Quando il giovane sottotenente Giovanni Drogo intravede per la prima volta da vicino la Fortezza Bastiani, alla quale è stato assegnato, questa gli sembra avvolta da un attraente senso di mistero. La Fortezza Bastiani era solo una fortezza di seconda categoria, vecchia e mai stata di una qualche utilità, finalizzata a proteggere una “frontiera morta”: la grande pianura del regno del Nord, “il pietroso deserto per dove nessuno era mai passato” (D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, Mondadori, 2009, p.19). Eppure, chi la abita da una vita, come il capitano Ortiz, continua a credere che, in fondo, “la frontiera è sempre frontiera e non si sa mai…”.
Drogo non ha scelto il servizio alla Fortezza, vi è stato assegnato d’ufficio e, nonostante la prospettiva di un lavoro routinario e l’isolamento dell’edificio inizialmente lo spingano a voler tornare indietro, il deserto del nord continua ad apparirgli come promessa di un destino diverso da quello che l’ “immagine pallida” della sua vecchia città sembrava offrirgli. Così Drogo rimane alla Fortezza Bastiani, imbrigliato nella sua comoda routine, invischiato nel “ritmo di servizio” e nelle abitudini che, giorno dopo giorno, cancellano lo scorrere del tempo.
Una grande riflessione sul tempo, oltre a molte altre, è quello che ci offre Il deserto dei Tartari, il celebre romanzo di Dino Buzzati, pubblicato nel 1940. Un senso di attesa lo percorre, da inizio a conclusione, un’attesa che sovrasta lo scorrere del tempo, inesorabile ma silenzioso, e che lascia aperta una grande domanda: per cosa?
In fondo, l’attesa di Drogo, come l’attesa di tutti, non è che l’attesa di qualcosa che dia senso alla vita, in un certo senso un’attesa di morte. Attesa di qualcosa che giustifichi le non scelte fatte, il tempo sprecato nell’inerzia delle abitudini. Drogo non sceglie la Fortezza, ma ci resta. Quando farà domanda di trasferimento, Drogo semplicemente si rassegnerà al fatto di non averla ottenuta e rientrerà nelle confortante routine della Fortezza, ormai divenuta riparo dalla solitudine della città, dalle relazioni profonde, dagli impegni e le responsabilità. Ma intanto il tempo passa, tanto più rapido quanto più comodo. Il tempo che, al giovane Giovanni Drogo, sembrava “una serie lunghissima, di cui è impossibile scorgere il fondo, un tesoro ancora intatto e così grande da potersi annoiare”. (p.74) Il tempo che invece, come accade per tutti, “si sarebbe dissolto ancora prima di farsi conoscere”.
Il tempo intanto correva, il suo battito silenzioso scandisce sempre più precipitoso la vita, non ci si può fermare neanche un attimo, neppure per un’occhiata indietro. “Ferma, ferma!” si vorrebbe gridare, ma si capisce ch’è inutile. Tutto quanto fugge via, gli uomini, le stagioni, le nubi; e non serve aggrapparsi alle pietre, resistere in cima a qualche scoglio, le dita stanche si aprono, le braccia si afflosciano inerti, si è trascinati ancora nel fiume, che pare lento ma non si ferma mai.
D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, Mondadori, ed. 2009, p.195
Dopo una lettura lunga, lenta, talvolta affaticata, ma necessaria, come ogni cosa che riveli un minimo di importanza, credo sia questa riflessione aperta il regalo che mi lascia l’opera di Buzzati. Perché Giovanni Drogo sono io, siete voi, siamo tutti, ogni volta che ci diciamo “senza tempo”, ma non ci accorgiamo che il tempo lo stiamo subendo, inscatolati dietro “servizi di guardia” di dubbia utilità, nell’attesa di un “nemico” che non esiste o di qualcosa che, prima o poi, darà dignità alle cose. Giovanni Drogo siamo tutti noi, ogni volta che non scegliamo davvero il senso del nostro tempo, non ci chiediamo di cosa abbiamo davvero bisogno, ogni volta che ci nascondiamo in una fortezza di finte sicurezze.
E chissà che volgendo lo sguardo verso i tanti deserti che oggi ci promettono false salvezze e illusioni di grandezza, per una volta questi non ci appaiano per nient’altro che ciò che sono: grandi e immensi deserti. Perché arriva sempre un momento in cui appare chiaro che ciò dietro cui ci siamo riparati, ciò che ci ha illuso di meritare tanto del nostro tempo (e qui ciascuno ci potrà vedere il proprio) non era altro che “un pretesto per dare senso alla vita”(p.170). E invece, come Giovanni Drogo scopre alla fine, la vita non ha bisogno di pretesti, ogni occasione è sempre una grande occasione, anche nella più triste solitudine è possibile varcare “con piede fermo il limite dell’ombra” e, se si riesce, sorridere.