La società di oggi si regge sul principio del sogno americano, fondato sulla ricerca individuale della felicità. Ognuno lavora per il proprio personale obiettivo, degradante o elevato che sia. La società americana, che ha ideato questo modello che si sta velocemente diffondendo in tutto il globo, offre a tutti, anche se non in ugual misura, una misera possibilità, la possibilità di farcela, la possibilità di realizzare il proprio sogno. Questa è la storia che da decenni abbiamo imparato dalla propaganda hollywoodiana: in America anche il più spregevole pezzente ha la possibilità di farcela.
E se ci pensiamo bene, è su questa possibilità, anche se microscopica e insignificante, che si regge l’intero sistema economico-sociale. Come il giocatore d’azzardo, che vive e sopravvive custodendo e alimentando quella fievole e misera speranza di fare un giorno bingo, di riuscire ad entrare nell’olimpo degli eletti, di assaporare il gusto del successo, della realizzazione. Su questa speranza residua, su questa microbica possibilità il sistema investe tutte le sue energie per continuare ad esistere, perché essa rappresenta l’unica colonna portante di tale sistema, l’unico bullone che tiene insieme tutti i pezzi. Se cadesse o se fosse messa in discussione la speranza del sogno americano, l’intero sistema collasserebbe in poco tempo.
Per come è stato progettato questo sistema, tutti devono avere una loro misera possibilità, o una misera illusione, ma non per tutti, anzi, solo per pochissimi, esistono le condizioni perché il sogno americano possa realizzarsi concretamente. Perciò viviamo giorno giorno, anelando alla nostra fetta di torta, sperando di poterne erodere un pezzettino in più, sperando di poter arrivare, ma non ci accorgiamo in realtà di stare lottando l’uno contro l’altro, in una vera e propria battaglia di poveri, semipoveri o poveracci che siano, dove realisticamente nessuno ha la possibilità di farcela.
Il gioco d’azzardo è l’esempio perfetto per capire questo meccanismo. Ognuno gioca nella speranza di vincere, senza sapere, o facendo finta di non sapere, le reali probabilità statistiche di vincita. Allo stesso modo il cittadino moderno si impegna e si dà un gran d’affare per raggiungere i suoi personali scopi, in maniera legale o illegale che sia, senza rendersi conto che solo “uno su mille ce la fa”, o meglio solo uno su mille ce la può fare. Mai nessuno si è preoccupato degli altri novecentonovantanove, perché tutti quanti aneliamo ed essere quell’uno, ad essere il vincitore tra tanti perdenti. Dal momento che abbiamo quella possibilità, non ci interessa affatto di chi resta potrebbe restare escluso. Lo stesso vale per l’immigrazione da paesi degradati e distrutti dal neocolonialismo verso i paesi che ne sono causa e che luccicano di illusori splendori: in una vera e propria lotta di sopravvivenza tra morti di fame.
Una società di simile fattura, che sta dominando incontrastata su tutto il globo, non può avere futuro, e non soltanto perché sta distruggendo il pianeta e tutti i fattori vitali degli ecosistemi, ma anche perché non può condurre alla pace, alla felicità e alla vera realizzazione di tutti gli esseri umani. Al contrario, essa è stata progettata per la prosperità di pochi a discapito della felicità di molti.
Un nuovo tipo di società è agli albori, in forma embrionale per adesso. Una società della collaborazione, in cui il sogno di tutti diventa possibile, una società dell’utopia concreta. È qui che dobbiamo sviluppare la nostra capacità di realizzare l’impossibile, di disfarci di concetti chiusi, schemi rigidi, logiche preconfezionate. Acquisendo una lucida analisi critica e demolendo una visione del mondo oramai superata, saremo in grado di costruire la nuova società dell’utopia, dove tra i bisogni primari dell’essere umano, oltre a quelli squisitamente animaleschi come bere, mangiare, dormire, riprodursi, ripararsi dal freddo, sarà riconosciuto il bisogno di felicità, che non avrà niente a che fare con la quantità di cose possedute o con la quantità di cose fatte o da fare. Il bisogno di felicità per l’essere umano sarà fondamentale quanto respirare, sarà indispensabile a una vita realizzata, gioiosa e salutare. La felicità di cui parlo riguarda la felicità interna, intrinseca, dovuta alla soddisfazione dei bisogni spirituali, dell’anima, all’espressione delle proprie passioni vere, non indotte, a ciò che è fonte di speranza, di energia, di gioia illimitata, di creatività.
Per realizzare la società dell’utopia sarà indispensabile creare un modello economico-sociale che sappia limitare e controllare il capitalismo basato sul profitto. Sarà un modello centrato su un economia solidale, retta dal lavoro di tutti i cittadini per garantire tutti i servizi di base necessari a tutti. Un’economia gestita in una rete di sub-economie locali a basso impatto ambientale. La gente lavorerà il necessario, due o tre ore al giorno, come servizio civile di solidarietà. Per tutto quello che è escluso dai servizi di base esisterà come oggi un mercato, non più libero, ma sottoposto a una serie di vincoli e norme specifiche, che incorporerà tutti i costi sociali, ambientali ed economici di ogni attività, nel quale le persone potranno trovare impiego e lavorare anche dieci dodici ore, potranno competere e creare profitti personali.
Con una tale riforma della società sarà possibile incidere veramente sulle questioni più gravi che stanno oggi affliggendo il mondo intero: guerre, disoccupazioni, povertà, immigrazione, crisi ambientali ed economiche. Ma solo se ci rendiamo conto che esiste davvero un’alternativa alla competizione, a una società fondata esclusivamente sul profitto, solo se cominciamo adesso, nel nostro piccolo, a costruire questa alternativa, allora potremo sostenere che la società dell’utopia è possibile.
Con grande piacere ho letto il tuo stupendo messaggio, su cui sono perfettamente d’accordo, punto per punto.
Complimenti per la tua chiara visione del tema antropologico attuale, sia quella attuale che il progetto futuro.
Sono molto felice di avere incontrato una persona più giovane di me, che si cura del futuro della collettività umana ed implicitamente, di tutte le altre forme di vita su questo meraviglioso paradiso terrestre.
Piacere mio
Convincente e lucida la prima parte relativa al modello (e all’imbroglio) del sogno americano. La seconda parte, scusami, ma mi sembra il fioretto delle buone intenzioni, una specie di messaggio fideistico-religioso che cerca di spiegare che l’utopia è possibile e che la ricerca della felicità (titolo non a caso cinematografico) dipende quasi da uno sforzo di volontà. Troppo poco per minare le fondamenta di una società neo-liberista basata sul profitto. La mia impostazione di stampo materialista mi porta a credere che per cambiare sul serio rotta si debba sbattere la faccia contro il muro (ad esempio il muro dei disastri ambientali) e che ci vogliano potenti spallate per far aprire gli occhi a chi ce li ha cuciti. Sono però d’accordo che la prima rivoluzione debba avvenire a livello personale. Se non cominciamo a cambiare noi stessi come possiamo sperare di cambiare il mondo ?
Caro Luca,
condivido completamente il tuo messaggio.
A diferenza di Danilo, non ritengo affatto un “fioretto” immaginare e impegnarsi per un mondo possibile, del tutto diverso da quello disegnato dal capitalismo.
Ha ragione Danilo quando afferma che i grandi mutamenti avvengono cambiando il paradigma (riducendo drasticamente il consumo di energia da fonti fossili, costruendo un nuovo ordine mondiale non basato sulle politiche di dominio ecc.). Però anche i comportamenti individuali sono fondamentali.
Nessuno può chiamarsi fuori. Del resto, se osserviamo bene quanto sta avvenendo nelle società, anche nella nostra, ci accorgiamo che sono sempre piu’ le persone, colpite dalla crisi, che cercano nuove forme di autosufficienza. La “società egoista” degli anni ’80-’90, basata sull’individualismo e l’accettazione di quel modello speranzoso dei cieli sempre azzurri, basta crederci, sta lasciando il posto alla società che riscopre la solidarietà, il fare insieme, il condividere.
Nella mia esperienza personale, all’interno di un GAS e come militante dell’Associazione Piccoli Produttori della Valtaro e Ceno, posso vedere come attorno all’idea dell’economia solidale si aggreghino sempre piu’ persone. Recentemente, in collaborazione con un ristoratore, abbiamo lanciato l’iniziativa: “io mangio locale”, cioè una cena a base di prodotti locali consumati a chilometro zero. Iniziativa che ha avuto molto successo e consensi.
Già discutere con le Istituzioni Locali sul governo del territorio, la valorizzazione del localismo, del senso della comunità e la sua ( almeno parziale) autosufficienza, non è cosa da poco.
Questo percorso non possiamo immaginare che cali dall’alto. Se aspettiamo che cambino i fondamentali dell’economia , perchè all’Ambrosetti di Cernobbio, qualcuno lo decida, possiamo morire aspettando e sperando. Le cose cambieranno solo se monterà la consapevolezza, dal basso, che è necessario cambiare metodi e indirizzi.