Riporto di seguito la trascrizione della mia intervista a Gianfranco Zavalloni, pedagogo e dirigente scolastico autore di numerosi libri sui temi dell’ambiente e della scuola.
Il suo ultimo lavoro, edito da Emi, si intitola “La Pedagogia della Lumaca: per una scuola lenta e non violenta”.
L’intervista ha avuto luogo il 20 maggio 2012.
Gianfranco, ci puoi descrivere un po’ qual è stata la tua esperienza lavorativa?
Nell’82-’83 mi sono laureato in economia e commercio con una ricerca sulle tecnologie appropriate, che poi è stato l’impegno di volontariato di tutta la mia vita. Per capirci il mio professore di riferimento è stato Carlo Doglio. Ora ho 54 anni, e forse sono stato uno degli ultimi suoi studenti. Carlo Doglio è stato quello che ha fatto conoscere in Italia Schumacher e “piccolo è bello”. Quindi i temi su cui mi sono laureato già allora erano temi discussi. All’epoca si parlava di tecnologie appropriate, cioè a misura d’uomo, ora si parla di decrescita. Fra le altre cose sono anche stato fra i fondatori dell’eco-istituto di Cesena, che allora si chiamava “Gruppo di Ricerca sulle Tecnologie Appropriate”. In seguito, nel mio lavoro, ho sempre cercato di essere coerente con quei principi. Non so se hai avuto occasione di leggere il mio ultimo libro (ndFT. “La Pedagogia della Lumaca”), ma io lo ritengo il manuale pedagogico della Decrescita Felice, poi magari qualcuno che non l’ha ancora letto non se ne è accorto… Nel mio lavoro ho sempre cercato di portare la mia esperienza di vita e una volta diventato dirigente scolastico, dopo aver lavorato per sedici anni – dal 1980 – nella scuola materna, ho avuto a che fare con elementari e medie e mi sono accorto dell’impazzimento che c’è nella scuola, dovuto a tutta una serie di elementi che hanno portato a una scuola dove tutti dobbiamo correre perché dobbiamo fare i programmi, e gli insegnanti sono stressati da questo e stressano i bambini, e così i bambini apprendono di meno.
Dunque quali sarebbero, nella tua prospettiva, gli elementi da cambiare?
Intanto l’approccio generale. Non è portando nozioni e quantità di informazioni che i bambini imparano. I bambini apprendono già da tanti altri elementi. Una buona trasmissione di Piero Angela su un argomento ad hoc può essere molto più efficacie di un anno di insegnamento di un professore di storia o di scienze. Il compito della scuola è fornire ai bambini gli strumenti per interpretare e valutare criticamente tutte le informazioni che il mondo offre loro. E l’altro aspetto è quello di farlo insieme, sapendo che le cose si apprendono soprattutto se si introiettano, se si fanno proprie. Questo è ciò che sostengo nel mio ultimo libro, ma anche in quello precedente, “la scuola ecologica”, dove mi rifacevo ad un proverbio che dice: “se ascolto dimentico, se leggo ricordo, se faccio imparo”. Allora tu impari se fai certe cose. Una delle mie battaglie riguarda ad esempio la lotta contro le fotocopie a scuola, perché i bambini spesso stanno tutto il giorno a compilare delle schede. Se ti facessi vedere un quaderno che mia moglie, insegnante, mi ha portato di un collega di scienze – di cui non faccio il nome – è dalla prima all’ultima pagina, davanti e dietro, una fotocopia incollata e fatta colorare ai bambini. L’insegnante è convinto di aver fatto il programma, il bambino invece ha semplicemente colorato degli spazi con dei segni di diversi colori. Allora è molto più efficace per il bambino disegnare da solo il corpo umano, una volta nella vita, cercando di capire dove sono collocati i vari organi, piuttosto che mettersi lì a riempire di colore una fotocopia fatta da altri. L’aspetto interessante è che il bambino in questo modo si appassiona di più e vive in maniera più diretta la scuola. Un bambino che fa un orto a scuola, ad esempio, apprende veramente tutta una serie di cose pratiche che non sono soltanto quelle scritte su un quaderno o lette su un libro. Il bambino che impara la calligrafia, cioè ad usare la cannetta col pennino, non è che perde del tempo, ma impara a organizzare diversamente i suoi spazi. Noi abbiamo visto che l’effetto immediato dei bambini che imparano la calligrafia, ad esempio, è quello di essere più ordinati. L’idea di fondo del mio ragionamento è che è meglio fare a scuola meno cose e farle meglio, piuttosto che fare tante cose e farle male.
Nei tuoi libri sostieni l’importanza del rapporto dei bambini con la natura ed il sapere pratico, che le nuove generazioni stanno in parte perdendo. Sei stato anche uno dei fondatori di un movimento, quello degli “Orti di Pace”, che si inserisce proprio in questa prospettiva. Ce ne vuoi parlare?
Prima di tutto devo dire che l’esperienza dell’orto è stata per me un’esperienza di origine familiare: sono figlio di agricoltori, mio padre è stato uno dei primi agricoltori biologici qui della Romagna e io stesso ho sempre creduto nell’agricoltura biologica e nella sua proposta. Durante i miei anni come maestro di scuola materna ho fatto l’esperienza dell’orto a scuola. Per me è stata una cosa estremamente naturale, e mi sembrava normale che nelle scuole si facessero questo tipo di esperienze. Più tardi, divenuto direttore didattico, quando sono capitato nel ’99-2000 nelle Marche – a Pennabilli per la precisione – sostenni l’introduzione di un orto biologico nelle mie scuole. Da lì, riconobbi l’importanza dell’orto da tutti i punti di vista, non soltanto come semplice esperienza di coltivazione, ma proprio come esperienza globale. Ciò che sostengo è che l’orto metta in moto tutta una serie di aspetti quali la manualità e l’intelligenza pratica, oltre al fatto di educare i bambini all’attesa: non puoi seminare e poi “tirare” le piante in un orto per farle crescere, devi aspettare, devi avere i tuoi ritmi eccetera. A prescindere dall’aspetto naturalistico ed ecologico, l’orto è dunque educativo di per sé. Queste esperienze hanno poi portato, nel corso degli anni, alla formazione di un movimento di scuole che si è successivamente esteso ad altre realtà quali ASL, carceri e aree urbane. Insomma, tutto quello che è la coltivazione spontanea di piccoli pezzettini di terra l’abbiamo definito “orti di pace”, in contrapposizione all’idea degli “orti di guerra” di mussoliniana memoria. Quindi l’orto come strumento di pace. Anche perché dal punto di vista politico l’orto è il luogo meno condizionabile dall’alto, è veramente un posto dove puoi farti un’esperienza senza aver bisogno di nessuno che ti dia ordini e ti dica come devi farlo, è un po’ la tecnologia conviviale che proponeva Illich, una tecnologia non condizionabile da scelte politiche superiori. Quindi, dopo una fase iniziale in cui si trattava di una semplice aggregazione di scuole che si davano appuntamento, si è arrivati alla nascita di un movimento vero e proprio, costituito da realtà disparate che si ritrovano intorno ad alcuni punti fondamentali: il primo è un documento che si intitola “manifesto per una rete di orti di pace”; il secondo è un appuntamento annuale o biennale, tipo convegno nazionale, di scambio di esperienze; il terzo è un sito internet (ortidipace.org), e adesso stiamo andando avanti con l’idea di realizzare un censimento di tutte queste realtà, ma senza nessuna voglia di coordinare o di imporre niente a nessuno. È un movimento spontaneo, che è nato dal basso.
Nell’ultimo libro di Codello e Stella, “Liberi di Imparare”, che tratta il tema delle scuole democratiche e libertarie, è citato anche il tuo libro “la Pedagogia della Lumaca”. Ci puoi dire se vi sono punti di contatto fra la prospettiva democratico-libertaria e la tua visione della scuola?
Guarda, considera che io mi sono sempre ritenuto un ecologista non violento, quindi la prospettiva delle scuole libertarie è sempre stata anche la mia. Fra i miei riferimenti ci sono Ivan Illich, maestro di Latouche. Mi sono laureato su questi personaggi, il mio professore era anarchico e io sento molto questo spirito chiamiamolo libertario-anarchico. Uno dei numeri della rivista Volontà (ndFT rivista anarchica fondata nel 1961) negli anni settanta titolava “lento è bello” – te la dice lunga sulle motivazioni culturali di quello che stiamo discutendo. Io e Francesco Codello ci siamo conosciuti, ci siamo sentiti e ci consideriamo della stessa area culturale. Io vengo più dal mondo cattolico, del volontariato, vengo più dall’esperienza di Barbiana e non conosco personalmente Summerhill (ndFT una delle prime scuole democratiche, fondata nel 1921 in Inghilterra e ancora attiva) e l’esperienza delle scuole democratiche personalmente, però le considero un mio riferimento culturale importantissimo.
Per concludere, cosa ne pensi del movimento per la decrescita e della prospettiva della decrescita felice?
La prospettiva della decrescita felice è esattamente la mia prospettiva. Lo ritengo un movimento importantissimo, spero che prenda sempre più piede e che anche molte realtà politiche si avvicinino a questo tipo di approccio. Personalmente sono stato anche impegnato nel primo movimento dei Verdi, essendo stato consigliere comunale dei Verdi negli anni ’80, quindi quando i Verdi non erano ancora un partito. Queste tematiche erano già trattate allora, poi indubbiamente la cosa interessante che ha fatto Pallante e in un certo modo lo stesso Latouche è stata aver dato una definizione molto provocatoria a tutto ciò. Io le cose di cui parliamo oggi le chiamavo tecnologie appropriate perché così le chiamava Gandhi, così le chiamava Ivan Illich e così le chiamava Schumacher, ma sostanzialmente l’approccio è quello. Perciò mi auguro che non soltanto il movimento di Grillo, non soltanto realtà autogestite come quelle con cui lavoriamo noi siano attente a questi temi, ma cominci ad essere qualcosa di un po’ più diffuso. Spero che il movimento non degeneri come ad esempio è successo con quello dei Verdi, che purtroppo ha iniziato a degenerare nel momento in cui si è fatto partito. Ma credo che queste tematiche siano davvero trasversali. Come diceva allora Alex Langer con una famosa battuta, era difficile dire se il movimento dei Verdi fosse di destra o di sinistra, perché era avanti. Ecco io credo che il movimento della decrescita sia un movimento che è avanti, probabilmente un movimento di tipo profetico che vede ancora la maggior parte della gente insensibile.