La rivoluzione dei makers: convivialità o eteronomia? / 2

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IL MOVIMENTO OPEN HARDWARE

Il movimento informatico open source, basato sulla condivisione dei codici sorgenti dei software e la conseguente libertà di modificarli, rappresenta una pietra miliare nella storia dell’informatica. Oggi quasi tutti conoscono i frutti concreti di questo impegno, prodotti diffusi ed efficienti come i sistemi operativi della linea Linux (nato da un’idea dell’hacker finlandese Linus Torwalds), il browser Firefox, la suite da ufficio Open Office, il programma di riproduzione audio/video VLC, che si sono dimostrati in grado di competere senza problemi contro la concorrenza del grande business. Forse non tutti sanno che il movimento open source ha una lunga storia alle spalle, ben prima che l’informatica si aprisse alle masse: si pensi che Richard Stallman, un ex ricercatore del MIT di Boston, fondò nel 1985 la Free Software Foundation, allo scopo di tutelare e promuovere il software libero.

Attualmente la comunità dei makers presenta molto affinità con quella hacker degli anni Settanta e Ottanta, anche perché questi nuovi ‘artisti digitali’ in molti casi provengono proprio dalle file degli hacker e per questa ragione anche in ambito hardware tendono a rifiutare i classici concetti di brevetto e proprietà intellettuale, per consentire la libera divulgazione di informazioni riguardanti il progetto stesso dell’hardware, quali schemi, lista dei materiali, layout dei dati del circuito stampato, spesso insieme al pacchetto software per far girare l’hardware; non è un caso che le licenze per il movimento open hardware ricalchino in molti casi quelle GPL-GNU utilizzate in ambito informatico. Il principale strumento open hardware è probabilmente Arduino – un prodotto realizzato da un team italiano – una schedina elettronica con un microcontrollore e circuiteria di contorno capace di creare prototipi per scopi hobbistici e didattici, semplici piccoli dispositivi come controllori di luci per presepi e di velocità per motori, sensori di luce, temperatura e umidità e molti altri progetti che utilizzano sensori, attuatori e comunicazione con altri dispositivi. La programmazione avviene mediante un ambiente di sviluppo integrato.

Analogamente a quanto avviene in ambito puramente software, sono nate comunità Web di makers che condividono i loro progetti in Rete; e come dall’open source sono nati nuovi modelli di business, analogamente ciò si sta verificando con l’open hardware. Anderson nel libro Makers descrive l’esperienza con l’azienda 3D Robotics da lui fondata, raccontando di come un tentativo di pirateria industriale cinese (ragionando secondo i normali canoni, si intende) si sia trasformato nella possibilità di acquisire un importante collaboratore dall’estremo oriente, di cui in nessun altro modo avrebbe mai scoperto l’esistenza.

Il superamento della proprietà intellettuale e la condivisione della conoscenza sono principi importanti per una democrazia effettiva, ma nell’ottica della decrescita c’è molto di più. La libertà di intervenire nei progetti, tenendo conto anche che nell’hardware oramai i dispositivi software ricoprono un ruolo sempre maggiore, potrebbe sensibilmente rallentare i processi di obsolescenza programmata. Questo ovviamente non può valere per ogni prodotto ma, come spiega Anderson, i margini di intervento sono numerosi: “Kindle 2 e Iphone necessitano degli schermi più all’avanguardia e dei chip di memoria più veloci, realizzati su larga scala soltanto da pochi produttori in Asia. La maggior parte degli altri apparecchi elettronici, però, non ha bisogno di componenti nuovissimi, piccolissimi, leggerissimi e velocissimi. Pensate all’elettronica più come al termostato intelligente di casa o al cruscotto della macchina, dispositivi a cui non servono performance tipo Apple, ma che traggono il loro valore dal software che gira nelle componenti di serie. Il genere di cose che si possono fare ovunque”.

Una produzione ‘aperta’, il più possibile personalizzata e realizzata davvero just in time potrebbe realmente ovviare a gran parte degli sprechi e degli abusi che caratterizzano l’industria attuale, dove già da tempo la digitalizzazione dei progetti è una realtà concreta, con la differenza che vengono spediti con qualche click di mouse in Cina allo scopo di essere prodotti in grande serie.

La filosofia di utilizzo, alla fine, ha un ruolo fondamentale nel valorizzare la tecnologia. Nelle prossime puntate cercheremo di esaminare alcune delle potenzialità tecniche della nuova mini-robotica e lo spinoso problema della convenienza economica; per adesso, la prima impressione è che lo scenario più favorevole a un utilizzo delle tecnologie dei makers consista in una progettazione aperta e condivisa che abbia come riferimento un gran numero di piccole-medie officine dotate dei nuovi strumenti, in modo da superare sia la chiusura dell’industria tradizionale sia l’eventuale ‘delirio creativo’ – ben noto a chiunque possieda una normale stampante 2D – derivante da un uso solipsistico e casalingo. Forse è meglio che le tecnologie desktop abbandonino la ‘scrivania’ per aprirsi a un uso comunitario, per essere davvero emancipatrici. 

(A margine vorrei segnalare che questa serie di articoli sulle tecnologie dei makers è assolutamente aperto a commenti e contributi di ogni genere, in particolare di gente esperta del settore. Un ringraziamento va a Giulio Manzoni per le sue osservazioni molto interessanti riportate nel primo articolo, e che mi serviranno da base per i successivi).

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Nasco a Milano il 7 febbraio 1978. Sono un docente precario di italiano e storia nella scuola superiore, interessato ai temi della sostenibilità ambientale e sociale. Insieme a Jacopo Simonetta ho scritto 'La caduta del Leviatano. Collasso del capitalismo e destino dell'umanità, edito da Albatross Il Filo.

3 Commenti

  1. Il discorso prende ben forma; caro Igor, vorrei aggiungere un ulteriore spunto a questo interessante dialogo.
    La mini robotica infatti e` il presupposto per molte cose “fai-da-te”, compreso il costruirsi in casa le stampanti 3D, ma anche 4D, 5D, ecc… (ogni Dimensione in piu` corrisponde ad una ulteriore rotazione o traslazione dell’utensile rispetto al pezzo creando maggiore liberta` di forma) ed infatti cio` sta gia` succedendo: basta comperare 3 motorini elettrici passo-passo, una manciata di cinghie, ruote dentate, barre di alluminio ed il famigerato “estrusore” (cioe` un’altro motorino passo-passo che spreme il filo di plastica attraverso un ugello riscaldato da una resistenza per far uscire a mo’ di dentifricio il materiale da aggiungere agli strati gia` depositati sull’oggetto in costruzione). Il tutto va collegato ad una schedina elettronica che produce gli impulsi di potenza per i motorini e che riceve i comandi eventualmente dall’Arduino e/o dal PC. In questo modo, con poche centinaia d’euro, ci si puo fare in casa tutta la stampante poly-D, imparando e divertendosi; la creativita` si e` trasferita dal fare l’oggetto a fare la macchina che fa l’oggetto e la manualita` e` salva !
    Ma naturalmente qualcuno deve aver fatto i motorini elettrici… ed e` ancora la Cina, che peraltro ha il monopolio delle Terre Rare (Neodimio, Boro, ecc…) , quei materiali che servono a fare i potenti magneti che stanno dentro ogni moderno motore elettrico, specialmente se piccolo.
    Spostando il discorso appena un po’, non e` che gli USA non possiedano le Terre Rare… ma semplicemente estrarle in Cina costa enormemente meno dato che li` dell’ambiente non si preoccupano e gli operai e minatori sono carne da macello “expendable”. E tanto per completare il quadro, qualcuno sa perche` gli USA siano da tempo cosi` attivi in Afganistan ? Ovviamente perche` e` uno dei paesi geologicamente piu` ricchi, dove cioe` anche le ditte occidentali possono estrarre di tutto senza troppi grattacapi di ambientalisti, sindacati dei minatori, ecc…
    Ed allora, rimane da chiedersi, qual’e` il prezzo della creativita` se e` comunque basata sullo sfruttamento geopolitico globale ?

  2. Ovviamente no. Credo che i problemi fondamentali siano due. Il primo è che lo sviluppo tecnologico ha tenuto conto solo dell’efficienza, della prestazione e delle possibilità di commercializzazione, senza pensare ai materiali impiegati: potenza e miniaturizzazione hanno sempre avuto la priorità (si stanno sviluppando alcuni motori elettrici senza terre rare, ma ovviamente non stanno sul palmo di una mano). Il secondo dovrebbe comportare una profonda riflessione sulla tecnologia, il suo utilizzo e la sua condivisione per ridurre drasticamente gli impatti negativi. Siccome questa raccolta di articoli non è un thriller, posso anticipare quella che secondo me sarebbe la prospettiva migliore (d’accordo in questo con Frithjof Bergmann): la costruzione di fabbriche di piccole-medie dimensioni a livello cittadino dove queste tecnologie siano condivise e utilizzate in modo intelligente ed equilibrato.
    Certo è che sviluppatori e decrescenti, almeno per quanto ne so, viaggiano su binari separati ed è un problema: il recupero dell’esistente per ottenere il miglior rapporto possibile potenza/parsimonia costruttiva dovrebbe invece essere un imperativo categorico.

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