescita (che, va ricordato, è qualcosa di molto diverso dalla semplice crescita negativa).
3. Una delle possibili risposte al problema potrebbe essere quella di compensare la maggiore produttività con una redistribuzione delle ore lavorate fra i lavoratori attivi, in modo che tutti o quasi possano lavorare e che ognuno lavori meno. Analizzeremo meglio questa ed altre soluzioni nella seconda parte del saggio.
4. Semplificando, per quanto riguarda gli strumenti fiscali le strade percorribili sono essenzialmente due:
a) Finanziare una più o meno imponente spesa pubblica (anche) attraverso l’imposizione fiscale.
b) Contenere l’imposizione fiscale permettendo così un maggiore consumo e investimento privato.
Gli strumenti finanziari di stimolo sono invece essenzialmente tre:
a) Operazioni di mercato aperto (acquisto di titoli di stato e assets privati da parte delle banche centrali).
b) Riduzione, da parte delle banche centrali, del tasso di sconto.
d) Riduzione del tasso di riserva frazionaria obbligatorio.
Tutte e tre le operazioni hanno come esito, fra gli altri, una riduzione dei tassi di interesse operati dalle banche commerciali.
5. Naturalmente “virtuoso” fintanto che non si considerino le variabili non strettamente antropiche coinvolte, e in particolare: effetti di medio-lungo periodo sulla capacità di resilienza delle risorse rinnovabili sfruttate, effetti di medio-lungo periodo sull’erosione degli stock di risorse non rinnovabili ed effetti in termini di inquinamento generato (ad esempio, ma non solo, in termini di Co2 emessa).
6. In realtà – come vedremo meglio nel terzo capitolo – anche prescindendo da considerazioni esterne di tipo ecologico o socioculturale (limiti ambientali/fisici e conseguenze nefaste del consumismo sugli stili di vita), l’aumento dei consumi finanziato mediante immissioni di liquidità nell’economia non è mai neutro ed equo, ma avvantaggia alcuni attori piuttosto che altri. Inoltre tassi di interesse tenuti artificialmente bassi disincentivano il risparmio e conducono a consumi e investimenti “a debito” che, alterando le preferenze temporali di consumatori e imprenditori, tendono ad enfatizzare le fluttuazioni del ciclo economico rendendo necessari ulteriori interventi di stabilizzazione e stimolo dell’economia.
7. Ciò può apparire paradossale, essendo stato il concetto e la teoria di una società decrescente tacciato fin dalla sua nascita di utopismo. Superare tale paradosso, quello di “utopia concreta”, è tuttavia essenziale se davvero si vuole iniziare a mettere in atto delle riforme reali.
Ciao Federico,
ho letto le prime due puntate de “la trappola della crescita”. Sono particolarmente interessato alla tua idea circa quello che dici nella nota 2 del primo articolo a proposito del “rischio disoccupazione” che deriverebbe dal freno alla crescita.
E per questo ti chiedo di darmi una tua opinione su un mio scritto (trovi il link in calce), nel quale -come in altri analoghi che, se ti va, potrei segnalarti- sostengo che quella della suddivisione del lavoro retribuito “necessario” ad una economia stazionaria, sia LA soluzione.
Grazie per l’attenzione che vorrai dare a questa mia.
Nello De Padova
http://www.benessereinternolordo.net/joomla/index.php?option=com_content&task=view&id=493&Itemid=55
Ciao Nello! Ho letto con molto interesse la pagina che mi hai segnalato e la tua presentazione dei “cicli”. A proposito, ho visto che hai pubblicato un libro con Macrolibrarsi. Al suo interno parli anche di questo?
Mi trovi sostanzialmente d’accordo quando scrivi che “chi crede nella crescita ritiene che gli aumenti di produttività debbano essere utilizzati per fare più cose con le stesse risorse. Chi crede nella decrescita ritiene che gli aumenti di produttività debbano essere utilizzati per fare le stesse cose con meno risorse.” Tuttavia il fatto che nel sistema socio-economico attuale un rallentamento della crescita provochi disoccupazione non è affatto una supposizione, è una realtà supportata da fatti. Basta guardarsi intorno. Mi chiedi quale sia per me la soluzione a tutto questo. In realtà avrei alcune idee in mente che sto cercando di elaborare meglio in vista della stesura della seconda parte del saggio. A livello preliminare e non definitivo (è appunto una questione che sto ancora approfondendo) potrei dirti che credo che una maggiore suddivisione del lavoro retribuito, come tu stesso sostieni, sia la soluzione più ovvia. Mi riservo di rispondere meglio a tempo debito nel saggio, dove terrò sicuramente in conto anche i tuoi scritti. A questo proposito mi farebbe molto piacere se mi segnalassi dove posso trovare le altre tue pubblicazioni. Ho visto che il libro è esaurito… Grazie e a presto!
Ah, vorrei fare anche una breve riflessione circa la tua tesi secondo cui “da sempre tutti gli esseri viventi cercano di aumentare la propria produttività: questo comportamento è naturale”. Io direi che più che massimizzare la propria produttività, nel senso economico del termine, gli animali tendano semplicemente a sopravvivere, come individui innanzitutto e di riflesso come gruppo (branco, “famiglia” ecc.) e come specie. Quel che li differenzia dall’uomo è che mentre la loro produttività è funzionale alla sopravvivenza (come nell’esempio da te citato del ragno), quella dell’uomo è sovente sconnessa dalla propria sopravvivenza, o addirittura controproducente in termini di sopravvivenza: alcuni imprenditori lavorano 14 ore al giorno quando basterebbero loro 5 o 6 ore per vivere più che dignitosamente. E tuttavia va aggiunto che sebbene la produttività compulsiva, la produttività per la produttività, sia un assurdo a livello individuale, essa è cionondimeno essenziale al funzionamento dell’attuale sistema socioeconomico, costituendone effettivamente il motore principale. Date queste premesse, la proposta della decrescita non può essere solo filosofica, né solo culturale, ma deve essere necessariamente anche una proposta politica, economica e sociale. Non si può semplicemente sostituire il motore, bisogna anche ristrutturare la macchina.
Grazie Federico.
Ottimi spunti di riflessione i tuoi.
Condivido tutto quello che hai detto. Specie rispetto alla necessità di costruire una proposta politica. Specie perchè siccome la produttività cresce esponenzialmente e la crescita (quando va bene) linearmente la disoccupazione è destinata necessariamente se non cambiamo radicalmente il nostro modo di vivere.
Spero di poter leggere presto il resto del tuo saggio.
Quanto ai miei libri in realtà, sul tema, si riducono solo a dePILiamoci, per il resto cerco di contribuire al dibattito direttamente sul WEB con il sito omonimo e con la mia pagina FaceBook.