Il secolo decisivo: una non-recensione tardiva

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E’ da tempo che desidero scrivere una recensione de Il secolo decisivo. Storia futura di un’utopia possibile di Federico Tabellini, se finora mi sono astenuto dal farlo è perché, essendo Federico un collaboratore di lunga data di DFSN e avendo io partecipato alla rilettura delle bozze, ho preferito che si esprimessero prima persone meno coinvolte del sottoscritto, per certi versi sostenitore di questa iniziativa editoriale per partito preso.

Infatti, quando circa un anno fa Federico ha comunicato che stava per ultimare un libro collegato agli argomenti della decrescita, ho subito salutato con favore questo sforzo ancora prima di leggerne una sola riga, malgrado alcune divergenze di opinione tra di noi che si sono riflesse anche nelle proposte dell’opera. Mi rallegrava non poco il fatto che, all’interno del panorama della decrescita, finalmente si riaffacciasse un punto di vista diverso da quelli che, negli ultimi anni, sembrano diventati prevalenti, soprattutto nell’ambito delle macchine trita-pensiero chiamate social network. Solo questo aspetto renderebbe di per sé Il secolo decisivo meritevole della massima attenzione.

Infatti, alle sacrosante contestazioni del liberismo economico e alle legittime rivendicazioni di rilocalizzazione dei processi decisionali, si sono aggiunti troppo spesso aspetti reazionari violentemente anti-liberali, secondo cui il ‘rovesciamento del sistema’ passerebbe per iniziative palesemente nazionaliste, razziste e discriminatorie; in tale contesto, la decrescita trascende gli aspetti ecologici e diviene solo un pretesto per un regresso culturale basato sulla retorica dei “bei tempi andati” (così facendo, si offre un assist a porta a vuota ai detrattori dei decrescenti, ansiosi di additarli a retrogradi fascistoidi). Grazie a Federico, riscopri che è del tutto possibile conciliare l’orizzonte della decrescita con ideali sinceramente libertari; addirittura si possono coltivare visioni ‘cosmopolite’ (che parolaccia!) senza trovarvi alcuna traccia di neoliberismo camuffato o di altre tendenze imperialiste, politiche o economiche.

In molti hanno storto il naso per un libro che, essendo proiettato nel futuro, è stato accusato di toni utopistici ed eccessivamente ottimistici. A tale constatazione si potrebbe banalmente replicare facendo notare lo spazio che alcuni ‘catastrofisti’ di primo piano – come Ugo Bardi e Jacopo Simonetta – hanno concesso a Il secolo decisivo sui rispettivi blog, ritenendone quindi validi i contenuti. Anche io all’inizio ero scettico sull’espediente letterario impiegato, poi andando avanti nella lettura mi sono reso conto della sua innegabile efficacia per esporre le molteplici tematiche del libro, per nulla riducibile all’etichetta ‘decrescita’ ma ricco di spunti per le tante persone interessate alla riforma dei meccanismi di partecipazione democratica, al rinnovamento dell’istruzione, alla finanza etica o al reddito di base incondizionato (solo per citare alcuni argomenti trattati).

Ovviamente, anche le critiche devono essere rapportate al contenuto volutamente utopico: altrimenti, sarebbe molto facile ravvisare una certa sottovalutazione del riscaldamento globale dell’atmosfera (che pare ‘risolto’ in un arco di tempo troppo breve, lasciando troppi pochi strascischi alle generazioni di fine secolo) o del problema del picco delle risorse, nonché un’eccessiva fiducia nello sviluppo dell’automazione. Tuttavia, un pensatore libertario, diversamente dai sostenitori delle ideologie novecentesche, non ritiene che le proprie utopie siano ineluttabili alla maniera delle leggi naturali, le intende piuttosto come un modello con cui confrontare la realtà per capire quanto essa sia macchiata da iniquità, degrado e potenzialità inespresse. E così il lettore deve intendere Il secolo decisivo: non una predizione del futuro e meno che mai una Bibbia del post-sviluppo, bensì una proposta costruttiva per non sprofondare nell’apatica accettazione dell’esistente o nella distopia dettata dal cinismo e dalla rassegnazione.

 

 

 

 

 

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