Pubblichiamo con piacere uno scritto che ci è stato inviato dal Dott.r Bruno Biasutti, scrittore e psicologo.
La psiche umana è considerata come una specie di scatola nera misteriosa, che si può esplorare nei suoi comportamenti esterni ma non nei suoi contenuti profondi.
In verità la psicanalisi si era inoltrata nell’esplorazione fino ad ipotizzare che il nucleo della costruzione psicologica risiedesse nell’evoluzione della libido erotica, ritenuta una pulsione istintuale comune a tutti gli umani.
Quasi in parallelo la sociologia marxiana affermava che i modi di organizzazione economica delle società determinassero il destino dei bisogni materiali di base e anche il modo di concepire la vita e le relazioni sociali.
Queste due teorizzazioni hanno permesso una esplorazione prima impensabile delle dinamiche individuali e sociali e delle possibilità di influire su di esse ma, essendo concorrenziali, esse non si prestavano ad identificare e ad elaborare una causa prima unica della variabilità strutturale e dei disagi delle impalcature psichiche.
Per superare questa limitazione bisogna tenere conto che la re- pressione sessuale e l’insoddisfazione economica non sono spiegazioni esaurienti, in quanto esse non nascono ex novo ma hanno dei precedenti e dei contesti che le influenzano e le rendono relative.
Infatti le esigenze biologiche e psicologiche di base, così come si presentano nelle società civilizzate, non sono i bisogni “naturali” della specie ma bisogni condizionati e anche deviati dalla evoluzione culturale, che ci ha portati dal mondo primitivo delle comunità solidali a quello civilizzato della competizione e dell’individualismo.
E1 in questa trasformazione che si può ricercare la causa prima dell’insoddisfazione di massa del mondo moderno perché il passaggio dal solidarismo comunitario (che responsabilizzava ma dava sicurezza) alla competizione individualistica (che tollera l’egoismo ma provoca l’insicurezza della solitudine interiore) ha deformato culturalmente lo psichismo individuale, che è passato dalla dimensione dell'”essere” (e del collaborare) a quella dell’ “avere” (e del competere per il potere).
Senza una comunità rassicurante un individuo deve imparare a difendersi da solo e per rassicurarsi può solo dilatare le sue esigenze naturali, che compensano surretiziamente e provvisoriamente l’insicurezza ma diventano morbose e insaziabili.
Ecco quindi una spiegazione plausibile dell’origine e delle deformazioni del modo di vivere”progredito” che, derivando dalla rottura delle comunità primitive, si èprocurato involontariamente una specie di dannazione irreversibile; infatti gli appa-gamenti delle esigenze naturali morbose soddisfano la sfera emotiva (che è diventata insaziabile) ma non danno una serenità stabile, che può derivare solo dalla sfera affettiva dei sentimenti ( che sono stabili e non diventano morbosi).
Con questa chiave interpretativa si possono affrontare soddisfacentemente i vari problemi, individuali e di gruppo, del “vivere” umano e spiegare convincentemente le contraddizioni sociali: ad esempio perché più o meno tutti cerchino di appartenere a qual- che gruppo o associazione che imita senza successo lo spirito solidaristico comunitario; ad esempio perché un rapporto di coppia tende a degenerare se i partners hanno avuto una educazione ed esperienze di vita prevalentemente emotive piuttosto che affettive, che rendono difficile sintetizzare o amalgamare due individualismi eterogenei e stabiliscono inevitabilmente una gerarchia più o meno cosciente e accettata; ad esempio perché tutti devono fare i conti con il proprio dualismo interiore fra una difesa eg£ istica dell’Io e la spinta altruistica coltivata in età evolutiva, dualismo che obbliga tutti a recitare un copione di vita opportunistico e spesso mistificato. Per decine di migliaia di anni le comunità di “homo sapiens” erano vissute giorno per giorno di caccia e raccolta, in armonia con la natura e senza programmare l’avvenire. La scoperta dell’agricoltura e della possibilità di allevamento animale hanno reso praticabile l’accumulo e la conservazione delle risorse alimentari e hanno introdotto nella psiche umana una dimensione nuova, quella del possesso attraverso il lavoro e del potere prolungato che ne derivava. Il processo di individualizzazione egoistica, tenuto a bada per millenni all’interno dei clan agricoli autoritari e patriarcali è esploso con l’avvento dell’industrializzazione urbana e la conseguente disgregazione delle comunità agricole. Va precisato a questo punto che la sensazione inconscia di rottura dell’equilibrio e di perdita comunitaria non è incarnata e atavica ma che si realizza ad ogni generazione, quando si passa dalla prima infanzia protettiva alla seconda infanzia esigente e limitante e si utilizzano, più o meno volontariamente, momenti educativi basati sulla paura, che inducono ali’obbedienza ma sono la base emotiva di tutti i futuri complessi. L’industrializzazione e la divisione in classi economiche ha prodotto una disgregazione sociale che ha ridotto sempre più le dimensioni delle famiglie e ha dato luogo alla formazione di partiti politici concorrenti nell’organizzazione, più o meno democratica , degli stati; ma neanche l’avvento delle democrazie non ha limitato il flagello periodico delle guerre e non ha attenuato l’alienazione individualistica a favore di una maggiore coesione sociale . Sarebbe quindi il caso di smetterla con il mito del successo competitivo e dell’abbondanza, che ha trascinato incautamente nella nevrosi del progresso anche le speranze e la prolificità dei paesi poveri, e di propagandare l’ideale dell’equilibrio e di una “normalità“ che permetta a tutti di vivere accettabilmente la loro breve avventura umana e che tenga conto che la madre Terra, tanto generosa, è solo un puntino limitato nel cosmo e non è in grado di sopportare uno sviluppo infinito. Approfondendo l’analisi constatiamo che l’individualismo, una volta instauratesi nel costume, non appare reversibile,perché è diventato una struttura del carattere che non è soggetta alla forza di volontà ed è scarsamente influenzabile dalle esortazioni moralistiche esterne; in prospettiva è quindi prevedibile un aumento della disgregazione familiare e sociale, a tal punto che, se non fosse per i tanti bambini innocenti, per i tanti genitori che si sacrificano per mantenere la famiglia. Per i tanti volonterosi che aiutano gli altri senza tornaconto e che alimentano una residua speranza sulla possibilità di una natura umana vera, diventerebbe rassegnatamente accettabile che la specie si estinguesse per un fenomeno naturale prima di distruggersi da se stessa e di rovinare del tutto il pianeta che la ospita con una esplosione nucleare fuori controllo. In una società capitalistica di massa la competizione e il desiderio di avere potere sugli altri costituiscono una fase morbosa e alienata del vivere, perché i bisogni naturali come la sessualità e 1’appagamento economico sono viziati da una aspettativa ansiosa insaziabile, per cui più si ottiene e più si desidera, ri^ tenendo erroneamente che essi siano gli unici rimedi efficaci contro l’insicurezza esistenziale e l’infelicità. In una società normale o meglio,in una società di persone normali (e adulte), la consapevolezza della presenza provvisoria e precaria nel mondo farebbe venir meno il desiderio di avere potere sugli altri e favorirebbe la coesione sociale (per fare feste e per affrontare le avversità), come avveniva nelle comunità prima della tentazione di’onnipotenza sulla natura e sugli altri. In una società di normali perciò la sessualità e la condizione economica , insieme a tanti altri appagamenti non materiali, servirebbe solo a rendere piacevole la vita senza bisogno di competizioni e di morbosità; inoltre sarebbe normale che la bravura in qualche campo di attività procurasse un prestigio senza privilegi che non siano semplicemente simbolici (come le piume dei pellirosse) e non procurasse alcun potere che scateni rivalità’e conflitti,Chi è più competente è adatto a guidare gli altri e non a comandarli e chi è più bravo dovrebbe aiutare chi stenta e non emarginarlo o sfruttarlo; questi semplici criteri, che sembrano utopistici, erano spontanei per l’umanità della preistoria,come risulta dalla documentazione sulle comunità primitive e su quelle di esse che si sono conservate attraverso i millenni fino ai giorni nostri la chiave interpretativa fin qui esposta permetterebbe di enumerare tutte le situazioni di vita che appaiono errate e innaturali ma non servirebbe a niente cercare di correggere culturalmente qualche aspetto contradditorio quando la maggior parte della struttura sociale si è adattata ad un equilibrio distorto. Ricordiamo solo che nella famiglia primitiva era preminente la figura femminile (la “dea madre”), mentre il maschio, la cui funzione procreativa era ignorata, non era considerato il continuatore della specie ma il protettore del gruppo e il procacciatore alimentare, adattato di buon grado ad un matriarcato stabile e tollerante; va appena ricordato che il ribaltamento successivo e autoritario dei ruoli ha finito con l’invertire anche le relazioni amorose: mentre prima, a somiglianza degli animali, i maschi erano provvisti di attributi fisici vistosi per farsi accettare sessualmente dalle femmine, dopo è toccato alle femmine di mettersi in mostra per attirare i maschi. Il raggruppamento comunitario non è stato una variabile casuale del mondo primitivo: esso era necessario per affrontare le difficoltà della caccia e per la difesa dai pericoli ambientali. Malgrado tutti i progressi anche oggi giorno esistono difficoltà nel procurarsi individualmente i mezzi per vivere ed esistono pericoli e imprevisti di ogni tipo, per cui la tendenza della famiglia a restringersi alla sola coppia dei genitori e ai figli da allevare è del tutto insensata, perché esposta imprudentemente e senza alleati alle avversità. In queste condizioni socio-familiari anomale uno studio della natura umana e dello psichismo emotivo-affettivo è impossibile, perché per progredire intellettualmente e per formare società di massa eterogenee abbiamo dovuto autolimitarci nella spontaneità e alienarci dai valori naturali di coesione comunitaria, fino ad assomigliare forzatamente agli animali ammaestrati o da zoo, che hanno conseguito involontariamente la sicurezza della sopravvivenza ma a prezzo della rinuncia ad essere se stessi. Dato che non risulta che ci siano nella specie istinti che ci predeterminino e ci condizionino ad un dato modo di vita i comportamenti del mondo progredito sono eterogenei e relativi alle circostanze storiche e culturali e, in mancanza di una giustificazione sensata e comune, possono apparire bizzarri o addirittura folli, come dimostrano ad esempio gli scoppi incomprensibili di aggressività e il superamento delle tensioni sociali mediante la guerra. La natura è contemporaneamente generosa e crudele, ma obbligata ad esserlo dalle necessità di conservazione e di selezione, mentre l’essere umano, a differenza degli animali, è dotato di intelligenza critica e autocritica ed è consapevole che la propria aggressività predatoria e lo sfruttamento dell’ambiente devono essere limitati e controllati; ciò al fine evidente di non danneggiare il mondo che lo fa vivere. In ciò sta probabilmente il fondamento e l’inizio della morale naturale. La globalizzazione forsennata in atto nel modo attuale non è una strategia organizzativa e condivisa per porre fine alle sacche di miseria e alle ingiustizie ma un disegno lucido e spregiudicato di concentrazione dell’economia mondiale nelle mani di pochi poteri “fortissimi”, onde realizzare a buon mercato una supremazia incontrastata su popoli sottomessi e disumanizzati. Se l’opinione pubblica dei paesi sviluppati fosse compatta e, invece che dedicarsi al pettegolezzo piccante o malevolo e alla cronaca nera, biasimasse apertamente i personaggi pubblici disonesti, corrotti, mistificatori, megalomani, ecc. e lodasse quelli onesti, sinceri, altruisti e responsabili sarebbe più facile migliorare le società e gli stati prima che si guastino del tutto. Completiamo ora il panorama di ipotesi con alcuni approfondimenti dialettici. La scienza ufficiale si avvale di metodi matematici quantitativi e non può aiutarci a obiettivare la vita psichica, che è prevalentemente qualitativa; ci occorre allora la logica dialetti- ca che, analizzando le contraddizioni del vivere e la possibilità o meno di una loro sintesi, ci permette di distinguere fra causa ed effetto e di formulare ipotesi esplicative ‘verosimili’; queste poi tendono a diventare vere quanto più permettono di interpretare tutte le realtà relazionali. Le ipotesi psicologiche che superano le ambiguità e le contraddizioni della realtà apparente sono numerose e ci permettono di affermare ad esempio che l’esperienza intellettuale ed emotivo-affettiva degli individui non si incarna nel patrimonio genetico; essa quindi non ha carattere ereditario e si realizza in seguito alle relazioni col mondo esterno, a cominciare dalla nascita. Che siano gli stimoli esterni che determinano l’evoluzione del modo di pensare e di agire è facilmente dimostrato dalle possibilità di cambiamento individuale nel corso del tempo e dall’osservazione che ci possono essere forti differenze psicologiche anche nei gemelli identici monozigoti. Osservando i rapporti madre-figlio dopo la nascita si constata che essi sono abitualmente asimmetrici e gerarchici: mentre il figlio, che nasce immaturo e prematuro, è reduce da un periodo di completa protezione e libertà che andrebbe superato molto gradualmente, la madre è pressata da una civiltà ansiosa ad intervenire con regole che il bambino non può capire e a alle quali reagisce casualmente secondo lo stato emotivo e fisico momentaneo; la madre non sa che il neonato è completamente in sua balìa e reagisce per tentativi impropri così la relazione madre figlio, che doveva proseguire protettivamente e assecondante (come fanno le madri primitive che portano il neonato sempre con sé) fino al raggiungimento di una certa autonomia con la deambulazione e il linguaggio,diventa problematica invece che piena di feeling e può avere qualsiasi esito temperamentale, perché insegna al bambino che talvolta è necessario difendersi dalla madre (o da altri familiari). Sul nucleo temperamentale dei primi tre o quattro anni si sovrappongono in seguito tutte le relazioni umane della seconda infanzia e dell’adolescenza; quelle di esse che si presentano par-ticolarmente suggestive o convincenti contribuiscono a formare il carattere, cioè il modo abituale o preponderante di proporsi nei rapporti col mondo esterno e con i problemi del vivere. Malgrado se ne faccia grande uso nel linguaggio comune nessuno sa spiegare chiaramente la nozione di istinto nella specie umana. Se consideriamo il cervello come una specie di computer allora 1′ “hardware” è la parte genetica neutra e il “software” è la parte programmatoria esterna che fornisce le informazioni neces-sarie; spetta dunque al sistema nervoso centrale la capacità di fornire riflessi e tendenze biologiche elementari, e agli stimoli ambientali quella di completarli e di adattarli al costume di vita. Non è azzardato quindi ipotizzare ad esempio che l’istinto sessuale nasca come pura e semplice tendenza all’unione fisica (abbracciare) e diventi istinto erotico specifico e mirato solo in seguito alle suggestioni ambientali e all’aiuto degli ormoni; quindi l’istinto sessuale può essere considerato un addestramento psicofisico, che parte dal cervello e arriva agli ormoni. Solo così si possono spiegare la grande varietà di comportamenti sessuali e la grande adattabilità sessuale a condizioni sociali limitanti che non possono risalire a determinanti genetiche; va ricordata in particolare l’omosessualità, che non può essere né genetica né ereditaria perché l’omosessuale non procrea e che quindi va spiegata con le influenze ambientali precoci e involontarie. In linea con la prevalenza ambientale nell’evoluzione psichica possiamo coerentemente supporre che anche l’inconscio, in mancanza di istinti preformati, sia solo un simbolico serbatoio mnemonico profondo che conserva tutti i ricordi di esperienze e di idee a forte risonanza emotiva che il soggetto non ha presenti alla coscienza e che di tanto in tanto riemergono in superficie furtivamente e spesso indesiderati; però non si tratta di contenuti istintivi biologici inaccettabili alla coscienza ma di ricordi confusi e di esperienze, più o meno spiacevoli e contraddittorie, immagazzinate dall’infanzia in poi. La natura fa solo quello che è necessario all’evoluzione biologica umana e lascia il resto alla cultura e all’ambiente; quindi la mancanza di istinti non è uno svantaggio, perché essi sono necessari alle specie animali inferiori,che non prevedono un addestramento della prole da parte dei genitori, ma servono a poco ai mammiferi e in particolare agli umani, che fruiscono di un lungo periodo educativo e formativo gestito in libertà e che sarebbe inutile e contraddittorio se la natura fornisse una programmazione specifica. Nel complesso sono molti gli indizi che fanno pensare ad una voluta elasticità esistenziale, evolutiva della specie-umana, che doveva, da inerme, riuscire a vivere anche in condizioni ambientali difficili e pericolose; l’evoluzione biologica in questo ha fatto bene la sua parte, mentre l’evoluzione mentale culturale, che è in relazione circolare di causa-effetto con quella biologica, non si è accontentata di essere in equilibrio complementare con essa e si è orientata a sfidare i condizionamenti naturali, con aggressività e senza uno scopo ideale. Le malattie psicosomatiche e lo stress urbano di massa, insieme con l’inquinamento ambientale crescente, denunciano un peggioramento diffuso della qualità di vita e un disordine socioculturale che si va generalizzando; tutto ciò fa da contrappeso negativo alle grandi realizzazioni del progresso (escluse quelle militari). Ma il progresso, che agli inizi poteva sembrare un’opera sociale intelligente e costruttiva, in pochi millenni è diventato una corsa folle al cambiamento immotivato e al consumismo contro natura, della cui distruttività neanche le classi dirigenti sembrano consapevoli. Malgrado la disgregazione sociale crescente sappiamo però che in generale la specie ha mantenuto nel suo intimo la voglia e la speranza di un mondo migliore; la psicologia e la politica, che sono affini,invece che cercare di adattare gli individui e i popoli a condizioni di vita insopportabili, potrebbero e dovrebbero servire a promuovere i cambiamenti strutturali(dello stile di vita e dell’organizzazione sociale) necessari per decongestionare il vivere civile dall’ansia cronica patogena e per porre fine al dilagare delle ingiustizie della corruzione.
excellent! Bisogna trovare sedi, modalità e la volontà per dialogare di tutto quanto meravigliosamente evidenziato nell’articolo,solo così,sarebbe possibile lasciare il “Condominio Terra” in condizioni vivibile, al prossimo. Grazie! francesco
Molto bello e illuminante, grazie Bruno!
Mi è piaciuta in modo particolare la parte sulle ” comunità primitive”, protettive e rassicuranti ma anche la parte riguardante i primi condizionamenti subiti da tutti noi già in tenera età, nonché perpetuati
magari ( anzi sicuramente!) inconsapevolmente, nei confronti dai nostri figli!
Come si fa ad uscire da questo zoo, da questo letamaio che quotidianamente incontriamo, leggiamo
nei giornali, vediamo in TV e viviamo spesso anche con figli, colleghi, amici e conoscent
i stressati?
Ora sono lontano dall’Italia, in un luogo magico e selvaggio; cerco di ricaricare le pile
e riempire i polmoni di aria buona e la mente la lascio vagare dove vuole…. Godo delle albe
dorate, dei profumi di fichi colmi di frutti, dei rumori delle foglie mosse dal vento e mi preparo
al rientro nello zoo, ben recintato e caldo in queste giornate estive……