Serge Latouche, professore emerito di Economia all’Università d’Orsay, obiettore di crescita
Il tempo è scaduto. L’impatto dell’azione umana ha raggiunto un livello tale da disturbare e modificare il funzionamento dell’ecosistema terrestre; in seguito al premio Nobel per la chimica assegnato a Paul Cruzen, gli scienziati hanno ammesso che siamo entrati in una nuova era, definita antropocene: “L’uomo è divenuto una potenza tellurica capace di interferire con i grandi cicli del pianeta (…) nell’era dell’antropocene, la natura è stata spinta al punto da divenire un sistema che possa assorbire gli eccessi umani”[1]. L’accorciamento dei cicli di vita dei prodotti, lo schiacciamento del rapporto spazio-tempo, la vita indebitata e gli assegni sull’avvenire che non verranno mai riscossi, provocano da un lato uno stress ed una consumazione psicotropi, e generano dall’altro l’obsolescenza dell’uomo – secondo la formula di Gunther Anders – in un mondo che minaccia di collassare. La sesta ondata di estinzione delle specie è certamente già avviata.
Artificialmente ritagliato dall’orologio meccanico, aggiunto e detratto, il tempo è diventato l’oggetto centrale dell’economia e dunque di una società totalmente sottomessa alla sua dittatura. Bisogna sempre produrre di più rispetto ad una determinata unità di tempo. Bisogna accelerare i ritmi di vita e al contempo accorciarne la durata (soprattutto della vita degli oggetti). Il presente scompare in un’eternità virtuale. Viviamo certamente più a lungo (in media), ma senza avere mai il tempo di vivere. Si tratta dello schiacciamento produttivistico del tempo e del delirio della velocità denunciati da Paul Virilio.
Sempre più lontano, sempre più in alto, sempre più veloce! Questo motto olimpionico è stato interiorizzato dall’immaginario collettivo. Gli uomini devono essere competitivi e partecipare quotidianamente ad una corsa folle, cercando di sconfiggere il normale scorrere del tempo, quello dell’orologio da polso. Nicolas Georgescu-Roegen, a suo tempo, aveva denunciato questa frenesia tramite la parabola del “ciclondromo del rasoio elettrico”. Questo consiste “a rasarsi più velocemente in modo da avere più tempo da dedicare al lavoro, secondo la concezione di un apparato che corre ancora più veloce, e così via all’infinito”[2].
Questo schiacciamento del tempo è un aspetto essenziale della distruzione del mondo reale e di ciò che Ivan Illich denunciava come “perdita di senso”. Il processo di trasformazione degli esseri viventi e delle cose in atomi numerici è allo stesso tempo un enorme lavoro intellettuale di astrazione ed un’enorme impresa di alienazione dell’uomo e di saccheggio della natura. Secondo il pensiero razionale, tutto deve ridursi a delle cifre da calcolare; nella realtà tutto deve trasformarsi in merci interscambiabili.
Le differenti forme di accelerazione sviluppate all’ipermodernità e le nuove tecnologie, secondo il filosofo Hartmut Rosa, hanno provocato in contropartita un aumento crescente del ritmo di obsolescenza delle esperienze umane, con una conseguente restrizione di periodi di tempo appartenenti al presente[3]. Bill Joy, inventore del programma Java (il linguaggio informatico utilizzato per internet), ci ammonisce così in un articolo della rivista Wired : Why the future doesn’t need us (Wired: perché il futuro non ha bisogno di noi) dell’aprile 2000: “Le tecnologie più potenti del ventunesimo secolo – la robotica, l’ingegneria genetica e la nanotecnologie – rischiano di rendere l’uomo una specie suscettibile di scomparire”[4].
L’idea di un’obsolescenza dell’uomo derivante dalla tecnica e la tecnolocizzazione del mondo è emersa davvero, in modo inedito, grazie alla minaccia della sopravvivenza dell’umanità provocata dalla deterrenza della bomba atomica. Quattro giorni dopo la resa giapponese, Norman Cousins, traumatizzato dall’esperienza subita, pubblica un articolo intitolato “Modern Man is obsolete” (“L’uomo moderno è obsoleto”) sulla rivista Saturday Review del 18 Agosto 1945. L’uomo, a suo avviso, non è in grado di accettare e controllare i benefici ed i pericoli potenziali dell’energia atomica[5]. Questa obsolescenza dell’uomo, in seguito alla “standardizzazione della catastrofe” avvenuta con il MAD (Mutually Assured Destination) è stata magistralmente analizzata da Günther Anders. Il filosofo parla di “vergogna prometea” come senso di inferiorità rispetto alle merci: “Noi siamo distruttibili, siamo i soli ad essere nati obsoleti”[6].
È urgente costruire una società della decrescita per riabitare e riabilitare il tempo. Ridurre le distanze, rilocalizzare la vita, scoprire e valorizzare la lentezza, ridurre gli orari di lavoro, allungare il ciclo di vita degli oggetti, insomma riscoprire la vita contemplativa[7]. È giunto il tempo di sbarazzarci della nostra dipendenza dalla velocità, e di partire alla riconquista del tempo e quindi delle nostre vite. Ma ciò non può avvenire che tramite una rottura delle nostre abitudini, e quindi delle nostre credenze e delle nostre mentalità. Inventare la felicità nella convivialità piuttosto che nell’accumulazione frenetica suppone una seria operazione di decolonizzazione dei nostri immaginari; gli errori di percorso come la crisi attuale possono aiutarci a compiere questo passo. Il tempo della decrescita è giunto!
[1] Jacques Testart, Agnès Sinaï, Catherine Bourgain, Labo planète ou comment 2030 se prépare sans les citoyens (Labo planète ovvero come il 2030 si prepara senza i cittadini). Mille et une nuits, 2010, p. 37.
[2] La décroissance, Entropie, écologie, économie. Editions Sang de la Terre et Ellébore. 1979, page 107.
[3] Hartmut Rosa, Accélération. Une critique sociale du temps, La Découverte, 2011.
[4] J.P Dupuy in La marque du sacré, op, cit, p. 77.
[5] Giles Slade, op. cit, p. 144.
[6] Günther Anders, op. cit, p. 41.
[7] Citato in italiano nell’articolo
Si continua a parlare di decrescita, ma sempre solo negli stessi ambienti, tra le stesse persone. Invece nei parlamenti, nei consigli di amministrazione, nei telegiornali, nei giornali, nei congressi dei partiti, in piazza, nelle case… si continua sempre e solo a sperare nella ripresa della crescita.
Esiste forse un partito in parlamento, per quanto possa dirsi ecologista, che auspichi la decrescita anziché al crescita? No.
Nei posti che contano, la decrescita è considerata folklore.
Allora mi chiedo: ma di che stiamo parlando? Ce la stiamo raccontando tra di noi la storia della decrescita?
In effetti, che cosa si intende per decrescita non è sufficientemente compreso, nè tanto meno ci si interroga e si dibatte nelle sedi giuste sugli interogativi che Latouche si pone e che lo portano a concludere che occorre costruire una società in cui l’uomo si riappropria del tempo, liberandosi dai ritmi innaturali che la società gli impone per fini che travalicano il suo destino.
Hai ragione Carlo questo sconcertà anche me. Io trovo il concetto della decresita ovvio ma tutto l’impianto dell’attuale società si muove in “direzione ostinata e contraria”. Io sono pessimista, si prenderanno in considerazione queste teorie quando la crisi sarà irreversibile.
Nel frattempo penso che le teorie della decrescita possano essere applicate a piccoli gruppi per alleviare un pò le nostre fatiche. Nell’ottimismo del’azione penso che le credenze vanno scardinate e allora eccoci a fare da grimaldelli.