I limiti del pianeta

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The_Earth_seen_from_Apollo_17Cinquant’anni di sviluppo senza limiti della nostra economia hanno portato sull’orlo del collasso il funzionamento dei delicati meccanismi del pianeta Terra.  L’impatto umano su scala globale è stato così forte che gli scienziati sono ormai concordi nel ritenere che a partire dalla Rivoluzione Industriale siamo entrati in una nuova era geologica, l’Antropocene, ovvero un’era in cui è l’uomo il principale fattore di cambiamento dei sistemi naturali. L’umanità ha infatti spinto il pianeta fuori dall’Olocene, quella particolare era geologica caratterizzata da una bassa variabilità dei fattori che influenzano il nostro Sistema Terrestre – come ad esempio il clima -, condizione essenziale per lo sviluppo di società complesse e dell’agricoltura.

Secondo uno studio pubblicato dalla prestigiosa rivista accademica Nature nel 2009 da parte dei 29 maggiori scienziati della scienza del Sistema Terra, nel nostro pianeta esistono delle soglie o limiti che non dovrebbero assolutamente essere oltrepassati, pena il rischio di cambiamenti imprevisti e assolutamente irreversibili che metterebbero a rischio il buon funzionamento del Sistema e quindi il benessere o la sopravvivenza stessa dell’umanità. Gli scienziati hanno individuato ben 9 limiti planetari in grado di coprire l’intero ciclo biochimico di azoto, fosforo, carbonio e acqua, ma anche i maggiori sistemi di circolazione del pianeta (clima, stratosfera e sistemi oceanici) o le caratteristiche fisiche del pianeta che contribuiscono alla sua resilienza e alla capacità di autoregolamentarsi (biodiversità marina e terrestre), oltre a due criticità associate ai cambiamenti globali provocati dall’azione umana (carico di aerosol e inquinamento chimico). La pressione da parte dell’uomo sul Sistema Terra è arrivata a un punto tale per cui non può assolutamente essere escluso un improvviso cambiamento (leggi peggioramento) ambientale di portata globale. E’ importante notare che I 9 limiti planetari cui si riferisce lo studio sono tutti stati fissati ipotizzando che gli altri 8 non vengano oltrepassati, ipotesi già diventata irrealistica, dato che abbiamo oltrepassato almeno 3 dei 9 limiti (cambiamenti climatici, perdita di biodiversità e cambiamenti del ciclo dell’azoto).

  • Cambiamenti climatici: la temperatura media del pianeta è già aumentata di quasi 1°C ed è importante notare che anche rimanendo nella tanto strombazzata soglia dei 2°C (mera misura politica) si correrebbero alti rischi di un impatto climatico deleterio per la nostra società, oltre che per l’ambiente. I dati paleoclimatici degli ultimi 65 milioni di anni suggeriscono come la diminuzione della CO2 nell’atmosfera sia stata una delle principali variabili a causare il raffreddamento del pianeta nel lungo termine. Parallelamente, possiamo notare che a una concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera pari a 450 ppm il pianeta ha registrato nella sua storia passata la totale assenza di ghiacciai (attualmente abbiamo di poco superato le 400 parti per milione di CO2 nell’atmosfera). Avendo già superato il limite stabilito dagli scienziati per scongiurare effetti potenzialmente catastrofici, cioé una concentrazione di CO2 pari a 350 ppm, stiamo assistendo al rapido susseguirsi di eventi inaspettati quanto drammatici. Il rapido ritiro dei ghiacciai estivi dall’Artico e dalle principali catene montuose, le pesanti perdite di massa dei ghiacciai della Groenlandia e dell’Antartide Occidentale, l’aumento del livello dei mari verificatosi negli ultimi 10-15 anni, lo spostamento di 4° delle regioni subtropicali verso i poli, la moria o lo sbiancamento delle barriere coralline, l’aumento del numero delle grandi inondazioni e dei periodi di siccità o anche l’indebolimento dell’assorbimento del carbonio da parte degli oceani sono tutte conseguenze del fatto che abbiamo superato un limite del pianeta.

  • Acidificazione degli oceani: l’acidificazione degli oceani rappresenta un grave pericolo per la biodiversità marina e l’abilità degli oceani di continuare ad assorbire CO2 – attualmente ne assorbono il 25% del totale delle emissioni umane. I processi di rimozione atmosferica della CO2 includono sia la dissoluzione dell’anidride carbonica negli oceani, che l’assorbimento del carbonio da parte degli organismi marini. Ma l’aumento dell’anidride carbonica presente negli oceani ne aumenta l’acidità (cioè un più basso Ph) della superficie, con conseguenze negative per molti organismi marini, soprattutto quelli che utilizzano ioni di carbonato di calcio dissolti nell’acqua per formare conchiglie o gusci protettivi. Il Ph della superficie degli oceani è diminuito di circa 0,1 Ph unità (corrispondente a un aumento del 30% nella concentrazione di ioni di idrogeno e un declino del 16% della concentrazione di carbonato) dall’epoca pre-industriale. L’attuale tasso di acidificazione degli oceani è 100 volte più veloce che in ogni altra epoca degli ultimi 20 milioni di anni e questo rischia di non permettere a quegli organismi marini, che necessitano di un Ph più basico, di riuscire ad adattarsi ai rapidi cambiamenti della chimica dei mari. Lo stato di saturazione dell’aragonite declina con l’aumento dell’acidificazione dei mari ed è passato da un valore di 3,44 all’attuale 2,9, mentre è previsto raggiungere un valore pari a 2,29 se la CO2 nell’atmosfera raddoppierà rispetto ai livelli pre-industriali (questo comporterà una riduzione del tasso di calcificazione per alcuni organismi marini dal 10% al 60%). Gli scienziati prevedono che gran parte degli Oceani Meridionali e l’Oceano Artico saranno sotto-saturati entro il 2030-2060, con conseguenze nefaste per gran parte degli organismi marini che necessitano della formazione di una conchiglia o un guscio protettivo. Corriamo il rischio di assistere alla morte delle barriere coralline (che rappresentano il 90% della biodiversità marina) e di parte del plancton marino – peraltro già sotto pressione da un aumento delle temperature dei mari.

  • Esaurimento dell’ozono nella stratosfera: lo strato di ozono nella stratosfera filtra i raggi ultravioletti del sole. Il fatto che ogni primavera nell’Antartide si verifichi il fenomeno del buco dell’ozono è un esempio del fatto che abbiamo oltrepassato una soglia del sistema terrestre, dovuta alla combinazione dell’aumento della presenza di sostanze di origine antropica in grado di distruggere lo strato di ozono, come ad esempio i cluorofluorocarburi, e delle nuvole stratosferiche ai poli. La comparsa di vasti “buchi” nello strato di ozono causa seri danni agli organismi marini (ma anche all’uomo) ed è probabile che assisteremo ad un aumento di tutto questo anche a causa del riscaldamento globale che va ad aumentare le nuvole presenti nelle stratosfere dei poli (gli scienziati sostengono che sia probabile la formazione di un altro buco dell’ozono nelle regioni artiche). Con la firma del Protocollo di Montreal nel 1987 sono comunque state messe al bando gran parte delle fonti che causano l’emissione di questi gas deleteri per lo strato di ozono (i cluorofluorocarburi) e la concentrazione di questi nell’atmosfera si sono stabilizzate o sono addirittura diminuite, anche se gli effetti negativi continueranno ancora per molti decenni.

  • Ciclo del fosforo e dell’azoto: le interferenze umane nel ciclo dell’azoto e del fosforo hanno causato improvvisi e pericolosi mutamenti della biochimica dei laghi e degli ecosistemi marini. Il processo di eutrofizzazione è infatti causato dalle emissioni di azoto e fosforo da parte delle attività umane. Per quanto riguarda l’azoto abbiamo già ampiamente superato la soglia di sicurezza fissata dagli scienziati, con l’attività umana che da sola converte più azoto molecolare (N2) dall’atmosfera che tutti i processi terrestri naturali messi insieme. La conversione di azoto avviene principalmente dai processi di fissazione industriale che trasformano l’azoto molecolare in ammoniaca (circa 80 milioni di tonnellate l’anno), dai processi agricoli attraverso l’utilizzo di colture leguminose (40 Mt l’anno) e dalla combustione di combustibili fossili (20 Mt l’anno) e biomasse (10 Mt l’anno). Gran parte dell’azoto che viene utilizzato per i processi di fertilizzazione finisce nell’ambiente e va a inquinare i fiumi e le zone costiere, causando poi i processi di eutrofizzazione e gli eventi anossici (assenza di ossigeno) e di intorbidimento delle acque che spiegano, almeno in parte, l’estinzione di massa della vita marina di alcune zone costiere. C’è da notare che il protossido di azoto, una delle forme in cui l’uomo trasforma l’azoto molecolare, è uno dei più potenti gas serra che ci siano in circolazione. La soglia fissata dagli scienziati entro cui dovrebbero attestarsi i processi di fissazione dell’azoto da parte dell’uomo è pari a 35 Mt l’anno (ovvero il 25% del valore attuale). Per quanto riguarda il fosforo (un minerale che a differenza dell’azoto deve essere estratto), si tratta di un fertilizzante indispensabile per garantire i risultati della moderna agricoltura industriale. Di fosforo se ne estraggono 20 Mt all’anno, anche se si stima che 10,5 Mt di questi finiscono dai terreni agli oceani – dove causano gli stessi fenomeni di eutrofizzazione ed eventi anossici dell’azoto. Nonostante il sostanziale incremento dei flussi di fosforo nell’oceano (pari a 8-9 volte il flusso naturale, laddove il limite a livello planetario è stato fissato dagli scienziati in valori inferiori alle 10 volte il flusso naturale), si stima che un evento anossico su scala globale sia ancora piuttosto improbabile, mentre non sono da escludere eventi anossici su scala regionale o locale.

  • Perdita di biodiversità: la biodiversità svolge un ruolo essenziale per il buon funzionamento dei Sistemi Terrestri grazie a una serie di differenti meccanismi di risposta alle variazioni ambientali tra le varie specie. Questo permette ai sistemi terrestri di aumentare la propria resilienza, cioè la capacità di resistere ai cambiamenti esterni. E’ infatti importante notare che gli ecosistemi con un basso livello di diversità sono più vulnerabili agli shock esterni (ad esempio l’avvento di una malattia) e sono quindi maggiormente a rischio di vedere un repentino e catastrofico declassamento delle proprie condizioni strutturali. Stiamo vivendo nella sesta maggiore estinzione della storia della vita sul pianeta e dovremmo tenere ben presente che le passate estinzioni hanno sempre portato a cambiamenti permanenti della composizione biotica e del funzionamento del Sistema Terra. L’attuale tasso di estinzione supera ampiamente il tasso di creazione di nuove specie e questo significa che stiamo perdendo (e per sempre) la complessità dei nostri ecosistemi. Il tasso medio di estinzione del passato è stato stimato grazie allo studio dei reperti fossili e si attesta tra 0,1 e 1 specie per milione all’anno (0,3 per i mammiferi). Ma è importante notare che dall’avvento dell’Antropocene l’umanità ha aumentato il tasso di estinzione di valori tra le 100 e le 1.000 volte, portandolo a livelli superiori alle 100 specie per milione all’anno che scompaiono per sempre – mentre le previsioni entro la fine del XXI° secolo sono disastrose e parlano di 1.000 – 10.000 specie per milione. Attualmente il 25% delle specie conosciute sono minacciate di estinzione (dal 12% degli uccelli al 52% delle cycas) e tra le cause dell’aumento del tasso di estinzione ci sono i cambiamenti della destinazione dei terreni (da foreste a terreni agricoli), l’introduzione di nuove specie alloctone e i cambiamenti climatici (oltre che la pesca intensiva o la contaminazione dell’ambiente da parte degli inquinanti chimici). Siamo quindi già entrati, almeno per quanto riguarda la perdita della biodiversità, nella pericolosa area rossa dove potremmo aspettarci repentini e improvvisi cambiamenti dei Sistemi Terrestri. E’ quindi della massima urgenza riportare il tasso di estinzione intorno alle 10 specie per milione e garantire la sopravvivenza a quelle specie ritenute più importanti per il funzionamento degli ecosistemi, come i predatori e le specie strutturali più importanti (ad esempio i coralli o alcuni tipi di alghe).

  • Prelievo di acqua dolce: l’umanità ha influenzato anche il ciclo globale dell’acqua dolce, oggi è infatti l’uomo il fattore dominante nella regolazione del flusso dei fiumi (circa il 25% dei bacini idrici mondiali arriva secco al mare) del nostro pianeta così come nella stagionalità dell’evaporazione dell’acqua. Il 90% dell’acqua proveniente dalle precipitazioni (“green water”) serve a mantenere l’umidità del suolo ed è quindi indispensabile per gli ecosistemi, mentre dal 20% al 50% della media dell’acqua che si trova nei fiumi e nei laghi (“blue water”) è necessaria per mantenere le funzioni degli ecosistemi fluviali. I cambiamenti dell’uso delle risorse idriche insieme con gli effetti dovuti ai cambiamenti climatici possono incidere sul ciclo idrogeologico sia a livello locale che globale, laddove la disponibilità di “blue water” va a interferire con le precipitazioni e l’umidità locale (“green water”). Un esempio di superamento di una soglia è avvenuto nella regione del Sahel tra i 5.000 e i 6.000 anni fa, quando vi fu un improvviso e repentino cambiamento da uno stato umido a uno secco e molti scienziati considerano a rischio il futuro livello di precipitazioni dell’Amazzonia sia a causa dei cambiamenti climatici che dell’avanzata di terreni agricoli e pascoli e/o la deviazione di fiumi o la costruzione di dighe. Il limite a livello globale per l’utilizzo delle acque di fiumi e laghi (“blue water”) è fissato intorno ai 4.000 km3 all’anno, laddove il superamento di questa soglia metterebbe seriamente a rischio l’approvvigionamento di “green water” e si rischierebbe il collasso degli ecosistemi terrestri e acquatici. L’attuale prelievo di acque da fiumi e laghi è pari a circa 2.600 km3 all’anno, motivo per cui l’umanità ha ancora un certo margine di movimento, anche se le pressioni sulle risorse idriche sono in continuo aumento a causa della sempre maggiore domanda di cibo di una popolazione in continua crescita (il consumo di “blue water” può aumentare dal 25% al 50% già entro il 2050).

  • Cambiamenti di destinazione del suolo: l’espansione e l’intensificazione dell’agricoltura rappresenta il principale fattore dietro il cambiamento di destinazione del suolo (in genere la distruzione di una foresta o di uno spazio umido per far spazio a dei campi coltivati o a dei pascoli), con il rischio di contribuire ancora di più ai cambiamenti climatici (diminuendo la capacità di assorbire la CO2 da parte degli ecosistemi), all’aumento delle immissioni di azoto e fosforo nelle acque e alla perdita della biodiversità del pianeta. La conversione di foreste e altri ecosistemi in terreni agricoli è stata pari a un tasso medio annuo dello 0,8% negli ultimi 40-50 anni e ci stiamo avvicinando alla soglia in cui il funzionamento dei vari cicli del pianeta sono prossimi ad incepparsi. Il limite entro cui destinare terreni alle coltivazioni e i pascoli è pari al 15% della superficie terrestre libera dai ghiacci. Per rimanere entro questi limiti l’umanità, dal punto di vista dell’offerta di cibo dovrebbe destinare alle coltivazioni agricole le aree più produttive (invece di costruirci insediamenti urbani o di coltivare biocarburanti), mettere in atto misure per evitare la perdita della fertilità del suolo (come ad esempio l’agricoltura biologica), costruire sistemi di irrigazione più efficienti (ad esempio il sistema goccia a goccia). Dal punto di vista della domanda di cibo, invece, ci vorrebbero misure in grado di modificare le abitudini alimentari (diminuendo il consumo di prodotti di origine animale), diminuire il consumo pro-capite di cibo da parte delle persone in sovrappeso e implementare misure in grado di diminuire la popolazione umana (dalla scolarizzazione delle bambine ai metodi contraccettivi) e gli sprechi nella catena distributiva. Si stima che circa il 12% delle terre del pianeta nel 2005 erano coltivate e gli scienziati quindi considerano ancora la presenza di un certo margine per un’ulteriore espansione dei terreni agricoli pari a circa 400 milioni di ettari (rispetto ai valori del 2005), ma è assai probabile che questo limite venga raggiunto entro pochi decenni.

  • Aerosol: la concentrazione di alcuni tipi di aerosol nell’atmosfera è raddoppiata dall’epoca pre-industriale. L’immissione di aerosol come il particolato e tutte le varie forme di polveri sottili provenienti dalla combustione di carbone, rifiuti o benzina sono in grado di influenzare il clima (ad esempio tramite il fenomeno dell’oscuramento globale) e provocare effetti negativi sulla salute umana. Questi tipi di aerosol influenzano la bilancia delle radiazioni terrestri rimandandole indietro nello spazio ed è provato che l’inquinamento umano è ad esempio in grado di influenzare i monsoni asiatici o raffreddare il clima. Per quanto riguarda la salute, invece, il particolato fine (ad esempio il PM 2,5) è responsabile di circa il 3% dei decessi nel mondo legati alle malattie cardiopolmonari e circa il 5% dei tumori alla trachea, ai bronchi e ai polmoni. Si tratta di circa 800.000 morti all’anno e le cause sono direttamente imputabili all’inquinamento delle zone urbane e industriali. Gli stessi componenti degli aerosol (ad esempio particolato, ozono della troposfera, ossido di zolfo e azoto) possono però portare ad altri effetti negativi, come i danni alle coltivazioni dovuti all’esposizione dell’ozono o il degrado delle foreste e la perdita dei pesci d’acqua dolce per colpa delle piogge acide. La complessità degli aerosol in termini di varietà di particelle implicate e fonti di immissione, oltre che alla relativa imprevedibilità dei fattori in grado di determinarne le future dinamiche sono i principali motivi per cui non siamo ancora in grado di fissare un limite preciso per quanto riguarda questi inquinanti (cioè potremmo già avere superato il limite a livello mondiale laddove l’unica certezza è che meno aerosol immettiamo nell’ambiente e meglio è).

  • Inquinamento chimico: componenti radioattivi, metalli pesanti e tutta una vasta gamma di composti organici e inorganici di origine umana sono la causa dell’inquinamento chimico che ha già contaminato molti ecosistemi e forse l’intero pianeta. L’inquinamento chimico influisce sulla salute umana (ad esempio danneggiando il sistema immunitario) e degli ecosistemi, aumentandone la vulnerabilità nei confronti dei fattori di stress come i cambiamenti climatici. L’esposizione diretta agli inquinanti chimici nell’ambiente abiotico (atmosfera, acqua, suolo) o attraverso il processo di bioaccumulo nella catena alimentare porta infatti a conseguenze deleterie per l’ambiente e per gli esseri umani. Si stima che siano dalle 80.000 alle 100.000 le sostanze chimiche che sono state immesse nell’ambiente da parte dell’uomo (per 1.000 di queste vi è la certezza scientifica della loro neurotossicità, ma per molte di queste non ne conosciamo bene gli effetti). Il problema non è solamente la mancanza di studi completi sugli effetti per le singole sostanze chimiche, ma soprattutto come valutare la tossicità delle infinite composizioni che le 80.000-100.000 sostanze chimiche possono creare. Ad esempio, l’esposizione cronica a basse dosi di alcuni inquinanti chimici (come i pesticidi o il bisfenolo A – un additivo di alcuni tipi di plastica) può portare ad effetti nefasti, come lo scombussolamento del sistema endocrino, malattie o disordini del neurosviluppo come autismo, deficit dell’attenzione e iperattività nei bambini, ma anche lo sviluppo di tumori o problemi al sistema di riproduzione. La Convenzione di Stoccolma del 2001 sugli inquinanti organici persistenti ha di fatto sancito il superamento di un limite planetario, almeno per un ristretto gruppo di sostanze chimiche (PCB, diossine, DDT e altri pesticidi). Questi inquinanti sono stati messi al bando un po’ dappertutto (ma a maggio del 2013 paesi come l’Italia, Israele, la Malaysia e gli Stati Uniti non avevano ancora ratificato la Convenzione!) a causa degli effetti ormai riconosciuti e dell’alta concentrazione di queste sostanze nei tessuti adiposi di alcuni predatori come le aquile reali o gli orsi polari (ma anche l’uomo). Al momento non è possibile individuare un preciso limite a livello planetario per questo tipo di inquinanti.

E’ assurdo quanto la nostra società stia giocando col fuoco, ovvero con i limiti del nostro pianeta.

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Laureato in Economia, ho avuto diverse esperienze lavorative (tra cui Ambasciata d'Italia a Buenos Aires, Monte dei Paschi, Freeandpartners, Nestle). "Verso la fine dell'economia - apice e collasso del consumismo" è il mio nuovo libro, edito da Fuoco-Edizioni. http://economiafinita.com

2 Commenti

  1. Così finiscono le mail di un mio amico canadese: “If there is not an economic collapse soon, something terrible is going to happen”. Un collasso che segni la fine degli andamenti attuali è divenuta una speranza. I veri pessimisti sono coloro che pensano che ci sarà “la ripresa” e tutto andrà avanti come prima.

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