Il pensiero selvaggio: un pensiero per la decrescita!

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Il “pensiero selvaggio che non è, per noi, il pensiero dei selvaggi, né quello di un’umanità primitiva o arcaica, bensì il pensiero allo stato selvaggio, distinto dal pensiero educato o coltivato proprio in vista di un rendimento”. (Claude Levi-Strauss, Il pensiero selvaggio [1])

Foto 1
Orti per gli anziani: il cancello è fatto con la griglia di raffreddamento del liquido refrigerante di un frigorifero

Sommario
1) Introduzione
2) Il pensiero selvaggio come un pensiero privilegiato nella prospettiva della decrescita;
3) Il pensiero selvaggio in azione:
a) gli orti per gli anziani
b) l’architetto che ristruttura e riconverte
c) un’arte particolare
d) un oggetto magico e selvaggio: lo pneumatico
e) il patchwork
4) Una breve conclusione

1) Introduzione

Da molti studiosi il futuro è descritto a tinte molto fosche perché si intravvedono molti nodi venire al pettine.
Un pensiero cardine del movimento della decrescita è che non è possibile uno sviluppo infinito in un pianeta che è finito.
Ma ci sono le prove concrete (e quali?) di questa impossibilità?
Ce ne sono in abbondanza e quelle che sono appresso elencate non sono le sole:

– le riserve di combustibili fossili si stanno sempre più assottigliando, il consumo aumenta sempre più nonostante un breve rallentamento dovuto alla crisi in corso, e si avvicina sempre più il momento in cui l’offerta non reggerà più la domanda. Forse ciò sta già avvenendo visto le tensioni e le guerre da alcuni decenni a questa parte nelle aree produttrici di risorse energetiche, visto la crisi finanziario-economica scatenata, dicono alcuni studiosi, anche dall’aumento del prezzo del petrolio, e che interessa il mondo intero ormai dal 2008 e, infine, visto gli sconvolgimenti politici che, a partire dagli inizi del 2011, interessano il Maghreb e il Medio Oriente;

– molti equilibri ecologici rischiano di saltare. Si prevedono effetti sconvolgenti a livello mondiale se le cose continueranno allo stesso modo in cui si sono sviluppate finora (alcuni studiosi dicono che le cose sono compromesse in ogni caso, anche se le cose cambiassero da subito);

– l’umanità è in debito verso il pianeta Terra, nel senso che si è andati oltre la capacità del pianeta di rigenerarsi. Se inoltre tutte le popolazioni del mondo desiderassero vivere come negli Stati Uniti e in l’Europa (ma si ricorda che una parte della popolazione mondiale vive con problemi di approvvigionamento di cibo e acqua potabile), se si desse inizio a uno sfruttamento intensivo di combustibili fossili estraendoli da scisti e sabbie bituminose oppure estraendoli in posti difficili come in alto mare (si ricordi il gravissimo incidente avvenuto qualche anno fa nel golfo del Messico!) oppure in zone sempre ghiacciate…(ma ciò sta già avvenendo!), allora l’umanità andrà incontro a una catastrofe certa;

– si conclude questo elenco dicendo (questa sembra una beffa!) che alcune ricerche hanno messo in evidenza che nei Paesi sviluppati non c’è più un rapporto diretto fra aumento della produzione e aumento di benessere: c’è stato un rapporto diretto fino agli anni settanta del secolo scorso ma dopo non più e, in alcuni casi, il rapporto si è addirittura invertito.

A fronte di tutto ciò che è stato detto si invoca un nuovo paradigma, cioè un nuovo modello di vita, fatto dialetticamente e contemporaneamente di nuovi valori, nuovi modi di pensare e di operare. Diceva Albert Einstein che il mondo che abbiamo creato è il prodotto del nostro pensiero e dunque non può cambiare se prima non modifichiamo il nostro modo di pensare (frase trovata sul WEB).
Si prevedono quindi cambiamenti epocali e che nulla sarà più come prima!

2) Il pensiero selvaggio come pensiero privilegiato nella prospettiva della decrescita

Dovremo quindi cambiare anche il nostro modo di pensare e di operare.
La decrescita richiede un pensiero diverso e un modo diverso di operare!

Questo lavoro cercherà di dimostrare che è necessario un nuovo pensiero e che in questo nuovo pensiero un posto importante l’avrà… un vecchio pensiero!! E’ quello che l’antropologo Claude Levi-Strauss chiama pensiero selvaggio.

La civilizzazione ha portato ormai il “pensiero moderno” a essere sempre più un pensiero esclusivo di ogni altro tipo di pensiero. Per pensiero moderno, per quanto interessa in questo contesto e in modo molto sintetico, si intende, dal punto di vista teorico, un pensiero che si basa sulla creazione di ipotesi e teorie e sulla progettazione di prodotti e tecnologie; dal punto di vista operativo si intende un pensiero che si basa sulla manifattura di massa di prodotti utilizzando materiali vergini (che vanno da specifiche materie prime alla natura in senso ampio) e componenti a loro volta appositamente progettati e predisposti.
Non si tratta però di eliminare il pensiero moderno ma di limitarlo e nel contempo di utilizzare sempre di più il pensiero selvaggio, però ammodernandolo e arricchendolo di quanto di nuovo ha messo a disposizione lo sviluppo tecnologico-scientifico-culturale di questi ultimi secoli. E’ necessario quindi che questi due tipi di pensiero “possano coesistere e compenetrarsi, così come possano coesistere e incrociarsi (almeno in linea di diritto) le specie naturali, tanto quelle rimaste allo stato selvatico quanto quelle che sono state trasformate dall’agricoltura e dall’addomesticamento, benché – per il fatto stesso dello sviluppo e delle condizioni generale che questo richiede – l’esistenza delle seconde minacci di far estinguere le prime” (2). Ma, come poco sopra si diceva, e a fronte del nuovo contesto che si è creato, in questo lavoro si dimostrerà che questo pericolo non ci sarà e che il pensiero selvaggio assumerà un ruolo sempre maggiore, invertendo l’attuale rapporto di forza col pensiero moderno.

Ma è bene a questi punto addentrarsi e attingere a piene mani dal pensiero del grande antropologo a cui si fa riferimento.

Claude Levi-Strauss parla de “l’esistenza di due diverse forme di pensiero scientifico, funzioni certamente non di due fasi diseguali dello sviluppo dello spirito umano, ma dei due livelli strategici in cui la natura si lascia aggredire dalla conoscenza scientifica: l’uno approssimativamente adeguato a quello della percezione e dell’intuizione, l’altro spostato di piano; come se i rapporti necessari che costituiscono l’oggetto di ogni scienza, neolitica o moderna che sia, fossero raggiungibili attraverso due diverse strade, l’una prossima alla intuizione sensibile, l’altra più discosta.” (3)
…………………..

“Proprio per sua essenza, questa scienza del concreto doveva limitarsi a risultati diversi da quelli destinati alle scienze esatte e naturali, ma non per questo essa fu meno scientifica e i suoi risultati meno reali: questi ultimi anzi, impostisi diecimila anni prima degli altri, rimangono ancora e sempre il sostrato della nostra civiltà.

D’altronde, sopravvive fra noi una forma di attività che, sul piano tecnico, ci consente di renderci conto abbastanza bene delle caratteristiche, sul piano speculativo, di una scienza che preferiamo chiamare ’primaria’ anziché primitiva: questa forma è di solito designata col termine bricolage. ………. Oggi per bricoleur s’intende chi esegue un lavoro con le proprie mani, utilizzando mezzi diversi rispetto a quelli usati dall’uomo di mestiere. Ora, la peculiarità del pensiero mitico sta proprio nell’esprimersi attraverso un repertorio dalla composizione eteroclita che, per quanto esteso, resta tuttavia limitato: eppure di questo repertorio non può fare a meno di servirsi, perché non ha niente altro tra le mani. Il pensiero mitico appare così come una sorta di bricolage intellettuale, il che spiega le relazioni che si riscontrano tra i due. Come il bricolage sul piano tecnico, la riflessione mitica può ottenere sul piano intellettuale risultati veramente pregevoli e imprevedibili;” (4)…
………..
“Vale la pena di approfondire ulteriormente questo paragone, perché ci facilita l’accesso ai rapporti reali esistenti fra i due tipi di conoscenza scientifica che abbiamo ora distinti. Il bricoleur è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati, ma, diversamente dall’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime e di arnesi, concepiti e procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto: il suo universo strumentale è chiuso, e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè a un insieme via via ‘finito’ di arnesi e di materiali, peraltro eterocliti, dato che la composizione di questo insieme non è in rapporto col progetto del momento, né d’altronde con nessun progetto particolare, ma è il risultato contingente di tutte le occasioni che si sono presentate di rinnovare o di arricchire lo stock o di conservarlo con i residui di costruzioni e di distruzioni antecedenti. L’insieme dei mezzi del bricoleur non è quindi definibile in base a un progetto (la qual cosa presupporrebbe, almeno in teoria, l’esistenza di tanti complessi strumentali quanti sono i generi di progetto, come accade all’ingegnere); esso si definisce solamente in base alla sua strumentalità, cioè, detto in altre parole e adoperando lo stesso linguaggio del bricoleur, perché gli elementi sono raccolti o conservati in virtù del principio che ‘ possono sempre servire ’. Simili elementi sono dunque specificati solo a metà: abbastanza perché il bricoleur non abbia bisogno dell’assortimento di mezzi e di conoscenze di tutte le categorie professionali, ma non tanto perché ciascun elemento sia vincolato ad un impiego esattamente determinato. Ogni elemento rappresenta un insieme di relazioni al tempo stesso concrete e virtuali: è un operatore, ma utilizzabile per una qualsiasi operazione in seno a un tipo.(5)

“Osserviamolo all’opera (ci si riferisce al bricoleur ndr): per quanto infervorato dal suo progetto, il suo modo pratico di procedere è inizialmente retrospettivo: egli deve rivolgersi verso un insieme già costituito di utensili e di materiali, farne e rifarne l’inventario, e infine, soprattutto, impegnare con essa una sorta di dialogo per inventariare, prima di sceglierne una, tutte le risposte che l’insieme può offrire al problema che gli viene posto. Egli interroga tutti quegli oggetti eterocliti che costituiscono il suo tesoro, per comprendere ciò che ognuno di essi potrebbe ‘significare’, contribuendo così alla definizione di un insieme da realizzare che alla fine, però, non differirà dall’insieme strumentale se non per la disposizione interna delle parti. Quel blocco cubico di quercia potrebbe servire da bietta per rimediare all’insufficienza di un asse di abete, oppure da piedistallo, cosa che permetterebbe di valorizzare la venatura e la levigatezza del vecchio legno. In un caso sarà estensione, nell’altro materia. Ma queste possibilità vengono sempre limitate dalla storia particolare di ciascun pezzo e da quanto sussiste in esso di determinato, dovuto all’uso originale per cui era stato preparato o agli adattamenti subiti in previsioni di altri usi. Come le unità costruttive del mito, le cui possibilità di combinazione sono limitate dal fatto di essere ricavate da una lingua dove possiedono di già un senso che ne riduce la libertà di impiego, gli elementi che il bricoleur raccoglie e utilizza sono ‘previncolati’. D’altra parte la decisione dipenderà dalla possibilità di permutare un altro elemento nella funzione vacante, così che ogni scelta trarrà seco una riorganizzazione completa della struttura che non sarà mai identica a quella vagamente immaginata né ad altra che avrebbe potuto esserle preferita.
In certo qual modo anche l’ingegnere interroga, poiché anche per lui esiste un ‘interlocutore’ , determinato dal fatto che i mezzi, le capacità e le conoscenze in suo possesso non sono mai illimitati , e che, in questa forma negativa, egli urta contro una resistenza con la quale gli è indispensabile venire a patti. Si potrebbe essere tentati di dire che l’ingegnere interroga l’universo, mentre il bricoleur si rivolge a una raccolta di residui di opere umane , cioè a un insieme culturale di sottordine.
…..
…la caratteristica del pensiero mitico, come del bricolage sul piano pratico, è di elaborare insiemi strutturati, non direttamente per mezzo di altri insiemi strutturati, ma utilizzando residui e frammenti di eventi….

……il pensiero mitico, da vero bricoleur, elabora strutture combinando insieme eventi, o piuttosto residui di eventi, mentre la scienza, che ‘cammina’ in quanto si instaura, crea, sotto forma di eventi, i suoi strumenti e i suoi risultati, grazie alle strutture che fabbrica senza posa e che sono le sue ipotesi e le sue teorie. Ma non equivochiamo: non si tratta di due stadi o di due fasi dell’evoluzione del sapere, poiché i due modi di procedere sono ugualmente validi.”(6)

Dopo avere attinto a piene mani al saggio “Il pensiero selvaggio” di Claude Levi-Strauss vediamo adesso di fare alcune considerazioni.

3) Il pensiero selvaggio in azione

a) Gli orti per gli anziani

Nella trattazione di questo tema mi sono servito di una ricerca sul campo da me svolta nell’area ortiva di Viale Felsina a Bologna e di dati presi dal WEB . La ricerca sul campo è consistita in una visita effettiva all’area ortiva, in fotografie degli orti, in una intervista fatta alla signora Arda Degli Esposti (rappresentante dell’area ortiva) e in altre interviste fatte ad alcuni anziani che ho incontrato nell’area.
Gli orti per gli anziani sono molto diffusi a Bologna, la città in cui vivo da circa trent’anni. Il Comune ha istituito fino a oggi 20 aree ortive per 2700 orti complessivamente. Questi orti sono piccoli appezzamenti che il Comune assegna in comodato gratuito agli anziani in modo che impieghino il “ tempo libero in attività che favoriscano la socializzazione, creando momenti di incontro, di discussione e vita sociale, e che valorizzino le potenzialità di iniziativa e di auto-organizzazione dei cittadini, in particolare delle persone anziane” (come recita il “Regolamento per la conduzione e la gestione dei terreni adibiti ad aree ortive” del Comune di Bologna). Ovviamente ciò porta di sicuro anche a un miglioramento delle condizioni psico-fisiche degli anziani.

Mentre in precedenza si faceva solamente riferimento agli anziani, con l’ultimo regolamento l’assegnazione dell’area ortiva riguarda tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età, e avviene in base all’ordine di presentazione della domanda, dando priorità ai cittadini residenti nel Quartiere e a cittadini che abbiano compiuto il sessantesimo anno di età se di sesso maschile e il cinquantacinquesimo se di sesso femminile.
Ciò che interessa in questo lavoro sugli orti degli anziani è che ciò che serve per la coltivazione di ortaggi e verdure e per la creazione dell’infrastruttura necessaria agli orti stessi (recinti, cancelli, viottoli interni, piccole serre, assi di legno per separare e contenere le parcelle, sostegni per le piante, teli e reti per proteggerle, ecc.) proviene quasi esclusivamente da materiali di scarto e che in precedenza svolgevano una funzione diversa da quella svolta nell’orto. La foto sotto il titolo riprende un orto con il cancello costituito dalla griglia di raffreddamento esterno del liquido refrigerante di un frigorifero.

Foto 2
Sarà per la bravura degli anziani ma ogni orto è una miniera di ortaggi e verdure!

Mentre nella produzione industriale ogni prodotto è frutto di un progetto ben definito, è ottenuto da materiali “vergini” e componenti appositamente creati ed è vincolato ad un uso ben definito, negli orti degli anziani invece i vari materiali e arnesi utilizzati non sono “vergini” ma soprattutto sono utilizzati per un uso diverso da quello per cui furono originariamente prodotti. L’anziano li raccoglie e li conserva perché possono sempre servire; di essi vede solo la strumentalità ai fini del progetto che si è posto. Egli interroga i vari materiali e arnesi di cui dispone al fine di scoprire il loro significato ai fini del suo progetto. I loro utilizzi saranno però pur sempre limitati dagli usi originali per cui furono costruiti. Bisogna venire a patti con essi. La stessa cosa però avviene, sebbene in misura molto minore, per gli scienziati-ingegneri, perché anche questi devono fare i conti con le conoscenze e i mezzi tecnici di cui dispongono, che limitano le soluzioni possibili. (Come si vede, in questa dozzina di righe in riferimento agli orti degli anziani, ho usato quasi pari pari le espressioni usate da Claude Levi-Strauss)

Ma vediamo come concretamente si costruisce l’infrastruttura dell’orto utilizzando quella particolare applicazione del pensiero selvaggio che è il bricolage!
Una branda non più utilizzabile potrebbe essere avviata alla discarica, incrementando così i rifiuti sotto cui forse prima o poi finiremo tutti seppelliti, oppure avviata ad una fonderia; in questo secondo caso, consumando comunque nuova energia e utilizzando un progetto appositamente predisposto, si otterrebbe nuovo metallo: ma potrebbe essere utilizzata come cancello del recinto di un orto. Le mattonelle che si ottengono disfacendo un pavimento potrebbero essere avviate alla discarica oppure usate, dopo essere state frantumate (consumando altra energia e utilizzando un progetto appositamente predisposto) come pietrisco per fondi stradali o vespai su cui poggiare il massetto di calcestruzzo ma potrebbero essere usate per lastricare i corridoi fra le parcelle in cui vengono coltivate verdure e ortaggi. Il vetro di una finestra potrebbe essere avviato alla discarica oppure a una vetreria dove, consumando nuova energia e utilizzando un progetto appositamente predisposto, essere trasformato in nuovo vetro ma potrebbe essere usato per fare una piccola serra in un orto. La carta non più utilizzata potrebbe essere inviata in discarica oppure a una cartiera dove, consumando nuova energia e utilizzando un progetto appositamente predisposto, essere trasformata in nuova carta ma potrebbe essere utilizzata per avvolgere le piante di cardo o di radicchio per ottenere la classica “imbiancatura”.
Non c’è materiale di risulta che non riceve una nuova destinazione di uso negli orti degli anziani. Il materiale proviene soprattutto dalla ristrutturazione e/o demolizione di edifici o di singoli appartamenti e dall’arredamento interno degli stessi.
Molto utilizzati sono dei tubi di gomma di colore nero: un anziano mi dice che erano utilizzati negli edifici per contenere i tubi di ferro degli impianti idraulici e che negli orti sono utilizzati come struttura per sostenere dei teli di nylon messi sulle parcelle per proteggere le piante in inverno.
Sono ugualmente molto utilizzati i tubi di ferro degli impianti idraulici: servono per creare la struttura dei recinti e dei cancelli.
A delimitare le parcelle molte volte sono utilizzate le assi delle saracinesche dei negozi.
In ogni orto c’è un contenitore di colore azzurro che serve per l’acqua. Sotto i contenitori ci sono due o tre pneumatici. Non ho chiesto il motivo di questo utilizzo ma penso che in questo modo quei contenitori siano più sollevati per cui con più facilità è possibile prelevare l’acqua con un secchio, senza doversi piegare molto. A proposito dei contenitori di colore azzurro un anziano che ho intervistato mi ha detto che sono stati regalati all’area ortiva da una azienda che avrebbe dovuto dismetterli.

Quasi tutte le strutture complesse (come i cancelli e le baracchine) sono fatti con materiali diversi e tenuti insieme in vario modo ricorrendo a diverse “tecnologie” (dalle saldature ai fili di ferro, ai bulloni, ecc.).
Le baracchine, in cui sono conservati gli attrezzi e altro materiale, hanno le pareti fatte con gli avvolgibili delle finestre e con vari assi di legno.
I viottoli, che dividono l’orto in due o più parti, sono lastricate da mattonelle, mattoni, assi di legno, strisce di tappeti di gomma, moquette, ecc.
Il rapporto che c’è fra l’uso precedente di queste cose e l’uso che se ne fa negli orti si può estendere al rapporto che c’è fra gli anziani e l’orticoltura: gli stessi anziani infatti non sono stati agricoltori nella loro vita attiva ma operai, impiegati, artigiani, commercianti e quant’altro.

Nell’area ortiva c’è posto anche per una creazione artistica: una ….. non so come definirla! Su un tubo conficcato a terra è stato agganciata la forcella di una bicicletta; in mezzo ai raggi sono messe alcune eliche fatte di….,; al mozzo della ruota è agganciata un tubo alla cui estremità c’una banderuola che prende la direzione del vento: col “dispositivo” così creato, che può ruotare in tutte le direzioni senza limiti, è possibile vedere la velocità del vento e la sua direzione. In base al suddetto dispositivo ho notato che l’area ortiva è abbastanza ventilata e che la direzione dei venti è est-ovest (questo ovviamente quando ho visitato l’area ortiva).

Foto 3
Una creazione artistica oppure un dispositivo che serve a vedere la direzione e l’intensità del vento? Oppure tutte e due le cose insieme!?

Le estensioni di questi orti sono molto limitate (circa 6 metri per 6, quindi circa 30-40 mq di superficie) per cui non è tanto l’approvvigionamento di ortaggi e verdure la motivazione alla loro istituzione ma la necessità di tenere impegnati gli anziani e migliorare così le loro condizioni di salute fisica e mentale (ma con la crisi in corso e la possibilità che gli orti possano essere assegnati anche ai non anziani non è da sottovalutare l’importanza dell’approvvigionamento di ortaggi e verdure). Il comune fornisce l’acqua e l’elettricità alle aree ortive ma il costo è a carico degli assegnatari.

A un certo punto della visita mi viene incontro la “rappresentante” dell’area ortiva di Viale Felsina, la signora Arda Degli Esposti.
Alla signora chiedo della provenienza dei materiali. Prima che finisca la domanda la signora mi risponde prontamente dicendo che i materiali sono tutti di recupero. La prontezza della risposta mi fa capire che quello della salvaguardia dell’ambiente e del problema dell’inquinamento sono problemi molto sentiti.
Mi viene illustrata l’area ortiva. Le chiedo delle baracchine che sono disposte a un lato dell’area ortiva. La signora mi dice che sono tutte fatte con materiali di recupero e che servono a conservare gli attrezzi, la legna e altro materiale.
(la legna probabilmente serve per alimentare un forno di pietra [di quelli prefabbricati] disposto nell’area ortiva e che serve per fare grigliate di ortaggi e altro quando gli anziani organizzano dei pranzi collettivi: ho dimenticato però di approfondire questo tema)

Foto 4
Le baracchine, come si vede dalla foto, sono fatte effettivamente da materiale di scarto. Sono molto presenti gli avvolgibili delle finestre e assi di legno di varia provenienza tenute insieme da altre assi di legno messe di traverso e inchiodate.

Con la signora Arda mi trattengo vicino a tre compostiere. La signora dice che sono state donate all’area ortiva da Hera (società multiservizi [multiutility ] che opera nel campo ambientale, idrico ed energetico nella regione Emilia Romagna) e che a breve ne riceveranno altre tre. Le piante che restano nell’orto dopo la raccolta sono messe nelle compostiere. Le piante più grandi sono preventivamente sminuzzate. Entro breve tempo il materiale messo nelle compostiere si riduce molto di volume. In questo modo si raggiunge un primo risultato: il materiale di scarto della coltivazione di ortaggi e verdure non viene avviato nei cassonetti per la raccolta dell’umido.

Il secondo risultato che si raggiunge è il compost, ottenuto dalla decomposizione del materiale che via via viene immesso nelle compostiere è che servirà per concimare gli orti. La signora mi dice che le compostiere sono in funzione da un anno e che finora non sono state ancora svuotate perché servono circa due anni per ottenere il compost.

Quello delle compostiere e dell’ottenimento del compost per concimare gli orti è un ottimo esempio di collaborazione fra pensiero moderno e pensiero selvaggio!

Foto 5
Le compostiere

Le compostiere infatti sono fatte in base a un progetto appositamente predisposto e inoltre sono fatte di plastica (ottenuta utilizzando il petrolio come materiale vergine di partenza); il compost invece si ottiene non da materiali vergini e in base a un progetto appositamente predisposto ma dalla semplice raccolta e sminuzzamento di residui della coltivazione e raccolta di ortaggi e verdure.

Le esperienze delle aree ortive non sono da sottovalutare in una prospettiva di diminuzione delle risorse naturali (soprattutto energetiche) e quindi di una necessaria decrescita.
Se queste aree ortive si moltiplicassero (utilizzando le tante aree abbandonate esistenti nelle periferie delle città), se si aumentasse la superficie unitaria degli orti, se fossero interessati anche persone giovani e di altre età, allora si raggiungerebbero i seguenti risultati:
– ci si approvvigionerebbe a km 0 di ortaggi e verdure (con riduzione delle risorse energetiche necessarie per fare arrivare questi prodotti, come succede adesso, da posti lontani se non addirittura dall’altra parte del mondo; con riduzione delle necessarie sostanze necessarie per la loro conservazione; con riduzione del connesso inquinamento, ecc.);
– si riutilizzerebbero i resti della coltivazione e raccolta di ortaggi e verdure per produrre compost (eliminando o, quantomeno, riducendo il bisogno di concimi, e riducendo, se non azzerando, la produzione di rifiuti, ecc.);
– ci si approvvigionerebbe, a km 0, di quanto necessario per la coltivazione di ortaggi e verdure e per la creazione dell’infrastruttura ortiva, riutilizzando quanto risulta da demolizioni e/o ristrutturazioni di edifici e di appartamenti e dal rinnovo dell’arredamento (riducendo notevolmente quanto sarebbe andato alla discarica);
– ecc., ecc.

b) L’architetto che ristruttura e riconverte: un altro caso di pensiero selvaggio in azione?

Come è da interpretare il lavoro degli architetti quando consiste nel recuperare e destinare ad altri usi tutto quel patrimonio edilizio abbandonato fatto da edifici industriali, magazzini, caserme, carceri, conventi, ecc. ?
Come opera un architetto quando progetta il recupero e la riconversione di un ex convento o un ex carcere in un albergo oppure in uno studentato?
Come il bricoleur di Claude Levi-Strauss o l’anziano che coltiva un orto nel modo visto sopra, l’architetto in questo caso ha a che fare con una realtà già costruita e che aveva una destinazione d’uso diversa da quello del nuovo progetto: con essa deve fare i conti e ciò limiterà la sua libertà d’azione.
Mi sono laureato in Sociologia all’Università La Sapienza di Roma nel lontano … Ricordo che nella preparazione e nel seminario per l’esame di Metodologia e tecnica della ricerca sociale si imparava a fare delle ipotesi su determinati fenomeni sociali, poi si elaborava un questionario per indagare sul fenomeno, si collaudava il questionario somministrandolo a persone che si incontravano nei quartieri, poi in aula si apportavano le necessarie modifiche ai questionari stessi e infine si tornava nel quartiere per somministrarlo definitivamente. In seguito si interpretavano i dati raccolti.
Quando si tratta di conoscere un fenomeno, data la formazione ricevuta di cui appena sopra ho parlato (oltre che per scelta personale), cerco di non fermarmi a una analisi astratta ma di indagare la realtà Per quanto riguarda il “fenomeno” del recupero e destinazione ad altri usi di ex caserme, ex conventi, ex strutture industriali, ecc. ho cercato di indagarlo rivolgendomi a una amica e collega di lavoro che fa l’architetto. La prima volta che le ho parlato di questo lavoro (dopo averle preventivamente inviato la parte di lavoro già svolto) è rimasta entusiasta. Ho preparato quindi una breve griglia di domande-temi (con facoltà di variarle e/o aggiungerne altre) che lei avrebbe dovuto trattare per indicare le differenze esistenti fra progettare e costruire un nuovo edificio e, invece, ristrutturare uno già esistente e che in precedenza aveva una destinazione diversa (per esempio ristrutturare e destinare a studentato o scuola una ex caserma, oppure trasformare un ex magazzino in sale per mostre, ecc.).
La griglia era la seguente
1) l’architetto utilizza strumentazioni e procedure diverse nei due differenti casi? Oppure c’è indifferenza in merito ai due progetti?
2) a quali limitazioni bisogna sottostare nel progetto di ristrutturazione e riconversione?
3) quali sono alla fine le differenze fra i due progetti? (cioè fra edificio completamente nuovo e quello ristrutturato e riconvertito)
4) variano i rapporti fra le due diverse strutture e la realtà sociale e architettonica circostante?
5) tra le due diverse strutture varia la manutenzione ordinaria e straordinaria che in seguito si renderà necessaria?

Foto 6
Una caserma abbandonata in Via Carlo Marx a Bologna: c’è un immenso patrimonio edilizio che si sta deteriorando e che si potrebbe recuperare e riconvertire ad altri usi

Dovete sapere a questo punto che gli architetti sono molto impegnati per cui le domande-temi che la collega nonché amica architetto avrebbe dovuto trattare sono rimaste sulla carta!!

c) Un’arte particolare

Dice Claude Levi-Strauss che :”…esistono ancora alcune zone in cui il pensiero selvaggio si trova, come le specie selvatiche, relativamente protetto: è il caso dell’arte, cui la nostra civiltà accorda lo statuto di parco nazionale con tutti i vantaggi e gli inconvenienti che comporta una formula tanto artificiale; e soprattutto è il caso di tanti settori della vita sociale ancora incolti ove, per indifferenza o per impotenza, e senza che il più delle volte sappiamo il perché, il pensiero selvaggio continua a prosperare. (7)

A Bologna, qualche tempo fa, passeggiando in una zona poco distante da casa, mi sono imbattuto in un negozio particolare. Erano esposti oggetti ottenuti da materiali di scarto. Ciò che mi colpì di più fu una poltrona fatta da strisce di pneumatici e camere d’aria. Ma l’inventiva non aveva limiti ed era utilizzato di tutto per fare tavoli o attaccapanni e quant’altro.
Facendo una ricerca sul WEB mi sono reso conto dell’importanza del riutilizzo dei prodotti di scarto per la creazione di opere d’arte.

Quest’arte che utilizza i materiali di scarto potrebbe definirsi arte super-selvaggia perché, oltre a essere una zona, una realtà, in cui il pensiero selvaggio è particolarmente protetto ed è in attività (avrebbe detto Claude Levi-Strauss!), sono utilizzati materiali non vergini e non creati espressamente per la creazione di una opera d’arte ma sono materiali di scarto, rifiuti e, soprattutto, che furono creati per svolgere altre funzioni.
Nella ricerca fatta sul WEB non ho incontrato artisti famosi che utilizzano materiali di scarto come “materia” per le loro creazioni artistiche.
Ho ricordato però che a Bologna, una quindicina di anni fa, ho visto una mostra di Julian Schnabel, un artista e regista americano.
Mi rimase impresso un suo enorme quadro (plate paintings ) in cui il volto della persona raffigurata era fatta da pezzi di piatti; ma questo artista nelle sue composizioni ha utilizzato i più svariati materiali (pezzi di legno recuperati in varie parti del mondo, tela cerata, tappeti, teloni, televisori, ecc.), che tolti dal contesto originario in cui svolgevano una funzione ben precisa, assumono un nuovo significato nelle sue opere.

Per concludere questa parte dedicata all’arte super-selvaggia si esprime l’esigenza, si fa la proposta che in questo campo il pensiero selvaggio e quello moderno si uniscano per creare un sapere relativo ai modi di riutilizzo dei prodotti che in passato avevano svolto una funzione diversa.

d) Un oggetto magico e selvaggio: lo pneumatico

Se ci si pensasse bene e si guardasse con attenzione la realtà che ci circonda ci renderemmo conto che sono molti i casi di riutilizzo di materiali od oggetti adoperati per un uso diverso da quello per cui furono creati.
Un caso particolare ha attirato la mia attenzione: lo pneumatico.
Sembra che questo oggetto abbia qualcosa di magico perché è particolarmente predisposto a essere adoperato per un uso diverso da quello per cui fu creato.
Se si facesse una passeggiata lungo il molo di un porticciolo si noterebbe che alle fiancate delle imbarcazioni sono appesi degli pneumatici che servono a attutire il contatto contro il molo delle fiancate stesse delle imbarcazioni.
Poco distante da casa mia ho notato che in un cortile, dove una signora mette la sua autovettura, è stato addossato uno pneumatico contro il muro: in questo modo si evita che il muso della macchina sbatti contro il muro durante l’operazione di parcheggio.
Negli stabilimenti balneari, ma anche davanti ai bar, non è raro vedere degli pneumatici pieni di calcestruzzo in cui è infisso un tubo in cui a sua volta è sistemato l’asta di un ombrellone.

Foto 7
Questo pneumatico, con la ruota, fa da supporto a un paletto su cui, a seconda dei casi, si applica il segnale che serve

Nelle aziende agricole gli pneumatici sono messi sui teli disposti a loro volta sul fieno o su altri materiali per evitare che si bagnino.
Nei giardini alle volte lo pneumatico è usato come amaca (è usato come amaca anche negli zoo, nelle gabbie delle scimmie).
Nei parchi gioco è utilizzato per un gioco che fanno le bambine e che consiste nel saltellare e andare con i piedi all’interno degli pneumatici.
Nei percorsi in cui si svolgono gare automobilistiche sono messi in alcuni punti strategici, per attutire eventuali uscite di strada delle autovetture.
Nelle gare di go kart gli pneumatici, legati in qualche modo, definiscono il percorso del circuito.
Nel Parco Regina Margherita di Bologna, una lunga fila di pneumatici, legati fra loro, definiscono l’area entro cui possono circolare le automobiline dei bambini.

I pneumatici sono utilizzati anche negli orti degli anziani di Via Felsina: sono stati messi sotto i contenitori dell’acqua probabilmente per tenerli più sollevati e facilitare gli anziani nell’attingere l’acqua con il secchio.

Foto 8
I Giardini Margherita a Bologna

Sarebbe interessante analizzare le caratteristiche dello pneumatico che lo rendono così vario e flessibile nell’utilizzo.

e) Il patchwork
L’elenco di casi di pensiero selvaggio in azione potrebbe ancora allungarsi ma si vuole terminarlo parlando brevemente del patchwork.
Per patchwork normalmente si intendono delle trapunte, fatte da tre strati, uno superiore fatto di diverse pezze, di diverse forme e colori, una imbottitura nel mezzo e un telo come strato di chiusura di sotto.
Ma qual è la storia del patchwork?
E’ una tecnica usata nei secoli scorsi dalle donne dei pionieri americani e che consisteva nell’utilizzare le parti ancora integre di abbigliamento, biancheria a altro, per riparare i capi ancora in uso o per fare coperte o altro.

4) Una breve conclusione

(le brevi considerazioni che appresso saranno fatte sono mie considerazioni: questo vuole dire solamente che non sono state sottoposte a nessun vaglio critico e che si invita chiunque a fare rilievi)

I problemi che l’umanità ha di fronte sono tremendi. Ma l’umanità ha enormi potenzialità. Per attuare queste potenzialità però l’umanità non potrà fare a meno di incidere nella sua carne viva, cioè nella sua cultura, nei suoi modi di pensare e operare.
Ogni cultura ha come obiettivo il raggiungimento del soddisfacimento pieno e per un tempo infinito dei bisogni umani e contestualmente il superamento delle condizioni della vita quotidiana.
Nel sesto millennio B.F. (before present) nella bassa Mesopotamia arrivò a maturazione quella cultura che è l’attuale cultura.
I principali caposaldi, i valori cardine di questa cultura erano (e sono): il raggiungimento di masse critiche, l’individuo, la gerarchia, le derive sociali e le derive culturali (e il contesto con cui questi valori erano e sono dialetticamente in rapporto sono soprattutto l’adozione dell’agricoltura e dell’allevamento [a cui in seguito si aggiungerà l’industria], l’incremento demografico, l’urbanizzazione, il surplus alimentare, la specializzazione del lavoro e la gestione del know how [a loro volta in stretto rapporto dialettico]).

I valori della cultura di cui appena sopra si è fatto un approssimativo e incompleto elenco hanno portato alla situazione attuale, fatta di buone condizioni generali di vita (adeguato soddisfacimento dei bisogni alimentari e sanitari, istruzione di massa, sviluppo tecnologico, ecc.) per una parte della popolazione mondiale e pessime condizioni di vita per un’altra parte. In ogni caso le buone condizioni di vita di una parte della popolazione mondiale sono state raggiunte al prezzo di guerre, epidemie, carestie, deportazioni e genocidi, condizioni di vita e di lavoro al limite della sopportazione, sfruttamento di popolazioni da parte di altre e tremende ferite inferte alla natura.
Però adesso il contesto non è più quello di alcuni millenni fa e non è nemmeno quello di alcuni decenni fa: sta velocemente cambiando e necessariamente e dialetticamente dovrà cambiare la nostra cultura (ma sta già cambiando), fatta di pensieri nuovi e modi nuovi di operare. La decrescita, con i suoi valori definiti ma da sottoporre sempre al vaglio critico, con molti valori ancora da elaborare, fa parte di questo modo nuovo di pensare e di operare. All’interno del valore della decrescita si situa la riscoperta del pensiero selvaggio di cui questo lavoro ha trattato.
E tutto si situa sempre all’interno dell’obiettivo ultimo di ogni cultura: il raggiungimento pieno e per un tempo infinito dei bisogni umani e contestualmente il superamento delle condizioni della vita quotidiana.

Ovviamente gli argomenti a cui si è accennato in questa breve conclusione richiedono ognuno una apposita e compiuta trattazione. Ciò sarà oggetto di prossimi lavori.

1) Claude Levi-Strauss, Il pensiero selvaggio, il Saggiatore, Milano 2003, pag. 240
2) idem, pag. 240
3) idem, pag. 28
4) idem, pag. 29-30
5) idem, pag. 30-31
6) idem, pag. 31-34
7) idem, pag. 240

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Sono nato in Lucania nel lontano 1951 e abito a Bologna da circa trent’anni. Ho sempre avuto interesse, da più punti di vista, verso i “destini” (sempre più dialetticamente interconnessi) dell’umanità: da quello dei valori culturali che riempiano l’esistenza a quello delle condizioni materiali di vita (dall’esaurimento delle risorse naturali ai cambiamenti climatici, ecc.). Ho visto nel valore della “decrescita” un punto di partenza per dare un contributo alla soluzione dei gravi problemi che l’umanità ha di fronte.

6 Commenti

  1. ha me sembra che la decrescita non deve essere confusa con le campi di fortuna o altre porcate del genere, la decrescita è una cosa molto più sera e complessa, riguarda un altro modello di sviluppo e di società, possibile proprio attraverso lo sviluppo della scienza delle tecnologie abbattendo il consumismo e la ricerca del profitto.

    • Pietro,
      ho visto solamente ieri il tuo commento.
      Del tuo commento dico solamente che è sgrammaticato e che usa dei termini inappropriati.
      Magari se tu lo riformulassi si potrebbe iniziare uno scambio di idee!
      Ti saluto cordialmente
      Armando

  2. ciao armando, posso dirti che ho trovato tutto il tuo articolo interessantissimo e mi ha aiutato a comprendere questo testo di Levi-Strauss che non riuscivo proprio a comprendere. (ho letto le prime 50pag. ) non ci riuscivo a concretizzare i suoi spunti teorici. tu sei stato la risposta. adesso mi chiedo se puoi per favore spiegarmi cosa intendi rispetto a questa frase che hai scritto ” All’interno del valore della decrescita si situa la riscoperta del pensiero selvaggio di cui questo lavoro ha trattato”. mi piacerebbe che argomentassi meglio, che approfondissi. grazie. gentilissimo per quanto hai offerto.

    • Risposta a Manu

      Il movimento della Decrescita si basa sull’importante considerazione che non è possibile uno sviluppo infinito in un pianeta che è finito. Per la verità non è nemmeno possibile rimanere al livello di sviluppo in cui siamo arrivati adesso ma che anzi, e appunto, bisognerà decrescere.
      Quale è il rapporto fra “pensiero selvaggio” (che è da intendersi come teoria e prassi”) e la decrescita? Anzi, come il “pensiero selvaggio” può essere alla base della decrescita?
      La teoria e la prassi del “pensiero selvaggio” comporta nel concreto un risparmio di energia e un minore impatto sulla natura. Questo avviene perché riutilizza quanto già creato…e riutilizza quanto già creato perché le cose sono specificate solamente in parte (avrebbe detto Claude Levi-Strauss).
      Pe esempio c’è differenza in termini di fabbisogno energetico e di materiali fra creare dal nuovo uno studentato e ristrutturare e riconvertire a studentato una caserma dismessa. Nella nuova struttura che viene creata è riutilizzato buona parte della caserma perché nella caserma, avrebbe detto Claude Levi-Strauss, le cose sono specificate solo in parte. Quindi si faranno solamente quegli interventi necessari per trasformare la caserma in studentato, riutilizzando buona parte della struttura. Se alcune cose sono specifiche della caserma (come garitte, altane per l’avvistamento, filo spinato in cima ai muri di cinta, cartelli con la scritta “Alt, non avvicinarsi, Zona militare!, ecc.) che ovviamente bisogna completamente togliere, altre invece (come molte infrastrutture [allacciamenti idrici, elettrici, fognari, stradali, ecc) potrebbero non avere bisogno di nessun intervento e, in questo caso, non ci sarebbe ulteriore consumo di energia e materiali (che comporta sempre inquinamento, devastazione della natura,…e guerre nelle aree produttrici di risorse energetiche e minerarie). Su altre parti della caserma invece bisognerà fare alcuni interventi (muri divisori, modifiche a impianti, ecc.) riutilizzando quindi buona parte della struttura.
      Il discorso che ho fatto a proposito della ristrutturazione e riconversione di una caserma dismessa in uno studentato può farsi a proposito di tante altre cose. Mi ha colpito molto gli innumerevoli modi in cui possono riutilizzarsi gli pneumatici dismessi. Lo pneumatico è progettato e fatto per stare sotto le ruote degli autoveicoli però evidentemente ha dei caratteri che lo rendono utilizzabile per tanti e diversi modi. In questo modo gli pneumatici dismessi, che sono rifiuti speciali e che sarebbero andati a incrementare le discariche, vengono riutilizzati e impediscono la produzione di altri oggetti di cui rimpiazzano la funzione (quindi si produce di meno, si inquina di meno, si risparmiano le risorse naturali, ecc.).
      Manu, spero di avere aggiunto qualcosa all’articolo e di avere chiarito i tuoi dubbi.
      Ciao
      Armando

      • 🙂 grazie sei stato chiarissimo!! non ricordo chi diceva che la nostra mente è l’immagine del mondo e il tuo pensiero è molto bello!! (cioè quello di Levi-strauss!!!) ma per attuarlo bisogna cambiare etica. Io sono ottimista! un caldo saluto!! e ancora grazie!

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