Quando normalmente si parla di marketing si intende quel ramo delle discipline economiche che studia il mercato, come questo si evolve e come quindi, possiamo “piazzare” il prodotto o il servizio che desideriamo vendere.
Osservare le persone – trasformate (anzi, deformate) in consumatori – e capire come meglio poterli in un certo senso “aggirare”, seguirne passo passo i comportamenti e cercare di riuscire ad agire sulla loro psiche, spesso pericolosamente nel profondo, per indurre appunto al consumo.
E la cosa che più appassiona in tutto questo – per chi appunto si occupa di marketing – è di solito misurare la propria attitudine e la propria abilità nel cercare la formula giusta di persuasione nei confronti del consumatore, facendo sì che questo acquisti il “nostro” prodotto o servizio.
Nello sviluppo e nell’apparente successo dell’attuale sistema economico (ormai in crisi oserei dire irreversibile) questi procedimenti hanno rivestito una fondamentale importanza, che tuttavia hanno contribuito anche a occultare agli individui reali bisogni, soppiantandoli con i cosiddetti bisogni indotti.
Tuttavia, sono abbastanza sicuro nel dire che non è un male di per sé, il marketing, né l’uso che se ne fa. Voglio dire, se lo scopo del marketing non fosse la vendita appunto di prodotti o servizi, ma semplicemente aspirasse al re-indirizzamento verso i reali bisogni dell’uomo?
Voglio dire, cosa potrebbe succedere se il marketing diventasse un surrogato più “popolare”, pratico e “pret-à-porter” della filosofia, sdoganandola dall’aura così “radical chic” in cui normalmente ed erroneamente viene collocata?
Ho scritto tempo fa un saggio, spero abbastanza esaustivo, sul rapporto tra inconscio e marketing, che, chi è interessato può leggersi a questo link, la cui sintesi era più o meno la seguente:
Il marketing normalmente si manifesta sotto forma di certezze: pensiamo agli slogan pubblicitari, nessuno di quelli che vi verrà in mente sarà una frase interrogativa (non terminerà mai cioè con un punto di domanda) e spesso compaiono termini distorti dal loro contesto e dal loro significato originario, come “fiducia”, “qualità”, “affidabilità”, “come una volta”, ecc. Di solito sono frasi imperative che incitano all’azione e alla tempestività (es. la Nike, con “Just do It” – Fallo e Basta – ), con altri termini come “ora”, “subito”, ecc.
Se invece chi si occupa normalmente di marketing si dedicasse a non vendere niente, ma a porre in maniera accattivante e funzionale domande di senso a tutti, come: Chi sei? Dove Stai Andando? Cosa Vuoi Essere? Perché Stai Correndo? E a questo fosse accompagnata una campagna sul web e su tutti i media, non sarebbe forse qualcosa di diverso, che genererebbe a prima vista spaesamento, ma che sicuramente colpirebbe e farebbe riflettere, invece di confondere ulteriormente una società in crisi proprio per un eccesso di falsi miti e false sicurezze?
Parlando da consumatrice, sono pienamente d’accordo ma credo che una sensibilizzazione di questo tipo possa essere fatta solo attraverso l’arte o da quelle aziende in cui l’interesse non è il profitto spropositato.
Prendiamo per esempio una brand famoso che immette sul mercato un nuovo prodotto come potrebbe concretamente dire “sei sicuro che questo prodotto ti serve?”, ci vorrebbe una consolidata ed affermata etica aziendale.
Però la si può prendere come una sfida e provare ad inventare qualcosa.
Hai senz’altro ragione Chiara, infatti io mi appello alle persone, cioè a chi sà di marketing e ai media che non hanno finalità di lucro, ma anche le televisioni e il web del servizio pubblico ad esempio!