La rivoluzione dei makers: convivialità o eteronomia? / 3

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QUALE FUTURO DALLE CENERI DI NUMMI?

L’automazione, non può negarlo neppure chi l’avversa, esercita un forte fascino. Anche senza credere nel mito marxiano del massimo sviluppo delle forze produttive tale da permettere un perenne stato di ozio creativo, l’idea di liberare buona parte dell’umanità da operazioni manuali ripetitive e sgradevoli senza dubbio ha una sua nobiltà di intenti (un po’ meno quella strettamente associata di sostituire operai potenzialmente riottosi con docili robot). Al riguardo, una delle storie che più mi ha colpito di più nel libro Makers non riguarda la manifattura desktop delle stampanti 3D, bensì un’operazione di reengineering compiuta su di una fabbrica tradizionale.

Nel 1984, quando parlare di crisi dell’auto sarebbe sembrato come raccontare barzellette, General Motors e Toyota aprirono a Freemont (California) lo stabilimento NUMMI (New United Motor Manufacturing), basato su di un uso esteso dell’automazione. Venticinque anni dopo, nel 2009, quando parlare di rilancio del mercato dell’automobile era come raccontare barzellette di cattivo gusto, la fabbrica, che produceva componenti per le Toyota Corolla e Tacoma, venne chiusa.

In realtà il management aveva tentato di salvare NUMMI cercando di riconvertirla alla produzione di una vettura più competitiva sul mercato, come la Prius Ibrida, ma a quel punto arrivò la doccia fredda da parte dei responsabili tecnici: i macchinari di NUMMI erano molto sofisticati, ma troppo personalizzati per la costruzione di un particolare modello, al punto che  sarebbero state necessarie troppe modifiche per adeguarle alla realizzazione di un altro tipo di autovettura, rendendo l’operazione completamente antieconomica.

Oggi la fabbrica NUMMI è stata rilevata dall’impresa Tesla, che attualmente vi costruisce  auto elettriche, ma l’elemento saliente non è tanto cosa produce, ma come. I nuovi robot dell’impianto utilizzano macchinari KUKA multifunzione, con bracci compositi leggeri, sei assi di movimento e la capacità di sollevare 1000 kg di peso; ogni braccio dispone di una diversa serie di teste di lavorazione ed è programmabile al computer. Questo significa che oggi la fabbrica produce automobili, ma sostanzialmente potrebbe costruire di tutto, grazie alla versatilità delle macchine. Di fronte a tale possibilità, ovviamente le prospettive del business e quelle della decrescita seguono direzione esattamente opposte.

Il proprietario della Tesla, Elon Musk, è un imprenditore impegnato anche nel campo aerospaziale, talmente rampante e futuristico che la sua persona è servita da spunto agli sceneggiatori del film Iron Man per il personaggio protagonista, il businessman-inventore Tony Stark (1). Musk vuole ridurre il più possibile la catena produttiva, per dipendere sempre meno dalle reti di appaltatori e subappaltori e quindi, per dirla in breve, non essere legato mani e piedi alla Cina. Per altro, Musk sarà anche un imprenditore abile, ma grazie a degli accordi con le autorità locali ha rilevato NUMMI a un prezzo di favore e non ha dovuto ereditare vincoli pensionistici né accordi con i sindacati.

Nell’ottica della decrescita, un’azienda capace di una tale flessibilità di produzione potrebbe rappresentare una possibilità concreta di autosufficienza e razionalizzazione dei consumi, riducendo considerevolmente le economie di scala – ovviamente le materie prime potrebbero ancora essere reperite a molti chilometri di distanza – e quindi l’impronta ecologica complessiva.

Il lato oscuro del reengineering di NUMMI, in un contesto capitalistico, coincide di fatto con le potenzialità liberatrici. Se sotto la direzione di General Motors e Toyota la fabbrica dava lavoro a più di cinquemila persone, Tesla al massimo ne occuperà un migliaio. Se queste tecnologie automatiche flessibili dovessero perfezionarsi e diventare convenienti sotto tutti gli aspetti, per gestirle basterebbero un ristretto gruppo di lavoratori della conoscenza addetti alla progettazione digitale e un numero un po’ più elevato di operai specializzati per assemblare, supervisionare e testare i prodotti. C’è da giurare che la maggioranza degli operai, di fronte all’incubo della disoccupazione, giurerebbe fedeltà alla vecchia linea di montaggio e a tutte le operazioni insane, ripetitive e alienanti che comporta. Gente come Anderson e Musk ovviamente non se ne preoccupa, ma noi dobbiamo farlo e anche urgentemente.

Le potenzialità di queste macchine sono emancipatrici, ma la loro ideologia produttiva è devastante, in quanto volta alla soppressione del lavoro umano e a una produzione più rapida e intensa. Solo una società radicalmente diversa dall’attuale, che non sia ‘fondata sul lavoro’ salariato come mezzo per il riconoscimento dei diritti e basata sull’autolimitazione può instradarle in direzione del bene. La politica e il controllo sociale dovrebbero intervenire rapidamente per non commettere gli errori commessi con altre tecnologie.

(1) E’ molto probabile che gli sceneggiatori di Iron Man si siano ispirati alle concezioni visionarie dei makers. Nel primo film, Stark viene rapito da un  gruppo terrorista e rinchiuso in una caverna trasformata in una fonderia improvvisata per obbligarlo a costruire un missile; lui invece, in modo molto artigianale, costruisce il prototipo della prima armatura e riesce a scappare. Le armature successive Stark le costruisce a casa sua, progettandole con sofisticatissimi software CAD e usando una di fatto una specie di avveniristica stampante 3D. L’aspetto inquietante è che una delle storyline ricorrenti nei film di Iron Man è il tentativo dei militari di sottrarre a Stark il controllo sulla sua tecnologia, che nella realtà sembra riflettersi, ad esempio, nell’interesse per gli strumenti desktop allo scopo di costruire droni volanti da ricognizione.

3 Commenti

  1. Leggendo mi chiedevo, ma qual’e` la differenza tra la robotica “emancipatrice” come dice l’articolo ed i telai meccanici che i luddisti distruggevano un paio di secoli fa ? Oggi come allora il rischio e` di eliminare l’uomo dalla produzione. A meno che esso non si metta a costuire i robot, ma poi chi impedira` ai robot di ri-produrre loro stessi e di automigliorarsi (sempre che ad almeno un uomo al comando del mondo convenga economicamente) ?
    Senza andare tanto lontano con l’immaginazione (alimentata dai film come Matrix, Terminator, ecc… ) mi fermerei all’osservazione che al tempo di Ludd i telai potevano venir costruiti da una ditta fondata accanto alla filanda, usando comunque manodopera ed energia (del fiume o del carbone) locali. Invece oggi anche la NUMMI e` ricorsa a robot fatti dalla KUKA, rinomata ditta tedesca, che di sicuro non usa solo componenti fatti in Germania… e l’energia ? Dal medio oriente o dal fracking americano, comunque Californiana non e`.
    Quindi, direi, che duecent’anni fa si sarebbe potuto abbastanza facilmente creare una societa` bilanciata in cui le nuove tecnologie non distruggevano il lavoratore… ma non lo si e` fatto; perche`?
    Ed oggi ?
    Forse che, se le leggi lo avessero reso piu` conveniente, si sarebbe potuto assumere i 4000 esuberi e fare i robot in California, motori elettrici ed elettronica compresa, invece di comprare tutto in Germania (e Cina).
    Pero` non si puo` piu`…
    a meno che la California (o qualunque altro paese del mondo ) diventi come l’aveva descritta 40 anni fa E.Callenbach nel suo bel libro Ecotopia (http://en.wikipedia.org/wiki/Ecotopia)… un possibile prototipo della Decrescita!

    • Leggerò sicuramente il libro segnalato. Vorrei aggiungere un paio di cose. I luddisti non erano contro le macchine in sé, bensì contro la svalorizzazione del lavoro umano che era insita in molte di loro, oggi penso che Ludd se la prenderebbe con molte altre cose. In una fabbrica sono tante le operazioni faticose, pericolose e soprattutto monotone che possono essere lasciate tranquillamente alle macchine senza che l’umanità (in termini creativi parlo) ne perda molto. In un fabbrica tipo NUMMI i lavoratori si occupano o di progettazione o di assemblaggio e delle fasi successive, quindi gli sono state risparmiate parecchie situazioni sgradevoli. Certo nella società di mercato tutto ciò si traduce in una macelleria sociale!
      Per il resto Giulio, io ho un atteggiamento diciamo molto post-moderno, cerco di guardarmi un po’ in giro e di ripescare ciò che nel premoderno e nel moderno potrebbe tornare utile in una società futura, e solitamente in nessuno dei due casi mi trovi delle forme ‘idilliache’ esportabili così come sono, ma solo delle possibilità latenti. E chi ne ha le competenze (sicuramente maggiori delle mie) potrebbe aiutare tantissimo nel delineare le possibilità di un futuro scenario (post)industriale. Orti comunitari, autoproduzione alimentare, GAS, ecc. sono tutte cose fondamentali, però dobbiamo anche sapere allargare il nostro orizzonte.

  2. Caro Igor, avrai visto immagino l’interessante articolo di Bruce Sterling su Repubblica di oggi a pag.29.
    Di Bruce avevo letto tempo fa a proposito della realta` virtuale, fenomeno di pseudo-tendenza (popolarissimo su Wired) che mi aveva incuriosito e che catalogherei oggi tra le cose post-moderne da evitare.
    E qui egli suggerisce delle ricette per non farsi fagocitare dai robot, basandosi perlopiu` sulla flessibilita` umana che i robot non potrebbero raggiungere… per ora. Infatti (purtroppo dico io), secondo un’altro futurista, Ray Kurzweil (http://en.wikipedia.org/wiki/The_Singularity_Is_Near) abbiamo solamente ancora una ventina d’anni prima che anche l’ultima spiaggia umana, la flessibilita` creativa, venga conquistata dalle macchine dotate dell’ intelligenza aritificiale in imminente arrivo.
    Ma allora, invece di accontentarci di combattere una battaglia persa in partenza, l’unica speranza umana e` proprio quella offerta dalla rivalutazione e riduzione dei bisogni, ad esempio seguendo le idee della Decrescita. Bastera` rifiutare di comprare prodotti identici a quelli posseduti da milioni di altre persone e invece ritrovare il piacere a costruirseli da se. I robot saranno molto presto senza lavoro… ovvero verranno finalmente relegati dove veramente possono essere utili, ad esempio per costruire miliardi di viti, bulloni, cuscinetti a sfere e microchip, mentre poi sara` l’uomo costruttore ed inventore ad utilizzarli ogni volta in modo diverso per il piacere di costruire e non per il profitto suo o d’altri. Questa e` la vera rivoluzione dei Makers di cui parlero` meglio in una nota che dovrebbe uscire a breve su queste pagine.

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