Il nuovo capitalismo e il vero anticapitalismo

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Quando, a cavallo tra vecchio e nuovo millennio, ero un giovane simpatizzante del movimento no global, condividevo l’idea diffusa secondo cui il neoliberismo fosse il ‘capitalismo a volto scoperto’, cioé il Capitale nella sua forma più pura priva di orpelli ideologici, giunto alla sua metamorfosi terminale che avrebbe contrassegnato per diversi decenni il XXI secolo.

Oggi, devo ammettere di essermi sbagliato non una ma due volte: innanzitutto, sono ora consapevole che, al di là delle logiche di accumulazione, il capitalismo non possiede alcun vero ‘volto’, ma solo maschere per celare i suoi meccanismi profondi; in secondo luogo, sto assistendo all’inizio della fine del neoliberismo molto prima di quanto avessi mai potuto pronosticare.

Fine del neoliberismo? Sto forse farneticando? La UE, ad esempio, non trasuda ancora dei suoi dogmi? E’ vero, ma chi ha vissuto l’epoca dell’unilateralismo statunitense, dello strapotere di Banca Mondiale, FMI e WTO sui destini del pianeta, dei politici di qualsiasi schieramento orgogliosamente liberali e liberisti… avverte i profondi cambiamenti avvenuti. Anche all’interno di quella religione laica che è la disciplina economica, gli ‘eretici’ Stiglitz, Krugman e Piketty sono saliti in cattedra contraddicendo consolidati dogmi; continuano a definirsi ‘liberisti’ o ‘pro-globalizzazione’ senza vergognarsene solo poche riserve indiane della politica o alcuni agguerriti (anche perché finanziati da multinazionali e affini) think thank.

La fase neoliberale, è bene ricordarlo, ha rappresentato una grande dimostrazione di resilienza del capitalismo. Conclusa con la crisi petrolifera del 1973 la grande sbornia dei ‘trenta gloriosi’ del boom economico con le relative promesse di fine della povertà e di sviluppo per tutti i popoli della Terra, il capitalismo ha dovuto fare i conti con tassi di crescita molto più anemici che, nella logica classista e gerarchizzata che lo contraddistingue, significavano la divisione del mondo in sommersi e salvati, l’ascesa inesorabile della finanza come nuova cornucopia di profitti facili oltre alla controffensiva padronale ai danni della classe lavoratrice: ciò si è tradotto nei famigerati ‘piani di aggiustamento strutturale’ per il Sud del mondo, nello strapotere della speculazione e nell’avvento della ‘flessibilità lavorativa’.

Accantonato il compromesso keynesiano della concertazione Capitale-Lavoro e archiviato nel 1989 l’alibi della minaccia comunista, il nuovo corso aveva bisogno di rifondare legittimità e coesione sociale. La variante progressista del neoliberismo (più o meno incarnata negli USA dai ‘new democrats’ clintoniani e in Europa dai partiti laburisti/socialisti riconvertiti al nuovo credo), ha trovato una quadratura del cerchio attraverso una narrazione improntata ai seguenti capisaldi:

  • esaltazione della ‘cultura del merito’, per giustificare la nuova divisione sociale ingenerata dal sistema produttivo postfordista, dove alla massa di lavoratori sprofondata nel limbo della precarietà lavorativa e della sottoccupazione fa da contraltare la minoranza ancora in grado di reclamare condizioni contrattuali vantaggiose;
  • enfasi sui diritti civili e le pari opportunità per elaborare una visione ‘di sinistra’ capace di compensare l’involuzione reazionaria dovuta alla graduale distruzione delle conquiste sindacali;
  • promozione della libertà di movimento delle persone come corollario a quella delle merci, per tamponare le gravi ferite inferte dalle politiche neoliberiste su vaste aree del pianeta, oltre che per procurarsi manodopera a basso prezzo e sopperire alle conseguenze del calo della natalità in Occidente.

 

Lo shock (apparentemente) finanziario del 2008 ha stravolto tutto, perché ha esacerbato i problemi già latenti. Dopo tanti annunci iniziali all’insegna del ‘va tutto bene madama la marchesa, è solo un incidente di percorso’, anche alcuni campioni dell’economia mainstream hanno parlato apertamente di ‘stagnazione secolare’ (Larry Summers), l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) ha iniziato cripticamente ad alludere a un imminente picco di produzione del petrolio, infine i tradizionali cani da guardia del Washington Consensus inneggianti alla dittatura suprema delle leggi di mercato hanno mostrato seria preoccupazione per gli effetti degli stravolgimenti climatici. In questo contesto per nulla idilliaco, che assume sempre di più la forma del collasso descritto ne I limiti dello sviluppo, come tenterà di adeguarsi il capitalismo? Forse la storia può fornirci qualche indizio.

 

Limiti dello sviluppo, scenario base

 

Se escludiamo la particolare parentesi del boom economico postbellico, gli ultimi 150 anni hanno sempre visto alternarsi periodi di (relativa) espansione economica (Belle Epoque, Globalizzazione post-crollo Comunismo) alternati ad altri di grave contrazione (Grande Depressione 1873-95, Crisi del 29, Crisi del 73).

 

 

I due cicli (espansione e crollo) sono stati caratterizzati da numerose differenze a livello politico, sociale ed economico. Molto schematicamente, possiamo associare alcune caratteristiche peculiari per ciascuno di essi:

 

 

Con le ovvie differenze del caso, la situazione attuale sembra assomigliare alla crisi del 29, deflagrata quando scoppiarono le bolle finanziarie alimentate dal liberismo repubblicano dei ‘ruggenti anni Venti’; la successiva stagnazione portò all’ascesa di Franklin Delano Roosevelt e del New Deal negli USA parallelamente a quella dei fascismi in Europa.

Nel suo grande classico La grande trasformazione, Karl Polanyi, descrisse il fascismo nei termini di una “mossa” a disposizione del capitalismo qualora la destabilizzazione creata dalla recessione rischi di minacciare l’ordine costituito, per cui si decide di sacrificare il mercato autoregolato e l’ideologia del laissez faire (insieme al liberalismo politico e alla democrazia rappresentativa), al fine di preservare istanze più importanti che rappresentano il vero cuore del sistema, come la difesa della proprietà privata e della stratificazione sociale. Paventando un ipotetico ‘pericolo fascista’, la discussione rischia di essere dirottata nel pantano mediatico-politico di casa nostra, invece di riflettere opportunamente sull’efficacia degli strumenti retorici dell’estrema destra in un mondo a bassa o nulla crescita. Proponiamo qui un paio di suggestioni.

Il nazionalismo, ad esempio, funge da ottimo collante sociale in tempi di vacche magre, quando non è più possibile una redistribuzione adeguata dei proventi della crescita. Lo slogan ‘prima gli italiani’ (o svizzeri, francesi, americani, ecc.) massifica tutta la popolazione a prescindere dalle differenze reddituali – diversamente da un proclama del tipo ‘prima chi guadagna meno di 10.000 euro annui’ – e il suo naturale corollario è un provvedimento in stile flat tax, dove ricchi e poveri vengono ‘appiattiti’ al pagamento della medesima quota di tasse. La criminalizzazione della povertà che proviene ad esempio dalle delibere anti-senzatetto varate recentemente a Genova e Como o dai profondi tagli che Trump vuole imporre ai servizi sanitari di base Medicare e Medicaid, sono forse i prodromi di un capitalismo che non può più ‘permettersi’ il welfare state e decide quindi di combattere apertamente le ‘vite di scarto’ (Bauman), cioé esseri umani assimilati a rifiuti per la loro inettitudine come lavoratori e consumatori. (Breve postilla: tutte le forze politiche che fanno accorati appello al ‘popolo’ intendono con questa parola solamente la cerchia dei loro sostenitori e ciò è vero a destra come a sinistra: per socialisti e comunisti ‘popolo’ era la classe operaia, chi dissentiva era ‘borghese’ a prescindere, insulto speculare all’odierno ‘anti-italiano’).

Contenuto o addirittura arrestato il fenomeno migratorio, il capitalismo manterrebbe comunque la necessità del marxiano ‘esercito industriale di riserva’ (anche se nell’epoca dell’automazione totale assume ovviamente forme diverse da metà 800), quindi l’attenzione si concentrerebbe su gruppi tradizionalmente marginalizzati (vedi i meridionali in Italia), le donne e chi pratica comportamenti sessuali ‘devianti’, ad esempio. Il neoliberismo aveva già introdotto il concetto ossimorico di ‘universalismo selettivo’ (si selezionano cioé coloro che hanno accesso ai diritti ‘universali’), le recenti proposte di autonomie regionali allo scopo di reintrodurre le ‘gabbie salariali’ e diversificare la legislazione in materia di rifiuti e danno ambientale sembrano pensate proprio per creare (o sarebbe meglio dire consolidare) determinate ghettizzazioni per poi sfruttarle vantaggiosamente.

Come è giusto notare le analogie con il passato, bisogna anche evidenziarne le radicali divergenze, prima di pensare a un corso degli eventi già scritto in direzione del ‘fascismo del terzo millennio’. Rispetto agli anni Trenta, in particolare, il mondo risulta molto più interconnesso, la delocalizzazione industriale in Cina e paesi emergenti non è un processo facilmente reversibile, la finanza occupa una posizione apicale da cui sarà arduo scalzarla; come se non bastasse, la catastrofe ecologica potrebbe costringere, volenti o nolenti, a una seria cooperazione internazionale. Tutto ciò rende meno probabile il rischio di una guerra mondiale, pericoloso strumento di ‘distruzione creatrice’ a cui il capitalismo è ricorso senza tanti scrupoli in alcuni dei peggiori momenti di crisi della sua storia. Aggiungo che, per quanto l’Occidente presenti abbondantemente tutti i germi di una civiltà in decadenza, non riesco a immaginarmi le sue popolazioni talmente apatiche da essere soggiogate senza colpo ferire dalle versioni 2.0 di Hitler, Mussolini e Franco. Per giunta, così come la sinistra si è mostrata capace di riconvertirsi dal marxismo alla rivisitazione ‘dal volto umano’ della durissima dottrina introdotta da Reagan e Thatcher, potrebbe anche ritinteggiare di umanitarismo le proposte della nuova destra e riscuotere consensi, sul modello del partito socialdemocratico danese e delle sue dure prese di posizione anti-immigrazione (del resto, dall’ex ministro Minniti a vari sindaci ‘sceriffi’ a targa PD, sono tanti i casi in cui è stata scimmiottata la destra mutandone sostanzialmente solo i toni).

Il discorso si fa molto complesso e sicuramente condizione necessaria (non sufficiente) per una precisa analisi è di rifuggire allarmismi isterici e faziosità personali, nonché di saper distinguere il dito dalla luna. Così come la contestazione del 68 agli effetti più invasivi e perversi dello stato assistenziale-keynesiano può in alcuni casi aver involontariamente spianato la strada alla contro-rivoluzione neoliberista, altrettanto grande è oggi il rischio di condurre una lotta senza quartiere contro la cultura del politically correct e delle pari opportunità, il multiculturalismo e le altre sovrastrutture ostentate dal neoliberismo che finisca soltanto per tirare la volata alle nuove pupazzate in salsa reazionaria del Capitale (specialmente se le critiche oltrepassano la soglia della ragionevolezza per degenerare nel provincialismo culturale, nella riproposizione di antichi stereotipi uomo-donna, nel ‘complotto gender’ e idiozie analoghe).

Ovviamente, non ha alcun senso giocare a rimpiattino con il capitalismo diventando ‘sinistrorsi’ quando esso assume la maschera ‘destrorsa’ e viceversa. Dovremmo piuttosto interfacciarci con sani valori che ora vengono attribuiti a una o all’altra ala politica – appartenenza culturale, amor di patria, emancipazione individuale, lotta contro ogni forma di discriminazione – strappandoli alla logica strumentalizzatrice del capitalismo, per metterli invece al servizio di un nuovo progetto di società.

Impresa difficile, innanzi tutto perché costringe a superare la forma mentis ‘anti’ per diventare ‘pro’ qualcosa, senza però riproporre minestre rancide riscaldate. Soprattutto, obbliga a uscire dalla logica delle fazioni e dei sistemi di pensiero preconfezionati per diventare Soggetti Critici, persone cioé capaci di non lasciarsi intrappolare nella gabbie dell’identitarismo comunitario, del mercato, del razionalismo strumentale e delle ideologie politiche, ma in grado di rapportarsi con ciascuna di queste entità senza demonizzazioni e adesioni religiose, cercando di separare la paglia dal fieno e recuperare ciò che si ritiene più prezioso per la dignità individuale e la nostra interrelazione con la società e la biosfera; operazione ben diversa dalla trovata postmoderna, molto alla moda, di confutare il pensiero ‘debole’ neoliberista ripescando e fondendo assieme pensieri ‘forti’ tratti dagli opposti estremismi novecenteschi.

Se i movimenti ecologisti e più in generale tutte quelle realtà che rifiutano le vecchie dicotomie politiche si riconoscono in questa prospettiva, è bene che battano un colpo (per davvero) il più presto possibile.

 

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