Il recente crollo del prezzo del petrolio, passato in soli sei mesi dagli oltre 100 dollari per barile a circa 50 dollari per barile, sta spiazzando l’intera industria petrolifera mondiale e in particolare quella nordamericana. Le cause di una così rapida discesa dei prezzi sono molte, sia dal lato dell’offerta che di quello della domanda.
Dal lato della domanda notiamo che l’Europa continua ad arrancare ed è finita in una spirale deflattiva, risentendo ancora della crisi del debito dei paesi periferici e della conseguente austerity imposta da Berlino, mentre la Cina continua a vedere rallentare la propria produzione industriale, in parte proprio per le minori esportazioni in Europa, ma anche perché si ritrova con una domanda interna troppo debole. I paesi emergenti si trovano quasi tutti in difficoltà – ad esempio Brasile e Russia – a causa della dipendenza delle loro economie dall’attuale basso prezzo delle materie prime, mentre il Giappone è riuscito nell’arduo compito di peggiorare le cose dopo la politica monetaria fortemente espansiva del premier Abe. Gli unici che sembrano essere tornati sulla traiettoria della crescita economica sono gli Stati Uniti, che dopo le tre enormi immissioni di liquidità della Federal Reserve hanno rimesso in sesto i bilanci delle proprie banche ed evitato grandi tagli alla spesa pubblica – anche se a causare la crescita economica americana c’è stato anche il boom dell’estrazione di petrolio e gas non convenzionale. Ma in generale la domanda di petrolio dell’economia mondiale è debole.
Dal lato dell’offerta, invece, abbiamo assistito all’inondazione del mercato mondiale del greggio da parte di tutte le varie forme di petrolio non convenzionale proveniente dagli Stati Uniti e dal Canada. Tra il 2005 e il 2008 abbiamo raggiunto il picco della produzione di petrolio convenzionale – per rendersene conto basta osservare i grafici della produzione mondiale divisa per tipologia di petrolio del World Energy Outlook del 2014 – e questo, insieme alla vigorosa crescita delle economie emergenti, Cina su tutte, ha fatto esplodere il prezzo di petrolio, che nel 2008 ha toccato livelli da record, pari a 140 dollari a barile. Poi è arrivata la recessione mondiale del 2009, ma a parte pochissimi mesi in cui gli investitori erano nel panico e in cui il costo di un barile di petrolio aveva toccato i 40 dollari, il prezzo dell’oro nero è tornato a viaggiare al di sopra dei 100 dollari al barile. Un decennio di prezzi del petrolio sopra gli 80 dollari (ricordiamoci che nel 1999 aveva toccato la modica cifra di 9 dollari al barile!) e il picco del petrolio convenzionale hanno spinto le compagnie petrolifere – che hanno sempre bisogno di avere un tasso di rimpiazzo delle proprie riserve petrolifere almeno pari al 100% – a investire pesantemente nelle più costose tecniche per la ricerca e la produzione di petrolio (e gas) non convenzionale. E così la produzione nordamericana del 2011/2012 è tornata a salire come non succedeva da decenni. Se a questo punto sommiamo il ritorno in produzione di gran parte dei pozzi libici e il boom della produzione irachena, il risultato è che il prezzo del petrolio ha intrapreso la strada della rapida discesa, intorno ai 90 dollari a settembre, verso i 70 dollari ad ottobre, fino al drastico crollo delle quotazioni a novembre e dicembre, dopo la decisione dei paesi dell’OPEC di mantenere la produzione invariata – decisione fortemente voluta dall’Arabia Saudita, decisa a non perdere quote di mercato e quindi pronta a vincere la guerra dei prezzi coi produttori nordamericani a causa dei bassi costi di estrazione dei suoi giacimenti.
E’ chiaro che se il prezzo del petrolio dovesse mantenersi intorno a questi livelli o peggio continuare la propria discesa verso i 40 o addirittura i 20 dollari al barile, assisteremmo al fallimento di quasi tutti i produttori di petrolio non convenzionale nordamericano. Infatti, questi produttori si ritrovano a sostenere più alti costi di produzione e necessitano, secondo molti analisti del settore, di un prezzo del greggio intorno agli 80-85 dollari per poter far quadrare i conti – tenuto anche conto dell’alto indebitamento di queste società, il cui debito sul mercato viene in genere classificato tra le obbligazioni a più alto rischio (high yield bond). E’ senz’altro significativo che i produttori di petrolio non convenzionale nordamericano abbiano fortemente diminuito la ricerca di nuovi pozzi e questo nonostante la vitale necessità di continuare a rimpiazzare quelli i vecchi, che ricordiamo esauriscono il 90% circa della produzione nei primi 12-18 mesi.
Con il riscaldamento globale che si fa sempre più allarmante – siamo diretti verso un aumento delle temperature medie del pianeta tra i 4 e i 6 gradi centigradi, il che avrebbe conseguenze catastrofiche e del tutto imprevedibili sulla vita nel pianeta –, la forte discesa dei prezzi del petrolio potrebbe rappresentare un’occasione irripetibile per agire con urgenza contro il caos climatico ed evitare il peggio – secondo i climatologi ci rimane poco meno di un decennio per provare a limitare i danni, dato che già ora la temperatura è aumentata di 0,8°C, con il risultato che tra il 2000 e il 2010 gli eventi metereologici estremi, come siccità, inondazioni e uragani, sono aumentati di cinque volte rispetto agli anni Sessanta. Il basso prezzo del petrolio rende infatti l’introduzione di una pesante carbon tax, un’imposta sulle produzione più inquinanti, politicamente accettabile e scientificamente auspicabile.
E’ anche il momento giusto per colpire un settore, quello del petrolio e del gas non convenzionale, che oltre ad essere più inquinante della versione convenzionale, ha di fatto impedito la transizione verso quelle fonti di energia rinnovabile – in particolare solare, mini-idroelettrico ed eolico – che rappresentano, almeno dal punto di vista energetico, la più credibile e senz’altro sicura alternativa agli inquinanti combustibili fossili. Per non parlare degli elevati costi ambientali delle tecniche di estrazione non convenzionale (anche se per ora vengono semplicemente scaricati sulla collettività). Bombardando le rocce con acqua sotto pressione, additivi chimici (tra cui il benzene, composto chimico che è cancerogeno per l’uomo) e solventi per estrarre petrolio o gas si emettono molte più emissioni di CO2 che tramite le tecniche convenzionali (e anche per il tanto decantato gas naturale, siamo nell’ordine di maggiori emissioni del 30%, secondo uno studio dell’aprile del 2011 degli scienziati della Cornell University) ed è anche molto probabile che si contaminino le falde acquifere (lo dimostrano vari studi dell’agenzia statunitense per l’ambiente, l’EPA). Ma lo stesso discorso vale per lo sfruttamento delle sabbie bituminose dell’Alberta, nel Canada, una regione che da qualche anno vede distruggere le proprie millenarie foreste boreali per fare spazio a migliaia di chilometri di paesaggio lunare, avvelenato dalle esalazioni e i prodotti di scarto di queste lavorazioni (è stata costruita la seconda diga più grande al mondo per contenere il tutto).
Il probabile fallimento dell’industria del petrolio e del gas non convenzionale – con ricadute potenzialmente disastrose su occupazione ed economia mondiale – dimostrano ancora una volta l’inaffidabilità del mercato nel garantire la stabilità economica e il totale fallimento della promessa di creare una società migliore. E’ finito il tempo delle scuse, non possiamo continuare a restare inerti mentre le multinazionali distruggono il pianeta nella più totale indifferenza della gente e con la collusione di un manipolo di politici collusi – a tal proposito i fratelli Koch, miliardari che hanno i loro interessi nei settori più inquinanti, sono sempre pronti a riempire di soldi chi salvaguardia i loro interessi e hanno in programma di investire per le prossime elezioni americane la strabiliante cifra di 900 milioni di dollari. Occorre agire con urgenza e non lasciar cadere nel vuoto i moniti degli scienziati del clima che chiedono un taglio drastico alle emissioni di gas serra. Ma non si tratta nemmeno di mera utopia, dato che disponiamo ormai di una buona tecnologia nel campo delle rinnovabili. Secondo un piano d’azione del 2009, pubblicato sulla rivista Energy Policy da Mark Z. Jacobson (docente di ingegneria civile e ambientale alla Stanford University) e Mark A. Delucchi (ricercatore all’Istituto di studi sui trasporti dell’Università della California di Davis) , già entro il 2030 il 100% dell’energia mondiale per tutti gli scopi, compresi quindi i trasporti e i sistemi di riscaldamento e raffreddamento, potrebbe provenire da fonti rinnovabili, quali eolico, idrico e solare. Ma questa rivoluzione potrà avvenire solamente dal basso, ovvero da una presa di coscienza generale da parte della gente comune, che dovrebbe ormai aver capito che da questo sistema economico ha solo da perderci.
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